Sulle tracce del reale

Linee di fuga del godimento in Lacan e Pasolini

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MP5, Minotaur or the red line of destiny, Lugano 2013

Convergenze

Ci sono degli intrecci tra l’opera di Pier Paolo Pasolini e l’insegnamento di Jacques Lacan? La domanda, un po’ forzata, è comunque legittima. In particolare, ma non solo, lo è dopo e alla luce di un ottimo testo che Gabriele Fadini ha dedicato a questo insolito incontro, Pasolini con Lacan. Per una politica tra mutazione antropologica e discorso del capitalista (Mimesis, 2015). Per provare a rispondere a questa domanda cercherò di utilizzare un altro testo, uscito pochi mesi fa. Si tratta di Risposte pratiche, risposte sante. Pasolini, il tempo e la politica (Castelvecchi, 2018). Lo ha scritto un filosofo, Luciano De Fiore, che insegna all’Università La Sapienza di Roma, un filosofo che da molto frequenta, a vari livelli, il discorso psicoanalitico e la pratica psicoanalitica. Si tratta di un testo che interroga l’opera di Pasolini in modo ampio, non solo dunque in relazione alla psicoanalisi, ma non mancano i riferimenti a questioni psicoanalitiche e in particolare all’insegnamento di Lacan.

Il testo di De Fiore cerca, a mio avviso riuscendoci, di restituire all’opera di Pasolini il proprio «aspetto di inciampo» (p. 18), e per farlo entra nelle numerose scissioni e contraddizioni che la caratterizzano. Tali scissioni, quella tra un’istanza rivoluzionaria e un’istanza conservatrice, fra trasumanar e organizar (p. 106), tra misticismo e ateismo, ecc. non ci consegnano un Pasolini in impasse, abbattuto, rassegnato – come lo intende Didi-Huberman – ma affermano il corpo a corpo nel quale Pasolini è preso, corpo a corpo che, lungi dall’essere la sua impasse, è il punto di forza a partire dal quale riaffermare a rilanciare la «sfida che è Pasolini».

De Fiore nella sua riflessione dà molto valore a due particolari declinazioni di questo corpo a corpo. La prima è quella contro la mutazione antropologica, contro il vero e proprio genocidio realizzato dall’impero delle merci, dal capitalismo avanzato. La seconda riguarda la ricerca del reale perduto. È su questi due vettori della riflessione che entra in gioco l’insegnamento di Jacques Lacan. 

Affermare il reale

Partiamo dal secondo vettore. Possiamo affermare, senza esitazioni, un’ipotesi. Sia l’opera di Paolini sia l’insegnamento di Lacan sono costantemente e radicalmente sulle tracce del reale. L’opera di Pasolini – a mio avviso soprattutto quella di regista – è uno sforzo continuo per tenere aperto il Fuori, cioè quel che è fuori simbolico, «la vita che precede ogni ordine linguistico» (p. 53), il «cristallo fuori dalla storia» (p. 59), la «materia vitale e pulsatile» (p. 126). Uno sforzo che cerca appunto le tracce di questo fuori simbolico, e pensa, e spera, di trovarne alcune nell’uso dei dialetti, nei contadini, nell’India, nella sessualità notturna… – uno sforzo che è per Pasolini l’unico antidoto alla furia del capitalismo.

Questo fuori non è un luogo, un posto al quale tornare nostalgicamente, non è un paradiso perduto, ma è quella vita che coincide con se stessa, quella potenza che è già sempre atto e che proprio per questo non può essere inglobata dal fascismo del capitalismo 

Questo fuori simbolico non è un paradiso perduto, ma è incarnato nella storia (ecco la figura del Cristo così ricorrente) come quella potenza che fonda e disfa la storia stessa. Per quanto esista un’eco nostalgica in molti passaggi dell’opera di Pasolini, lo sfinimento di cui è testimone indica con convinzione che questo fuori non è un luogo, un posto al quale tornare nostalgicamente, non è un paradiso perduto, ma è quella vita che coincide con se stessa, quella potenza che è già sempre atto e che proprio per questo non può essere inglobata dal fascismo del capitalismo, ma della quale però il capitalismo è riuscito a farci perdere le tracce e così facendo a farne obliare la potenza causativa. Questo fuori è il reale.

