Temporalità molteplici

Sull'ontologia del presente

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Andreco, Nuvola e ramo (2015).

Pubblichiamo qui la prefazione di Massimo Villani al suo libro «Time and History. Researches on the Ontology of the Present», in uscita – in inglese – per la casa editrice Inschibboleth (Collana Zeugma – Proposte).

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Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante ne sogni la tua filosofia
William Shakespeare

«Ciascuno è un figlio del suo tempo; così anche la filosofia è il tempo di essa appreso in pensieri»1. Questo celebre passaggio della Prefazione ai Lineamenti di filosofia del diritto di Hegel sanciva non soltanto, attraverso il riferimento all’elemento temporale, la processualità dello spirito, ma anche il suo carattere sincronico: la filosofia è, infatti, il sapere che è sempre in grado di realizzare la «raccolta dei momenti singoli»2 nei quali lo spirito si deposita, e, in tal modo, si fa «sapere assoluto»3 nella misura in cui non ha nulla al di fuori di sé, nulla al di fuori della sua unità sintetica e sincronica. Appreso concettualmente, il tempo è sempre uno: non è possibile saltare fuori da esso perché non esistono altre temporalità. Per di più, il tempo, così inteso, fa immediatamente tutt’uno con la storia: «ciascuno è figlio del suo tempo» vuol dire che ciascuno è conseguenza necessaria di determinate premesse. In altri termini, ciò che è prima non svanisce semplicemente con il passare del tempo, ma si conserva nel dopo, secondo la nota logica del superamento che Hegel chiama aufhebung4. C’è storia perché il tempo si organizza in una struttura coerente nella quale il passato sì svanisce, ma viene anche conservato su un piano superiore.

L’ipotesi da cui muove questo libro è che il XX secolo abbia spezzato questo nesso tra tempo e storia e che ciò abbia prodotto una conseguenza duplice. Per un verso, il tempo perde definitivamente i caratteri di linearità e coerenza che ancora aveva in Hegel, e viene concepito in termini di molteplicità di linee temporali eterogenee; per un altro verso, e di conseguenza, la storia, nel senso forte che si è detto, tende a sparire dall’orizzonte filosofico per lasciare il posto a tesi su un tempo post-storico, le cui caratteristiche principali sono la stasi, l’incapacità di portare a sintesi temporalità incoerenti, l’impossibilità di produrre aperture verso il futuro. Tuttavia proprio all’interno del secolo breve5 – quello nel quale il tempo si sarebbe contratto fino a espungere da sé la storia – si sono prodotte delle importanti riflessioni che, pur avendo assimilato le lezioni scientifiche e filosofiche circa la natura molteplice e reversibile del tempo, hanno recuperato un rapporto fecondo con la storia intesa in senso cumulativo e teleologico. Naturalmente questo libro non ha alcun intento esaustivo, limitandosi a esplorare alcune figure di una costellazione ben più ampia, e concentrandosi su una serie di autori – Hannah Arendt, Michel Foucault, Roberto Esposito, Maurice Merleau-Ponty, Antonio Negri, Jacques Rancière – la cui specificità sta nell’aver dato un’intensa tonalità non solo teoretica ma anche politica a questo tipo di riflessioni. Per introdurre questo quadro semantico si può iniziare da Nietzsche. La sua teoria dell’eterno ritorno spezza la linearità del tempo e propone un’immagine circolare di esso. Tuttavia, l’operazione più profonda dell’autore de La gaia scienza, non consiste semplicemente nel piegare ciò che prima era retto così da eliminare ogni possibile idea di progresso e/o teleologia. In realtà Nietzsche attraverso l’eterno ritorno pensa l’istituzione del presente. Il ritorno non è mera iterazione, ma una forma di ispessimento del presente; in altri termini, è la condizione di possibilità affinché l’uomo possa radicarsi in esso, nel suo divenire. È stato forse Deleuze colui che più di altri ha colto negli oscuri frammenti nietzscheani questa coincidenza di presente e divenire:

