Rocco Scotellaro

Autonomia e subalternità ai margini della Storia

Rocco-Scotellaro-ISGRÒ-1536x1074
Emilio Isgro, L'uva puttanella (2023) - E la mia Patria è dove l'erba trema; 45 artisti d’oggi rileggono l’opera di Rocco Scotellaro, Galleria Nazionale d'Arte Moderna e Contemporanea di Roma.

Can the Subaltern Speak? È il titolo di alcune tesi di Gayatri Chakravorty Spivak raccolte in un saggio pubblicato nel 1988. Tesi suggestive quanto discusse, in cui la filosofa anglo-indiana conclude che no, i subalterni non possono parlare: un subalterno che parla, perde la sua condizione subalterna. Di sfondo a questa riflessione vi sono la definizione di subalterni e l’importanza del loro ruolo nella concezione gramsciana di storia, cioè, la frammentarietà della loro organizzazione e l’assoggettamento all’egemonia dei ceti intellettuali quali mediatori della borghesia proprietaria.

La domanda di Spivak è anche la medesima che si sono posti alcuni intellettuali della prima metà del secolo scorso, quando hanno provato a fungere da mediatori, da traduttori dei contadini e dei subalterni, per dare loro voce e presenza nella Storia del Novecento e per materializzare la concezione di vita della «civiltà contadina», posta sul crinale fra il pre-moderno e il moderno, il «magico» e il razionale, il «crepuscolare» e il «neorealista», l’a-storico e lo storico. Gramsci, Levi, de Martino, Scotellaro, Pasolini, sono alcuni degli epigoni che hanno tentato tramite degli attrezzi, talvolta filosofico-politici, talaltra poetici e letterari, di fare inchiesta: studiare e narrare il mondo magico e oscuro dei subalterni. Oscuro, si badi, per la modernità capitalistica e per i sostenitori dello sviluppo, senza soluzione di continuità; e non per coloro, forse gli ultimi, che hanno conosciuto l’autenticità e la resistenza delle società rurali, convinti che la conoscenza, tramite la mediazione e la mimesi, passasse per un impegno civile e un progetto pedagogico di emancipazione culturale.

Il libro di Marco Gatto Rocco Scotellaro e la questione meridionale. Letteratura, politica, inchiesta (Carocci, Milano, 2023, pp. 165), pubblicato nel centenario della nascita del poeta lucano, lungi dall’essere stato scritto per l’occasione e – come spesso accade – dai tratti tediosi, ridondanti e poco innovativi. Anzi, è un testo prodotto da studi approfonditi fra archivi e bibliografia meridionalistica, che ridona ossigeno tanto alla biografia quanto al profilo intellettuale e soprattutto politico di Scotellaro – con buona pace del mainstream letterario nazionale. Esordisce Goffredo Fofi nella Prefazione, con un afflato quasi liberatorio: «Finalmente un saggio che rende giustizia alla complessità e soprattutto e nonostante tutto all’attualità di una figura come quella di Scotellaro, poeta e militante politico, lucano ma di sintonie vaste e sconfinate».

Il saggio attraversa differenti piani, alcuni dai tratti lisci e coinvolgenti, altri, striati e difficoltosi, ché richiedono una conoscenza di rudimenti etnoantropologici, letterari e storico-filosofici, e altresì una conoscenza ampia delle interpretazioni del marxismo, del gramscianesimo, delle ricerche di Ernesto de Martino, degli scritti di Carlo Levi e della storiografia sulla questione meridionale. Insomma sembrerebbe ostica come lettura. Eppure il lettore non resta spaesato o incapace di seguirne il percorso scientifico: la straordinarietà di Gatto è quella di introdurre il lettori negli incunaboli dei piani del libro, nei percorsi che l’autore stesso ha esplorato rileggendo la figura di Scotellaro attraverso alcune filigrane quali la sua biografia interrelata con il suo percorso intellettuale, poetico-letterario e politico.