Allora mettersi sulle tracce del reale, rintracciare le tracce del reale, ritracciare le tracce del reale, è un modo – l’unico? – per restituire al reale la sua dimensione causale, di potenza in atto. Questo movimento è, come detto, per Pasolini l’unico antidoto alla deriva del capitalismo. Diversamente, questo movimento è per Lacan l’osso di un’analisi – analisi che è dunque intrinsecamente politica.

Se Pasolini e Lacan condividono evidentemente – ovviamente in luoghi diversissimi – questo sforzo, allo stesso tempo divergono radicalmente nel modo di portarlo avanti. Per dirla in modo schematico, per Pasolini il reale consiste nelle sue tracce, dunque per affermare il reale occorre affermare le tracce del reale, cercare e produrre tracce del reale, difenderle da chi le sta cancellando ed attaccare chi le sta cancellando. Per Lacan il reale è il tracciarsi delle tracce, è quel che lascia tracce, e dunque va minuziosamente distinto dalle tracce che lascia – detto per inciso, in questa distinzione consiste il processo analitico. Per Lacan pertanto non si tratta di produrre tracce del reale, né tantomeno di difendere le tracce del reale, ma di fare in modo che il reale continui a tracciare, che continui a produrre tracce.

Quando la sovrapposizione fra tracce e reale induce Pasolini a «difendere le tracce del reale», assistiamo alla curvatura più nostalgica e angosciosa – convinzione dell’irrimediabile perdita di queste tracce, della sparizione di ogni fuori – dell’opera pasoliniana, e alla divergenza massima dal modo di affermare il reale concepito da Lacan.

Quando la sovrapposizione fra tracce e reale induce Pasolini a «produrre tracce del reale» – cosa che a mio avviso gli riesce con intensità solo nella produzione cinematografica – assistiamo al Pasolini più perturbante e vitale. Quando Pasolini decide che si tratta di produrre tracce di reale e non di difenderle, la divergenza dal modo di operare di Lacan si riduce sensibilmente. Il punto di partenza dei due però è, come detto, diverso – per Pasolini il reale è la traccia del reale, per Lacan il reale è il tracciarsi della traccia, è quel che traccia – dunque anche il «valore» del produrre tracce del reale è diverso. Per Pasolini produrre tracce del reale è il modo per affermare il reale. Per Lacan produrre tracce del reale – che è quel che si fa ripetutamente in un’analisi – è il modo per produrre la differenza tra la traccia è quello che traccia, tra la traccia e il tracciarsi della traccia, tra la traccia è l’insistenza del reale senza tracce.

Il diritto a godere

Proviamo adesso a entrare nel merito del primo vettore, quello riguardante la mutazione antropologica. Qui De Fiore delinea la convergenza tra l’analisi pasoliniana del genocidio compiuto dal capitalismo e le considerazioni di Lacan sul discorso del capitalista. Si tratta di una convergenza forte.

In effetti, le due coordinate più evidenti e note dell’analisi di Lacan, quelle con le quali lo psicoanalista francese definisce il funzionamento del capitalismo, ossia l’evaporazione della funzione paterna e l’imperativo a godere, sono pressoché identiche – in particolare la seconda – all’analisi di Pasolini. C’è inoltre una terza coordinata, presente solo tra le righe nella riflessione di Lacan – e messa in evidenza da alcuni suoi allievi – mentre è ben più marcata nell’analisi di Pasolini. Si tratta del diritto a godere.

Probabilmente è questa la coordinata più significativa del funzionamento del capitalismo avanzato. Più significativa non solo perché per certi versi è la più incisiva delle tre, ma anche perché, sotto molti aspetti, è l’unica a segnare una vera e propria discontinuità con il passato.

L’evaporazione della funzione paterna è certo una coordinata significativa del funzionamento del capitalismo, ma non segna una discontinuità netta con il passato e con altri funzionamenti. La psicoanalisi è nata constatando l’inconsistenza della funzione paterna – il padre che non conta se non in relazione alla madre, il padre diviso, il padre impotente ecc. L’evaporazione della funzione paterna è dunque un’amplificazione di qualcosa che era già all’opera.