L’eterno ritorno è, dunque, la risposta al problema del passare. E in questo senso, esso non deve essere inteso come il ritorno di qualcosa che è, uno e medesimo. Cadiamo in una interpretazione erronea, se intendiamo l’espressione «eterno ritorno» come ritorno del medesimo. Non è l’essere che ritorna, bensì è il ritornare stesso che costituisce l’essere in quanto esso si afferma dal divenire e da ciò che passa. Non l’uno ritorna, bensì il ritornare stesso è l’uno che si afferma dal diverso e dal molteplice. In altri termini, l’identità sta a designare, nell’eterno ritorno, non la natura di ciò che ritorna, ma al contrario, il fatto di ritornare e, di questo, il suo differire6.

Con Nietzsche, dunque, il tempo non è semplicemente passaggio, ma una dimensione intensiva che, nel suo eterno tornare, si consolida, si stabilizza, si eternizza. Come detto, sarà soprattutto Deleuze, nell’ambito della Nietzsche Renaissance francese, a enfatizzare questa coincidenza, nella metafisica nietzscheana, tra divenire, evento, eternità7. Ma intanto il concetto di ritorno acquisisce nuove connotazioni nel lavoro di Freud. Il padre della psicoanalisi, in effetti, mostra la coesistenza di presente e passato: quest’ultimo non si allontana sulla linea del tempo, ma è sempre qui, «ritorna» come qualcosa che non dilegua al modo di ciò che semplicemente finisce, ma sempre abita il presente. Questa immagine del tempo offerta dalla psicoanalisi va, però, compresa nella sua radicalità. Il ritorno del passato, infatti, non si limita a sconvolgere la linearità del tempo, per esempio confondendo il prima col dopo. Un recente e importantissimo studio di Alessandra Campo, infatti, ha mostrato come la Nachträglichkeit freudiana cancelli del tutto l’immagine della linea, più o meno attorcigliata, per introdurre quella di un presente costantemente in atto8.

Con Freud, dunque, prosegue un processo nel quale il presente viene, per così dire, allargato e arricchito, e che ha tra i suoi maggiori protagonisti Henri Bergson, il quale già a partire dagli Essais sur les données immédiates de la conscience (1889) e poi nelle sue opere maggiori degli anni successivi – come Matière et mémoire (1896) e L’Évolution créatrice (1907)9– aveva sviluppato una teoria della durata che concepiva il tempo come pura eterogeneità differenziale. Ebbene, se già queste teorie, richiamate in maniera estremamente rapida, cancellavano l’immagine lineare del tempo, rendendo problematica l’idea di una storia progressiva, tuttavia a partire dal XX secolo diventa egemone una linea filosofica che enfatizza le nozioni di chiusura, oblio, fine. Si tratta naturalmente di un percorso teorico di ascendenza heideggeriana e che registra su un piano ontologico gli eventi tragici della prima metà del secolo. Dopo Auschwitz è difficile scrivere poesia, dirà Adorno, ed è ormai impossibile pensare ancora la storia in termini di progresso e a partire dall’identità di razionale e reale. Così, sebbene i temi della storia e del destino siano centrali nel pensiero di Heidegger, tuttavia la sua riflessione è soprattutto indirizzata verso la definizione di una temporalità originaria (Zeitlichkeit) il cui contenuto eminente è l’attimo (Augenblick), ovvero un frammento cronologico esposto alle altre dimensioni temporali – il passato e il futuro – ma che è come un’isola che galleggia nel mare delle possibilità non attualizzate. È questo il senso della storicità essenziale del Dasein: «l’esserci è in se stesso storico nella misura in cui è la sua possibilità»10. Heidegger può parlare della storicità dell’Esserci in termini di destino (Schicksal) e destino comune (Ge-schick) perché il Dasein cade nella sua possibilità, vi è gettato (geworfen), e, di conseguenza, aderire alla sua possibilità più propria vuol dire sperimentare la più radicale contingenza11: il destino è una contrazione del possibile, e la storia non è che abbandono a questa fragilità ontologica nella quale la prassi umana può solo constatare la propria inefficacia12.