La struttura del libro prende le mosse dagli anni della formazione e dell’apprendistato a quelli del ritorno a Tricarico e della scelta «politica e poetica» della militanza socialista, delle lotte contadine per la terra e la salute, e della stagione riformista da Sindaco; per ricostruire, poi, il periodo della «crisi», che comprende l’incubo dell’arresto ma anche la rinascita grazie alla poesia, alla saggistica e agli studi, e soprattutto grazie al rapporto con i «fratelli maggiori» de Martino e Levi, passando alla funzione della mediazione con il mondo contadino e all’ostilità delle classi dirigenti meridionali; per concludere con gli ultimi scampoli di vita, con il periodo di Portici e l’inchiesta sulla cultura e sulle condizioni di vita delle popolazioni del Sud, un incarico all’Osservatorio Agrario voluto da Manlio Rossi Doria, suo grande estimatore; per concludersi con la morte giovane e maledettamente repentina, in quel soggiorno all’ombra del Vesuvio.

Il testo è catartico nella storiografia sulla «questione meridionale». Pare che spalanchi le ante per lasciar entrare primavera: ridona aria ai tanti, troppi, saggi e tomi ingessati, se non pavidi, nel parlare di intellettuali italiani che hanno scelto «la parte dei senza parte», per dirla con Jacques Rancière, dove situarsi nel mondo. Coloro i quali non sono stati solo degli scrittori o dei pensatori, bensì, prima di tutto dei militanti affianco ai «dannati della terra», come li chiama Frantz Fanon o ai «senza voce» di Spivak . E non per piglio filantropico, né per una «paternalistica prossimità retorica», né tantomeno per una sorta di «benevolente andata al popolo» come mostra l’autore ; ma per uno scambio vicendevole, una cooperazione e una mediazione complice, mimetica, con quella parte di società, quel gruppo sociale difficilmente inquadrabile fra le marxiane «forze produttive», senza identità e senza presenza nella storia nazionale, assai simile alla «rude razza pagana», così come definito da Mario Tronti.

Gramsci ha cercato di descriverne le caratteristiche e la frammentarietà, coniando la categoria di «gruppi subalterni» che, nella dimensione urbana, corrisponde al «lumpenproletariat» di Marx.

Beninteso lo scopo di questo saggio non lascia dubbi. «Ripoliticizzare Scotellaro»: scrive Gatto nelle prime pagine. Perché, una «sostanziale lettura politica dell’opera di Scotellaro e del suo lascito si è data in anni fin troppo lontani dai nostri». Perché anch’egli ha subito la disgrazia di tanti intellettuali italiani. Calvino, Pasolini, Sanguineti e addirittura Gramsci hanno subito post mortem la iattura della neutralizzazione ad usum delphini: la museificazione nelle teche della cultura nazionale, come fossero soldatini da collezione, e anestetizzarne il pensiero sotto il peso del «potere di normalizzazione» – come ricordava Foucault – che «costringe all’omogeneità», alla pacificazione, espungendo la lotta, la critica e la politica dalla loro vita.

D’altronde quanto accaduto con gli intellettuali d’opposizione vede la responsabilità anche negli ambienti accademici, la cui origine però si rintraccia nella scrittura giornalistica, nelle ricostruzioni «leggere», assai spesso superficiali, volte ad una divulgazione effimera, spesso prive di fonti e di apparati bibliografici. Proprio quegli autori d‘opposizione, per quanto coerenti ed efficaci, anzi proprio in virtù della loro forza comunicativa, sono stati oggetto di processi di assorbimento nell‘ambito della narrazione nazionale dominante.

Secondo Alberto Asor Rosa di Scrittori e popolo, il maggiore responsabile del protrarsi del populismo nella letteratura borghese italiana è stata l’idea di nazional-popolare di Gramsci. Vero è che Asor Rosa si riferisce a un certo uso tattico di quest’idea e della stessa figura del comunista sardo nella strategia togliattiana degli anni Cinquanta per marginalizzare se non zittire le voci dissenzienti, soprattutto del Mezzogiorno. Così Scotellaro ha subito l’ostracismo se non la vera e propria ostilità dei grandi nomi della cultura e della politica della sinistra e del PCI: sminuito da Giorgio Napolitano e stroncato da Carlo Muscetta, poiché ritenuto troppo libero ma, soprattutto, troppo vicino alle istanze di lotta dei braccianti lucani, non facilmente inquadrabili in politiche partitiche. Tuttavia, in Per un libro sui contadini e la loro cultura, scritto programmatico per illustrare le finalità della sua scrittura, Scotellaro affermava: «La cultura italiana sconosce la storia autonoma dei contadini, il loro più intimo comportamento culturale e religioso». D’altro canto negli anni guerra fredda non vi era spazio per contro-condotte autonome, al di fuori delle scelte staliniste del PCI e Scotellaro, seppur da socialista, è stato segnato dal clima politico nazionale. Un clima che ha segnato tragicamente l’esistenza di generazioni di giovani, i quali immaginavano un intervento differente, autonomo, per le classi subalterne meridionali: si pensi al Gruppo Gramsci e al tristissimo epilogo di figure eccezionali quanto travolgenti come Renato Caccioppoli, Guido Piegari o Francesca Marra, che avrebbero potuto immaginare altro per Napoli e il Mezzogiorno, le cui vicende sono state narrate da Ermanno Rea in Mistero napoletano. Vita e passione di una comunista negli anni della guerra fredda e da Mario Martone, nel film, Morte di un matematico napoletano.