Lo stesso vale per la seconda coordinata, quella dell’imperativo a godere, quella con la quale si segnala una nuova configurazione del superio, la cui funzione non sarebbe più quella di ordinare l’interdetto, ma di intimare a godere: «Godi!» è il superio del funzionamento capitalista. Bisogna però dire che il superio è sempre stato un imperativo a godere, ossia Freud lo scopre e intende così. Non si deve confondere qui il fatto che il superio ha per Freud spesso la declinazione del «Devi!» – godimento e dovere stanno sovente insieme, si costata il godimento nella vita quando si è alle prese con un Devo! Lacan nel suo Seminario XVIII afferma: «ciò che dice il superio è: Godi!»1. – e non si sta riferendo al superio del discorso del capitalista. Pertanto la seconda coordinata del capitalismo non è in netta discontinuità con il passato. Quello che il capitalismo ha fatto e fa consiste nel portare a livello del discorso sociale quello che prima del suo avvento era solo un elemento strutturale – diciamo così, psichico -, ossia l’ingiunzione a godere.

La terza coordinata non sembra essere mai stata presente, almeno non essere mai stata egemone in nessun discorso sociale e non corrisponde a nessun elemento strutturale. Ci stiamo riferendo, come anticipato, al diritto a godere. Se con godimento intendiamo «il pulsare ripetuto e interminabile di un corpo» e «l’eccedenza impossibile da simbolizzare di una soggettività» – così lo intende Lacan – possiamo facilmente intuire come mai ogni funzionamento sociale si è fondato sull’interdetto o sul rinvio o sulla rimozione… di questo godimento. La discontinuità del capitalismo rispetto a qualsiasi altro funzionamento sociale che l’ha preceduto sta nell’essersi fondato e nel fondarsi sul diritto a godere, dunque nel fare – nell’illusione di fare – della «pulsazione del corpo» e dell’«eccedenza impossibile» la norma, l’ordinario, la regola, e offrendo così di conseguenza a chiunque il diritto ad avere e essere il proprio modo di godere. Così facendo il capitalismo ha annientato qualsiasi movimento di separazione, in quanto la separazione è proprio quel processo che avviene al fine di costruire un proprio modo di godere. Per questo poco fa abbiamo detto che la terza coordinata del capitalismo è la più incisiva, ossia quella che non lascia spazio al soggetto di separarsi e dunque lo inchioda nella posizione di colui che ha diritto a godere – dunque di consumatore.

Come fare con il capitalismo?

Lacan e Pasolini, a partire da presupposti diversi, ci conducono a fare i conti con questa tesi nefasta sulle ragioni e sugli effetti del capitalismo. Però, a partire da questa netta convergenza, il loro modo di procedere si differenzia ancora una volta in modo radicale – e, di fatto, per le stesse ragioni di prima.

Pasolini cerca, annuncia, invoca, una forma di soggettività capace di separarsi dal fondo nero determinato dal funzionamento capitalista. Un’altra storia, un’altra dialettica, un’altra temporalità, un’altra sessualità, un altro linguaggio… sono i modi con cui Pasolini cerca di determinare una soggettività, cioè un modo di desiderare, di amare, di godere, di parlare, separata dalla circolarità senza tempo e spazio del capitalismo.

Lacan concepisce la pratica analitica come quel dispositivo in cui può prodursi una soggettività separata dall’annullamento/mercificazione prodotto dal capitalismo? Per certi versi direi di sì; dunque, non dimenticando i presupposti, i luoghi di applicazione, radicalmente diversi, in quest’ottica Lacan continua a rimanere vicino al modo di intendere di Pasolini – e viceversa possiamo dire.

Il funzionamento del capitalismo si fonda sul diritto a godere ma, di fatto, non può trasformare il reale del godimento in un diritto e in una norma. Può credere di farlo, ma non può farlo. Dunque il capitalismo si combatte – nella pratica clinica – facendo «valere» il godimento reale, il godimento non afferrabile dal dispositivo capitalista o facendo intendere che il godimento-diritto del capitalismo altro non è che una difesa e un sembiante rispetto al reale del godimento 

