Tratti e costellazioni
Sui rilevatori di Carlo Moggia
Questo titolo significa forse che l’opera va intesa come uno strumento capace di rivelare, tracciare e identificare un gruppo di particelle umane nella struttura del loro movimento, precisamente come fanno in fisica i rivelatori di particelle elementari
Carlo Moggia chiama genericamente Rivelatori le opere in cui compaiono molteplicità umane su sfondo nero. Questo titolo significa forse che l’opera va intesa come uno strumento capace di rivelare, tracciare e identificare un gruppo di particelle umane nella struttura del loro movimento, precisamente come fanno in fisica i rivelatori di particelle elementari. I rivelatori non solo semplici «contatori»; in quanto strumenti di visione non fanno emergere soltanto l’esistenza o la presenza di un certo numero di corpi, bensì soprattutto delle forze che li organizzano in una struttura determinata – come accade con la limatura di ferro, quando assume una determinata forma in funzione del campo di forze generato da una calamita.
In prima approssimazione, nei Rivelatori di Moggia abbiamo dunque: una certa materia (l’insieme dei corpi), una certa forma (la struttura che si rivela solo dal momento in cui viene incarnata dalla molteplicità dei corpi), un sistema di forze (che è causa della struttura e che non si rivela se non nel darsi della struttura stessa). Il tutto stagliato su uno sfondo nero. È quest’ultimo che assume, all’interno dell’opera, il ruolo secondo di rivelatore. L’opera come soggetto d’enunciazione o di rivelazione, il nero come soggetto dell’enunciato o del rivelato. Il nero sembra abbia una duplice funzione: da un lato, in generale, assorbe ogni elemento che non sia implicato nella rivelazione, cancella il rumore affinché l’informazione emerga nella sua purezza (forse non dissimile, in questo, dal bianco-vuoto della pittura cinese); dall’altro, più precisamente, annulla ogni profondità consentendo alla molteplicità strutturata di evitare l’illusione prospettica. In Rivelatori, 2011, i corpi costituiscono una struttura rarefatta, con un paio di fuochi, sottolineati tanto dalla luminosità più intensa quanto dalla densità degli elementi, ma con una tendenza alla dissoluzione verso i margini, dove i corpi finiscono per isolarsi, fuggendo però ancora secondo direttrici stabilite.
La forma o la norma a cui danno luogo le forze invisibili sembra imporsi dall’esterno sulla molteplicità dei corpi
I corpi che compongono la rivelazione sono, per lo più, tutti uguali e si presentano in massa. Sono tutti corpi umani che, in quanto tali, conservano la differenza sessuale. Talvolta sono vestiti. Ogni corpo, tuttavia, ha un movimento suo proprio, che sembra dettato più dalla posizione che occupa nella molteplicità, e dunque dalla forza locale che lo trascina, che non da un’esigenza spontanea. Si potrebbe dire che l’equilibrio della forma rivelata è la risultante di una serie di disequilibri, oppure che le forze che danno luogo a quella forma provocano un disequilibrio delle parti, come accade ad un campo di grano sotto le sferzate del vento. Se la seconda ipotesi appare preferibile, è in ragione del fatto che la forma o la norma a cui danno luogo le forze invisibili sembra imporsi dall’esterno sulla molteplicità dei corpi, come accade già, in maniera elementare, con la forza di gravità che produce il movimento di una cascata e il roteare caotico dei suo elementi, e con le forze esplosive che fanno salire e disperdere gli elementi come in una scia di fumo e lapilli.
In questo, si potrebbe vedere una sorta di dimostrazione: gli umani, nel loro essere e nei loro movimenti, sono trascinati da forze cosmiche che li sovrastano. D’altra parte, però, la dimostrazione, semmai ve ne fosse una, implica anche che gli umani hanno la funzione di rivelare, se non di costituire, strutture oltreumane. Anti-umanismo forse, ma anti-umanismo cosmico. In Energie, 2008, la centralità della struttura formale è sottolineata dall’uniformità fredda del colore delle particelle.
