Ripartire il desiderio
Un femminismo materialista
Ripartire dal desiderio (minimumfax 2020), di Elisa Cuter, è un tentativo materialista di leggere i femminismi contemporanei. Il titolo, come del resto la copertina, è già un programma e un’indicazione. Quel «ripartire», ci avverte l’autrice, non deve essere inteso né nel senso ironico del meme né tantomeno nell’oggetto della parodia del meme (la normatività), ma nella sua ambivalenza: ripartenza come ripartizione. Ripartizione del desiderio che richiama, da un lato, il «separare, cioè creare quel conflitto che per me dovrebbe ritrovare rappresentazione nella politica» e, dall’altro, «l’atto del «ridistribuire», possibilmente secondo la famosa massima di Marx: «A ciascuno secondo il suo bisogno» (p. 201). Il desiderio, certo, è qui legato immediatamente alla questione di genere, che costituisce il cuore della riflessione del testo, ma mediatamente richiama un’altra politica, un’altra etica, che sono quelle del materialismo. Se il desiderio è infatti «la rivoluzione permanente, quasi la negazione dell’utopia realizzata una volta per tutte» (p. 202), allora anche un «reddito universale basato su fiscalità progressiva, per fare un esempio, o una forma di governo alternativa agli stati nazione […] hanno bisogno di essere intesi come desiderio prima di poter costituire un programma» (pp. 200-201).
Femminismo e neoliberismo: fenomenologia della speranza
Cuter traccia un’attenta fenomenologia dell’alleanza tra (certo) femminismo e neoliberismo. Alla nuova alleanza corrisponde una precisa porzione dell’attuale metamorfosi del lavoro: la femminilizzazione. L’album di famiglia raccoglie soggettività e situazioni tra loro apparentemente disparate, come fa notare nell’introduzione quando nel quadro firmato «Come gli uomini, meglio degli uomini» rientrerebbero insieme «Margaret Thatcher, donna-non donna, completamente desessualizzata, e Ambra [Angiolini], pura femminilità, oggetto sessuale infantilizzato» (p. 15). La convivenza tra il femminismo liberal e il neoliberismo viene letta, in questa metamorfosi, come prodotto della «speranza cioè che essere necessari a questo sistema produttivo implicasse inevitabilmente un’acquisizione di diritti» (pp. 67-68). Nella forma della riproduzione della forza lavoro, nel lavoro stesso, nel consumo.
Seppure tentata dal definire questo processo nei termini operaisti del divenire-fabbrica della società, l’autrice ritrova piuttosto una «domesticazione della produzione» (p. 75), una delle cui concrezioni sarebbe l’«home office» che oggi, in piena pandemia, ritroviamo diffuso nella forma dello smart-working. Se dopo trent’anni di neoliberismo non fosse chiaro, l’attuale situazione ci mostra nella maniera più evidente come quella speranza alla base del femminismo liberal sia una forma di mistificazione della transizione post-fordista. Anziché migliorare le condizioni della «donna», non si fa che estendere, per tutt*, forme di «lavoro invisibile, non retribuito e privo di tutele ma necessario almeno quanto lo è sempre stato il lavoro riproduttivo delle donne» (p. 79). Eliminare dal proprio orizzonte d’analisi — operazione molto cara al liberalismo, carissima al neoliberismo — il riferimento ai rapporti sociali, a favore di un pensiero normativo delle e sulle relazioni sociali, ha prodotto un femminismo che «punta alla meritocrazia, non all’emancipazione». E dove manca una critica materialista del presente, a guadagnarci è sempre la metafisica, che riafferma «il valore naturale, intrinseco ed essenziale della femminilità, fa il gioco del capitale», nascondendo dall’ordine del discorso «la violenza e il darwinismo sociale connaturati all’idea di meritocrazia e competizione da cui è costituito il capitalismo» (p. 94). O meglio, sottolinea Cuter, se il darwinismo sociale è il grande assente, la violenza subisce una sublimazione ontologica, trasformando il femminismo da prassi di liberazione e trasformazione dell’esistente ad una riedizione del sempiterno manicheismo del pensiero automatico.