Insomma, mentre negli autori prima richiamati il tempo è pensato come proliferazione di virtualità dalle quali gli enti sono, per così dire, sostenuti, la linea di pensiero heideggeriana descrive una storia nella quale all’agire si sostituisce il désoeuvrement, una radicale passività13. Ed è forse qui che hanno inizio le tesi circa la fine della storia: a partire da un’interpretazione di Hegel mediata dal pensiero di Heidegger14 – che a sua volta partiva da una precisa lettura di Nietzsche, interpretato come momento decisivo dell’oblio dell’essere15 – si afferma l’idea di un tempo che, avvolto in se stesso, si separa dalla storia, e lascia quest’ultima nell’immobilità del suo compimento.

Il trionfo globale del capitalismo, la capacità da parte dell’uomo di distruggere l’intero pianeta riducono gli esseri umani ad appendici di un meccanismo impersonale, all’interno del quale reiterano un’esistenza spettrale e priva di futuro16. I tre capitoli che compongono questo volume, e che possono essere letti indipendentemente l’uno dall’altro, intendono esplorare alcuni studi che hanno tentato un approccio diverso alla crisi epistemologica, tecnica, politica e filosofica che ha segnato gli anni Trenta del secolo scorso e, ancora di più, il dopoguerra. Non dunque un pensiero della krisis – variamente interpretato da autori come Husserl, Heidegger, Jonas, Anders – che individua una spaccatura dopo la quale il tempo si separa dalla storia e quest’ultima non può essere altro che cieca ripetizione.

Due sono i punti che accomunano i diversi autori qui esaminati, pur nelle loro irriducibili divergenze. Il primo è relativo al decentramento della prospettiva: i teorici della krisis, infatti, mantengono uno sguardo eurocentrico che, nel contesto storico del primo Novecento, non può che constatare un declino, sia in termini di valori – principi che non sono più in grado di contenere la crescente complessità del mondo –, sia in termini materiali, considerate le crisi economiche, le escalation militari non più incontrollabili. Se, vista dal di dentro, l’Europa è su un crinale inesorabilmente discendente, è solo a uno sguardo che è capace di dislocarsi verso il fuori che il medesimo processo può apparire in termini di cambiamento e novità17. Il tempo della krisis, in effetti, è anche quello della fine dei colonialismi – o quanto meno di una nuova forma di essi –, di nuove forme di emancipazione, come quella femminile18, è, in definitiva, il tempo in cui fanno irruzione sulla scena soggetti nuovi. Non, dunque, un mondo che tramonta e lascia la storia nella sua stagnante iterazione, ma una metamorfosi che fa emergere scenari nuovi e differenti.

Il secondo, e più importante, punto di contatto tra i nostri autori è l’idea che la rottura del tempo – lo shakespeariano «time out of joint» richiamato da molti filosofi del XX secolo19 – non significa l’impossibilità della storia. La sfasatura cronologica – diversamente intesa da ciascuno degli autori qui convocati – indica una moltiplicazione di piani che, lungi dal chiudere la storia, costituisce un potenziamento della prassi. Dunque non si tratta di visioni che enfatizzano il ‘post’, il sentimento di essere arrivati dopo, ma che trovano nella non coincidenza del tempo con se stesso – lo Unzeitgemäß nietzscheano – la possibilità di un continuo rilancio della storia. Sebbene non sia l’oggetto specifico di nessuno dei saggi che seguono, Michel Foucault è sicuramente l’autore che maggiormente ha ispirato queste ricerche, costituendo la chiave di lettura dei filosofi qui interpellati. Com’è noto, la storia – non il tempo – ha un ruolo decisivo nello sviluppo del suo percorso, al punto che è stato possibile non riconoscere il suo come un lavoro filosofico in senso stretto:

il lavoro di Foucault non era filosofico: Foucault analizzava delle situazioni e delle trasformazioni, non rimetteva in gioco il problema del senso e della verità […]. Non faccio una gerarchia tra ‘filosofico’ e ‘storico-critico’: semplicemente distinguo. Potrei dire: due registri filosofici, uno metafisico e ontologico, e l’altro epistemologico e ideologico (cioè di analisi delle formazioni di discorsi e di pensiero)20.