Allo stesso tempo mi sembra di poter dire che Lacan prenda anche un’altra direzione, questa decisamente divergente da quella di Pasolini. Il funzionamento del capitalismo si fonda sul diritto a godere ma, di fatto, non può trasformare il reale del godimento – la pulsazione del corpo e l’eccedenza impossibile – in un diritto e in una norma. Può credere di farlo, ma non può farlo. Non può farlo perché nessun discorso o funzionamento può farlo. Dunque il capitalismo si combatte – nella pratica clinica per quanto riguarda la psicoanalisi – facendo «valere» il godimento reale, il godimento non afferrabile dal dispositivo capitalista o, detto altrimenti, facendo intendere che il godimento-diritto del capitalismo altro non è che una difesa e un sembiante rispetto al reale del godimento. C’è dunque un vizio di forma, una fallacia, al fondo del capitalismo. Affinché le soggettività alle prese con il capitalismo possano farne a meno, cioè non esserne totalmente assoggettate, è necessario affermare il reale del godimento – ossia quello con cui il capitalismo non sa che fare e non può avere a che fare. Fatto questo primo passo sarà possibile operare un processo di soggettivazione – dunque la costruzione di un proprio modo di essere, di godere, di amare… Il processo di soggettivazione collocato prima del momento dell’affermazione del reale del godimento è destinato alla sterilità, poiché non potendo toccare il fondamento del funzionamento capitalista, sarà condannato a sostenerlo nonostante gli sforzi in direzione contraria.

Senza godimento

Un passo molto significativo del testo di De Fiore può permette di dire qualcosa in più di quest’ultimo passaggio, in modo forse da renderlo più chiaro: «I primi anni Settanta sono infatti i primi anni della lacaniana “evaporazione del Padre”. A un’istanza superegoica se ne sta sostituendo un’altra ancora più tirannica e pervasiva, che impone il godimento, attraverso l’iperconsumo. Ne fa le spese la coltivazione del desiderio. […] Non c’è desiderio, se autentico, che possa essere soddisfatto nell’istante e da un oggetto parziale. Il nuovo Potere lo sa, arguisce Pasolini, e quindi la sua azione è volta a espiantare il desiderio a vantaggio della pervasività di un godimento effimero, che transita meccanicamente e perversamente di oggetto in oggetto. Un godimento che nulla ha a che vedere con la jouissance lacaniana, con quel godimento inteso come auto-affezione traumatica» (p. 125).

Dunque in prima battuta la triade del capitalismo, «evaporazione del nome del padre», «imperativo a godere» e «diritto a godere», determina l’oblio del godimento, la negazione del reale del godimento, la sostituzione del reale del godimento con il godimento-diritto, detto altrimenti con il godimentogadget. Con Lacan possiamo sostenere, sia che questa sostituzione è fallimentare – e lo è anche in modo grottesco –, sia che solo l’affermazione del reale del godimento apre una linea di fuga nella totalizzazione del capitalismo.

Ma il punto che vorrei qui sottolineare è un altro. De Fiore, proprio mentre sta ribadendo la tesi dell’eclissi del desiderio, del capitalismo come macchina di godimento che annienta la dimensione desiderante del soggetto riducendolo a gadget, afferma che quella macchina di godimento che è il capitalismo – macchina grottesca – annienta (tenta di farlo senza riuscirci) al contempo e in primis il godimento, il reale del godimento. Dunque il capitalismo non determina solo l’eclissi del desiderio, della soggettività, ma in primis l’eclissi del godimento, del reale del godimento – fallisce nell’integrazione del reale del godimento all’interno del suo funzionamento, ma riesce nell’obliarlo dallo spazio sociale.

È il reale del godimento l’unica linea di fuga – unica? – immanente al capitalismo 

Occorre tenere conto di questo risvolto, cioè di questa eclissi del godimento, altrimenti nell’analizzare il capitalismo ci si ritroverà a perdere di vista l’essenziale, cioè che la negazione del reale del godimento è al fondo del funzionamento capitalista, e si rischierà di non vedere che è il reale del godimento l’unica linea di fuga – unica? – immanente al capitalismo. Di questo risvolto si sono accorti sia Pasolini, sia Lacan, i quali, come detto, hanno poi deciso di occuparsene in modi radicalmente diversi.

Note

Note
1J. Lacan, Il Seminario. Libro XVIII. Di un discorso che non sarebbe del sembiante, Einaudi, Torino 2010, p. 167.

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