Entra a questo livello l’esigenza di una fenomenologia del femminismo liberal, le cui figure (la vittima, la puritana, la Madre) attentamente analizzate sono diverse espressioni dell’oggettivazione del femminile all’interno di un discorso pubblico che appare molto, troppo simile alla dialettica hegeliana Servo-Padrone. Con la sola differenza che, in questo caso, servo e padrone, soggetto e oggetto, vengono sostanzializzati e, dunque, non possono essere interscambiabili. Il Padrone resta Padrone, uguale a se stesso; il Servo, la serva, rimane tale, anch’essa uguale a se stessa. La campagna del #metoo, ad esempio, oltre ad aver messo al centro del discorso generale (e generalista) la quotidiana situazione di violenza vissuta dalle donne e dai soggetti non-eteronormati, ha finito con l’ipostatizzare la condizione di vittima. Che invece è il prodotto storicamente determinato di ben definiti rapporti di forza (sociali, economici, culturali). Innescando un processo di definizione della donna come vittima per natura: «[s]ei una vittima, ergo senza macchia e senza peccato» (p. 104). In altre parole, nel meccanismo foucaultiano della confessione, a emergere è anche un’incapacità di prendere le distanze dalla violenza subita, e forse, partendo dai media e dal loro interesse per la questione delle molestie, possiamo arrivare a capire quale sia l’investimento individuale in questo tipo di narrazione, a cominciare da quello delle vittime (pp. 108-109).
Appare con questo volto l’ideologia, del tutto funzionale allo status quo e allo stato di cose presente, che è il risultato di una precisa volontà di disgiungere la violenza di genere da quella, più generale, che ognun* vive nelle relazioni e nei rapporti sociali. Si è venuto così configurando un femminismo che si preclude il nesso logico — oltre che programmatico — tra lotta al patriarcato e lotta al capitalismo. E che così esclude dal suo campo visivo la possibilità, da un lato, di un’indagine sull’intersezionalità della violenza e, dall’altro, la costruzione di convergenze tra le lotte. Tra le pieghe di questo discorso, emerge «il primato eticista puritano», che al posto di «incoraggiare l’occupazione femminile, di fare educazione sessuale nelle scuole, di finanziare i centri antiviolenza, di garantire aborto e contraccezione gratuiti, di stabilire il diritto al congedo di paternità […] lascia la questione alla condotta individuale» (p. 122). Quando un problema che si manifesta a livello delle relazioni e dei rapporti sociali viene escluso dal pubblico e rigettato nel privato, ad intervenire è la norma nella sua forma più antica, e il pensiero automatico svela il suo volto teologico. Se la violenza di genere è solo frutto della malvagità dell’uomo perché uomo, e la donna è una vittima naturale, la sola risposta possibile rimane la morale. Che si declina, come sempre, nel senso di colpa e nel vittimismo: «le donne se la prendono con loro stesse anche quando cercano di fare azione politica, gli uomini invece sempre con la donna, sentendosi depositari di un qualche diritto di cui sono stati ingiustamente privati» (p. 137). Privatizzazione della violenza = legittimazione della violenza. Questo succede quando si vuole «riportare tutto al soggetto, alla sua esperienza personale e alla sua responsabilità morale», e cioè il generare «un senso di profonda impotenza di fronte al sistema, che è il corollario dell’assenza di un orizzonte collettivo e della sensazione di solitudine che si vede nell’eccesso di soggettivazione identitaria» (p. 138).
L’individualizzazione della violenza di genere è dunque una vacanza del potere, «un abdicare al ruolo del potere, che qui non va inteso come potere coercitivo ma come potere in senso positivo, di potenza, di percezione di poter fare qualcosa, di agency insomma» (p. 147). Cuter individua il prete par excellence della vacanza del potere nella Madre, sacerdotessa del «Fare la Cosa Giusta», il cui soft power è più che «coerente con la definizione di biopolitica» (p. 150), che viene qui declinato come normazione dei rapporti sessuali, delle «Buone Maniere» e dell’educazione alla socialità. A differenza del potere paterno, «decisione e coercitivo», quello materno «rende la ribellione praticamente impossibile e porta esattamente a[l] ripiegamento su se stessi» (pp. 151-152).