Torniamo ancora su Gramsci e i Quaderni del carcere. I Quaderni sono stati riabilitati – o de-togliattizzati – grazie alle traduzioni dei Postcolonial Studies e dei Subaltern Studies. Negli anni Settanta, un gruppo di studiosi anglo-indiani ne ha riletto i concetti chiave – in particolare, l’«egemonia» e il «subalterno» – traducendoli nella realtà indiana, nei processi di colonizzazione e nella costruzione della storia nazionale partendo dai gruppi subalterni e contadini, cioè, da coloro posti ai «margini della storia», per riscrivere e riprendersi un’identità culturale e politica che apparteneva alle popolazioni colonizzate, disattivando così il dispositivo dell’Europa che osserva e narra l’Oriente, come mostrato da Edward Said in Orientalismo. Tale operazione ha permesso di recuperare l’originalità del pensiero di Gramsci, le sue intuizioni soprattutto nel ruolo della cultura, un pensiero, mai chiuso, anzi, proiettato a individuare la molteplicità delle voci e dei volti del proletariato.

La vicenda del pensiero di Gramsci e della rilettura dei Quaderni da parte dei Subaltern Studies ha molto a che vedere con Scotellaro, seppur con le debite comparazioni spazio-temporali, in una sorta di «differenza e ripetizione», per dirla con Deleuze, fra identità, somiglianze e rimandi.

Franco Fortini riferendosi alla poesia di Scotellaro, durante un convegno dedicatogli nel 1955, usò l’espressione «margini della storia» per descrivere il luogo dal quale Scotellaro scriveva. Mutatis mutandis: la stessa espressione viene usata dallo storico ed economista indiano Ranatjit Guha nel 1980 per segnalare il luogo in cui si situano i subalterni e dal quale riscrivere la storia: cambiare la narrazione dando voce a chi non l’ha mai avuta, dunque, affermandone l’identità. Di rimando: da quei margini i versi del poeta lucano davano voce a un mondo in transizione, ossia, non una comunità idilliaca al tramonto, ma società complessa di soggetti in movimento; scriveva nella lirica Lucania:

e là, nell’ombra delle nubi sperduto,
giace in frantumi un paese lucano.

Oppure, in È fatto giorno, annunciava la presenza dei contadini:

Siamo entrati in giuoco anche noi
con i panni e le scarpe e le facce che avevamo.
Le lepri si sono ritirate e i galli cantano,
ritorna la faccia di mia madre al focolare.

Un vero proclama poetico di ingresso nella Storia di chi, fino ad allora, ne era percepito come escluso, estraneo. È «L’affermazione dell’esistenza di un popolo intero», scrive Levi nella Prefazione a È fatto giorno, ad entrare nelle condizioni date, dal proprio contesto storico e materiale, con il proprio carico di relazioni e costruzioni identitarie e comunitarie. Questi sono versi di una potenza disarmante, che segnano un’apertura, squarciando intere dimensioni spazio-temporali.