Nancy, in realtà, non riesce a vedere l’ontologia che, in maniera più o meno implicita, Foucault mette all’opera nelle diverse fasi della sua ricerca21, ma l’equivoco in cui egli cade è dovuto, probabilmente, alla rarità con la quale, come si è detto, la storia è stata tematizzata, da parte della filosofia novecentesca, a vantaggio di ampie riflessioni sul tempo. Paradigmatico di questo atteggiamento è un autore come Deleuze il quale, pur molto vicino a Foucault, pone in maniera esplicita e programmatica la distinzione tra tempo (o divenire) e storia:

Sono diventato sempre più sensibile a una distinzione possibile tra il divenire e la storia. Nietzsche diceva che non si sarebbe combinato nulla di importante senza un «nucleo non storico». Non si tratta di un’opposizione tra l’eterno e lo storico, né fra la contemplazione e l’azione: Nietzsche parla di ciò che si fa, dell’evento stesso o del divenire. Dell’evento la storia afferra l’effettuazione negli stati di cose, ma l’evento stesso nel suo divenire sfugge alla storia. La storia non è la sperimentazione, è solo l’insieme delle condizioni in un certo senso negative che rendono possibile la sperimentazione di qualcosa che sfugge alla storia. Senza la storia, la sperimentazione resterebbe indeterminata, incondizionata; ma la sperimentazione non è storica22.

Foucault stesso ammette l’eccentricità del suo approccio rispetto a quello più strettamente filosofico:

ciò che fa sì che io non sia un filosofo nel senso classico del termine – forse non sono affatto un filosofo, in ogni non un buon filosofo – è che non mi interessa l’eterno, non mi interessa ciò che non muta, ciò che resta stabile sotto lo sfarfallio delle apparenze, mi interessa l’evento23.

Non è possibile qui rendere conto dei molteplici approcci alla storia che hanno scandito la ricerca di Foucault. Si vorrebbe, tuttavia, sottolineare un tratto che emerge dalla citazione precedente e che, benché si espliciti soprattutto nella fase genealogica di Foucault, attraversa tutto il suo lavoro. L’obiettivo del filosofo di Poitiers, infatti, è quello di abbandonare ogni sguardo di sorvolo che pretenda di abbracciare i fenomeni da un punto staccato da essi: il filosofo – il genealogista in particolare – deve aderire alla dispersione24 nella quale si dà la concretezza dei processi. Egli, cioè, non totalizza la storia, ma osserva, potremmo che accompagna, la wirkliche historie: «La storia ‘effettiva’ si distingue da quella degli storici per il fatto che non si appoggia su nessuna constante»25. Per questo, scrive ancora Foucault, «la genealogia è grigia; meticolosa, pazientemente documentaria. Lavora su pergamene ingarbugliate, raschiate, più volte riscritte»26. La sua potenza critica sta nella capacità di assistere al modo in cui in cui il presente si istituisce. Foucault, infatti, sulla scorta di Nietzsche, definisce la Entstehung, l’emergenza come «l’entrata in scena delle forze»27. Due sono le conseguenze che occorre sottolineare. La prima è che la «scena» della storia è sempre innervata da forze che continuamente la innervano e, anche, la inaugurano. Ci sono sempre e ovunque vettori di forza cui agganciarsi per mettere in discussione il presente e aprire nuovi futuri possibili.