La vacanza del potere produce allora un senso di impotenza e di isolamento insopportabili, soprattutto se calati nel nostro presente, in cui la parcellizzazione e la frammentazione sociali sono il calco della moltiplicazione delle forme della lotta del capitale nell’esercizio del suo sfruttamento della forza lavoro. La violenza simbolica (senso di colpa, vergogna e vittimizzazione) che vi si aggiunge rende la vita invivibile. La risposta, entro questo ordine del discorso, è ancora un’altra forma più interiorizzata di soft power di quello materno, nella declinazione dell’«orgoglio del sacrificio» emblematicamente racchiuso nell’ingiunzione dell’immaginario identitario del femminismo liberal: «ama te stesso, you are beautiful, you is valid, perché io valgo» (p. 180). Subentra qui un’altra figura del prete, la sinistra e la sua «retorica della responsabilità, della tutela, della cura», legata a «un desiderio fascista di ordine e disciplina, un qualcosa di militaresco, legato alla fascinazione per i «poteri forti»». Lo stiamo vedendo in questi giorni, in cui il governo italiano sta procedendo più da Madre che da padre padrone, tagliando fuori dalle misure di contenimento del contagio tutto ciò che riguarda la produzione — o che ne è funzionale, come suggerisce Gualtieri nel giustificare l’apertura a tutti i costi delle scuole con una beffarda liberazione delle donne dal lavoro di cura — e colpevolizzando tutto ciò che riguarda la socialità. Cuter lo riassume in maniera netta, tagliente: nella crisi globale della cura, in cui il welfare collassa e sempre meno persone possono permettersi di ridurre i ritmi di lavoro per supplirvi, la proposta della sinistra è quella di inorgoglirsi del ruolo di madri capaci di assumersene tutto il peso (p. 154).
Un femminismo materialista per una liberazione desiderante
Oltre l’essenzialismo, oltre l’ontologizzazione e la naturalizzazione della condizione patriarcale, oltre la morale e la norma, oltre i preti del Fare la Cosa Giusta. Al di là del bene e del male. Il salto sta nello «sganciare il concetto di cura da quello di femminile nel senso tradizionale e quindi deteriore, occorre eliminare il discorso della responsabilità e portare al centro quello di desiderio. Evitare l’orgoglio identitario, rifiutare il sacrificio, rifiutare il lavoro, sia produttivo che riproduttivo, rifiutare il ricatto e la responsabilità a doverlo svolgere, vuol dire riaffermare la cura come desiderio» (p. 191). Una pratica, una postura, un’etica che vogliono essere prassi, pensiero e azione, e che trovano nel materialismo il loro dispositivo teoretico-pratico per eccellenza: storicizzare la discriminazione di genere e porre il desiderio avanti alla cura di sé e degli altri. La sinistra è qualcosa di simile ai codici postali, scherzava Deleuze. Cuter lo ha preso sul serio. Non si tratta cioè di pensare alle forme di riappropriazione del corpo, di sua «accessibilità» (nella versione neoliberista) o di sua «proprietà» (nella versione più classica e lockiana del liberalismo); l’autrice vorrebbe che «si invocasse piuttosto un loro «esproprio proletario» [perché un] corpo senza desiderio è una prigione» (p. 174). Un materialismo erotico, dunque, che è anche un progetto etico-politico, fondato non sui termini, non sui soggetti, ma sulla «struttura del desiderio, che informa con la sua violenza la storia dell’umanità, proprio come il conflitto di classe» (p. 177). Via l’etica della responsabilità, via il sacrificio, via l’obbligo morale. Alla trascendenza della norma e dei ruoli, Cuter oppone un’immanenza dei termini alle relazioni. Il femminismo materialista è uno xenofemminismo, e si fonda su un privilegio epistemico, quello dei subalterni che non cedono ai profumi dell’oppio religioso, qualunque sia il pusher. Nel caso specifico dell’autrice, questo sapere si declina in questi termini: «Se la scelta è tra maternità e isteria, preferisco ancora l’isteria, preferisco essere troia, preferisco la rabbia come motore sociale, preferisco la fica, il taglio, all’utero accogliente. Preferisco il desiderio» (p. 163). All’eticizzazione della politica, il pensiero materialista risponde con la politicizzazione dell’etica.
Questo femminismo lancia una sfida (epistemologica, politica ed etica, teoretica e pratica) per un’altro modo di percepirsi, di porsi nel e di sviluppare il dibattito, di agire. Un antidoto materialista alla triade neoliberista del merito, dell’accettazione e del sacrificio, perché si pone nella stessa postura di Marx e di Engels, e se lo rivendica, che, lontani dal partire da una morale o dalla trascendenza della norma nella forma dell’ingiunzione, «hanno solo fatto notare di non avere niente da perdere» (p. 199). Non abbiamo nulla da perdere, un mondo intero da desiderare.
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