Fra i vari temi analizzati da Gatto nel suo saggio, ve n’è uno che risponde alla domanda da cui siamo partiti: può il subalterno parlare, o, in altro modo, è possibile dare voce a chi fino ad ora non l’ha mai avuta? È una domanda che attraversa questo saggio e su cui in tanti si sono interrogati, soprattutto coloro che hanno cercato di studiare i movimenti di trasformazione sociale. Una domanda che riguarda, cioè, la «microfisica del potere» per Foucault oppure i «rapporti sociali di produzione» per il marxismo. In altri termini, riguarda la presa di coscienza delle soggettività subalterne o il rapporto fra «classe in sé» e «classe per sé». In effetti quando Gatto espone il suo intento di ripoliticizzare di Scotellaro si riferisce a una funzione ben precisa, alla funzione dell’«intellettuale della mediazione, un gramsciano persuasore permanente». Scotellaro ha dedicato la sua vita per dare voce ai suoi contadini, per mediare fra «cultura egemonica» e «cultura subalterna» e dischiudere tramite l’inchiesta sociale «nuove vie di consapevolezza storica», il che non era per niente automatico, anzi richiedeva metodo, dedizione, militanza. Non gli è certo appartenuta la «visione ristretta e persino romantica» delle classi subalterne: un’accusa mossa da Mario Alicata del PCI a Levi, de Martino e Scotellaro in un lungo e interessante articolo, uscito su «Cronache meridionali», Il meridionalismo non si può fermare a Eboli, e analizzato nel libro:

Qual è dunque il limite del Cristo? Quello di ridurre il problema delle classi subalterne a una dimensione «metafisica, misticheggiante», e di non riuscire a offrire «un’interpretazione dialettica» storica del conflitto fra campagna e città, così rispecchiando non tanto il risultato di una sua elaborazione individuale, ossia di una visione genuinamente ego-riferita, quanto lo «stato d’animo diffuso in certi gruppi di piccola borghesia intellettuale, soprattutto meridionale ma non soltanto meridionale».

L’accusa di Alicata era contestuale alla lotta dei dirigenti del PCI contro le voci dissidenti del Meridione, l’immaturità e l’irrazionalità delle classi subalterne e le letture eretiche del gramscianesimo. In realtà, Scotellaro è stato tutt’altro, a parer nostro, ha cercato di sottrarre la storia delle classi subalterne alla disgregazione e alla episodicità; parimenti, ha funto da intellettuale dei suoi contadini e braccianti, sottraendoli all’influenza dei «grandi intellettuali», cercando di farli agire per i loro interessi e non per quelli degli intellettuali dello strato medio, a loro volta collegati con la borghesia rurale, e che trovavano sostegno per le loro idee reazionarie e per l’antipatia verso i contadini, favorendo così lo status quo. Scotellaro ha agito, inconsapevolmente, rispondendo ai quesiti che Gramsci si era posto nei «Criteri metodici» del Quaderno XXV, per favorire una «autonomia integrale» dei subalterni e portarli dai margini al centro della Storia.

Vi è un aneddoto che potrebbe essere la cifra di questa interpretazione di Scotellaro. Nel 1947, Raniero Panzieri, dirigente socialista, si trasferisce a Bari presso la Federazione del PSIUP. E conosce de Martino, grazie al quale vede all’opera l’inchiesta sociale: un metodo di lavoro in grado di interagire con la cultura, le convinzioni e le condotte personali dei contadini e dei subalterni. Metodo che Panzieri ha poi sperimentato in Sicilia, durante le lotte contadine, e dopo il ’56 fra gli operai di Mirafiori, e che sarà alle radici del neomarxismo italiano dei «Quaderni rossi». Panzieri sa che il passaggio dalla «classe in sé» alla «classe per sé» non è automatico, richiede un metodo scientifico d’inchiesta, la conricerca, un metodo che conduca ad una presa di coscienza, che scardini convinzioni e subalternità, per lasciar emergere gli interessi di classe. Metodo simile l’ha sperimentato a Sud, scoprendo «la storia autonoma dei contadini»; dove, forse, ha conosciuto il poeta lucano; e nel ’55, a un anno dalla morte, ha promosso a Matera il convegno «Rocco Scotellaro intellettuale del Mezzogiorno». L’apprendistato di Panzieri è nel solco tracciato da Scotellaro, la sua formazione è fra i contadini del Sud. E se l’operaismo si sviluppa fuori i cancelli di Mirafiori, la sua ontologia è nelle province meridionali.

Newsletter

Per essere sempre aggiornato iscriviti alla nostra newsletter

    al trattamento dei dati personali ai sensi del Dlg 196/03