In secondo luogo, e di conseguenza, la filosofia – nel suo metodo genealogico – è in grado di prendere una posizione, perché implementa uno sguardo radente i fenomeni: l’evento, la discontinuità che pulsa nella storia, non è mai concepito come lo choc che proviene da un’esteriorità assoluta e che quindi condanna il sapere alla passività, ma, al contrario, la condizione di possibilità dell’evento sta nella molteplicità di forze che strutturano il tempo e che sostengono la storia, e quindi nella possibilità per la prassi umana, di articolare diverse temporalità. L’evento è la produzione di uno scarto, di un anacronismo radicalmente storico. In questo modo la filosofia torna – dopo la crisi sperimentata dall’heideggerismo – un sapere che non può non agire, non può non essere in atto.

L’ontologia che sta alla base di questa teoria è, come afferma Foucault stesso in pagine molto note, un’ontologia dell’attualità:

Non si tratta di un’analitica della verità, ma di quella che potrebbe essere definita un’ontologia del presente, un’ontologia di noi stessi, e mi sembra che la prospettiva filosofica con cui, oggi, dobbiamo confrontarci sia la seguente: optare per una filosofia critica che si presenterà come una filosofia analitica della verità in generale, oppure optare per un pensiero critico che avrà la forma di un’ontologia di noi stessi, di un’ontologia dell’attualità: è questa forma di filosofia che, ha Hegel alla scuola di Francoforte, passando per Nietzsche e Max Weber, ha fondato una forma di riflessione all’interno della quale ho cercato di lavorare28.

L’attualità si può definire in prima battuta come l’insieme degli accadimenti più o meno recenti che godono di un interesse generale nel presente. Ma più precisamente si intenderà ciò che nel presente è in atto, ciò che qui e ora agisce e che si dà quindi come effetto esperibile. C’è anche qui una sfasatura tra tempo e storia, ma si tratta dell’incongruenza tra divenire storico e sviluppo concettuale, per cui i vari aspetti di un’epoca non si sintetizzano organicamente in un congegno storico-teoretico unitario. Al contrario, la sfasatura tra tempo e storia lascia emergere la complessità di istanze che, ciascuna col suo ritmo e ciascuna più o meno risalente, si confrontano, si incrociano, si mescolano o si escludono, ma, e questo è il punto decisivo, impediscono la chiusura di un dispositivo – un Gestell – totalmente impersonale che getta l’azione nell’impasse e nell’impotenza.

La tesi fondamentale che ci lascia Foucault, e che le ricerche qui presentate vorrebbero rilanciare, è che l’eterogeneità intrinseca del tempo, lungi dallo scavare una ferita nella storia che causerebbe uno svuotamento, uno «scialo ontologico»29, produce una storia differenziale e proprio per questo sempre passibile di essere continuamente alterata. Ci sono, in atto, intorno a noi più cose e più possibilità di quanto sia capace di vedere una filosofia che concepisce la storia come declino e oblio, e l’evento come il colpo di un’esteriorità assoluta:

La rivoluzione rischierà sempre di esser ricondotta all’antico corso, ma, in quanto evento il cui contenuto è irrilevante, la sia esistenza attesta una virtualità permanente e che non potrà essere dimenticata: per la storia futura, rappresenta la garanzia della continuità stessa di un cammino verso il progresso30.

Note

Note
1G. F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto (1820), Laterza (1999), p. 15.
2Id., Fenomenologia dello spirito (1806), La Nuova Italia (1973), Vol 2, p. 295.
3Ivi, p. 296.
4Id., Scienza della logica (1816), Laterza (2004), p. 100. Com’è noto, il tedesco aufheben ha un duplice significato, indicando sia il togliere che l’accogliere, il ricevere.
5E. J. Hobsbawm, Il secolo breve 1914-1991 (1994), BUR (1997).
6G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia (1962), Colportage (1978), p. 81. Traduzione leggermente modificata.
7Su questo punto mi permetto di rinviare al mio Pensare la politica fuori della contingenza. Deleuze e l’evento, in «Quaderni Inschibboleth», n. 15, 2021, pp. 409-428.
8A. Campo, Tardività. Freud dopo Lacan, Mimesis (2018).
9Tuttavia in questo contesto è particolarmente importante un lavoro minore di Bergson che ha avuto, infatti, una storia editoriale particolarmente complessa e che non goduto della visibilità che avrebbe meritato. Si tratta di Durée et simultanéité, à propos de la théorie d’Einstein (1922), testo nel quale si confronta criticamente con la teoria della relatività formulata pochi anni prima da Einstein. Per un’ampia discussione su questo importante libro si veda A. Campo, S. Gozzano (a cura di), Einstein vs. Bergson. An Enduring Quarrel on Time, de Gruyter (2022).
10M. Heidegger, Il concetto di tempo (1924), Adelphi (1998), p. 47.
11Anticipato dalla conferenza del 1924 appena citata, i temi della temporalità e della storicità sono ampiamente esplorati nei paragrafi 67-77 di Sein und Zeit.
12Per gli sviluppi di queste tematiche nel pensiero di Heidegger successivo alla «kehre» si veda G. Strummiello, L’ altro inizio del pensiero. I Beitrage zur Philosophie di Martin Heidegger, Levante (1995).
13Cfr. C. Wall, Radical passivity. Lévinas, Blanchot, and Agamben, SUNY Press (1999).
14Cfr. A. Kojève, Introduzione alla lettura di Hegel (1947), Adelphi (1996).
15M. Heidegger, Nietzsche (1961), Adelphi (1994).
16Cfr. M. Fisher, Spettri della mia vita. Scritti su depressione, hauntologia e futuri perduti (2014), minimum fax (2019).
17Cfr. R. Esposito, Da fuori. Una filosofia per l’Europa, Einaudi (2016).
18Cfr. A. Cavaliere, La comparsa delle donne, Fattore Umano (2016).
19Si vedano soprattutto J. Derrida, Spettri di Marx. Stato del debito, lavoro del lutto e nuova Internazionale (1993), Cortina (1994); G. Deleuze, Fuori dai cardini del tempo. Lezioni du Kant, Mimesis (2004): si tratta della trascrizione di un corso tenuto a Vincennes dal 14/3 al 4/4 1978 il cui testo originale è disponibile al sito www.webdeleuze.com.
20J.-L. Nancy, Le differenze parallele. Deleuze e Derrida, ombre corte (2008), p. 63.
21Per una critica alla posizione di Nancy si veda R. Esposito, Da fuori, cit., pp. 117-119.
22G. Deleuze, Pourparler 1972-1990 (1990), Quodlibet (2000), pp. 220-225.
23M. Foucault, La scène de la philosophie (1978), in Id., Dits et Ecrits tome III, Gallimard (1994), pp. 571-595: 573.
24Questo approccio che rinuncia programmaticamente alla sintesi ha suscitato le aspre critiche di chi interpretava quello foucaultiano come un iperrealismo che, smarrendosi nei dettagli infinitesimali, cedeva dinanzi alle urgenze politiche. Cfr. J. Baudrillard, Dimentcare Foucault (1977), Cappelli (1977); M. Cacciari, “Razionalità” e “Irrazionalità” nella critica del Politico in Deleuze e Foucault, in «aut aut», n. 161, 1977, pp. 119-133.
25M. Foucault, Nietzsche, la genealogia, la storia (1971), in Id., Microfisica del potere, Einaudi (1977), pp. 29-54: 43.
26Ivi, p. 29.
27Ivi, p. 39.
28Id., Che cos’è l’Illuminismo (1984), Feltrinelli (1998), p. 253-261:261.
29G. Agamben, Il tempo che resta, Bollati Boringhieri (2000), p. 43.
30M. Foucault, Che cos’è l’Illuminismo, cit., pp. 259-260.

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