Qui, i fuochi diventano vere e proprie singolarità complesse, di curvatura, d’irraggiamento, cubiche, con interferenze reciproche (ad esempio nel luogo in cui i raggi della struttura in basso a destra s’incurvano all’incontro con la singolarità a gomito che domina la parte centrale del quadro; dove il gomito si dissolve per aprire lo spazio al cubo in alto a destra; oppure, ancora, nella parte a sinistra, dove le linee di tendenza della singolarità irraggiante e di quella curva si sommano).
In Quasi come, 2010 troviamo un’analoga uniformità del colore, che però non pare abbia la stessa funzione. Il rosso della maggioranza dei corpi sembra denotare la loro distanza dalla fonte luminosa che s’irradia dal centro dell’opera, dove il vertice di un angolo è adiacente ad una circonferenza semi-illuminata, che contorna un buco nero.
È anche possibile che la struttura formale, pur restando sovradeterminata rispetto ai corpi che la rivelano, si costituisca a partire dall’elemento genetico della ripetizione – per esempio dalla ripetizione di un’analoga postura in una serie di corpi singoli, come si trattasse di una crono-fotografia alla maniera di Muybridge.
La ripetizione seriale quasi-fotografica suggerirebbe l’idea di un unico elemento fissato in istanti successivi, anziché l’immagine di una molteplicità di elementi identici disposti nello spazio, in un unico istante
È il movimento circolare costituito dalla serie delle gambe a rivelare l’organizzazione formale complessiva (che pare intenda fare allusione agli oggetti frattali). Con ciò, si pone forse una questione che riguarda il tempo, in un universo – come quello di Carlo Moggia – che sembra costruito quasi interamente come una riflessione esclusiva sullo spazio. E, conseguentemente, emerge il problema il problema dell’individuazione degli elementi umani presenti in queste opere. La ripetizione seriale quasi-fotografica, infatti, suggerirebbe l’idea di un unico elemento fissato in istanti successivi, anziché (com’era apparso sinora) l’immagine di una molteplicità di elementi identici disposti nello spazio, in un unico istante. È probabile che si tratti però di una falsa alternativa, dunque di un falso problema – sia dal punto di vista delle opere in questione (se si considera l’attenzione che Moggia dedica ai problemi della fisica contemporanea), sia da un punto di vista teorico generale. In un universo nel quale il tempo e lo spazio non sono più forme indipendenti, ma intrinsecamente correlate, la distinzione tra un solo elemento che si ripete in istanti successivi e una pluralità di elementi identici che si danno l’uno dopo l’altro è una distinzione che può darsi solo su un terreno funzionale, in base alle nostre esigenze pragmatiche, ma senza più alcuna portata ontologica (come spiegava già Erwin Schrödinger, le particelle elementari non possono essere comprese come entità individuali).
Che si tratti di un falso problema viene forse suggerito anche dalla compresenza della struttura «frattale» e del sottostante fregio lineare: da una parte l’organizzazione concreta dello spazio-tempo, dall’altra l’estrazione della sola linearità temporale. In ogni caso, e più in generale, i problemi di identità e ripetizione sono centrali in queste opere di Moggia, nelle quali l’elemento individuale appare reso sempre già indeterminato non solo dal suo essere parte costitutiva di una struttura, ma da fatto che a costituire ogni parte della medesima forma sono elementi della stessa natura. È come se Moggia intendesse sospendere, ovvero rendere priva di senso, la domanda che chiede se gli individui di una stessa specie siano entità autonome, per quanto simili tra loro, o se siano perfettamente uguali tra loro, ognuno essendo niente altro che una replica. Nel turbinio degli esseri, dell’agglomerarsi e disperdersi degli elementi umani, secondo leggi determinate, nel bel mezzo del più profondo disincanto cosmico, ci troviamo quasi stupiti di fronte all’affermazione perentoria dell’uguaglianza radicale di ogni elemento umano.
Della stessa serie, senza titolo, la massa verde racchiusa entro un rettangolo blu sembra una sorta di materia ancora non semiotizzata, in quello che sarebbe lo stato precedente alla presa di una struttura formale (la quale dunque si presenta, in quanto rettangolo blu, come separata dalla molteplicità che dovrà organizzare o nella quale dovrà prendere corpo, manifestandosi in essa e al contempo nascondendovisi).
Qualcosa di analogo accade anche in Program, dove tuttavia il parallelogramma sostituisce il rettangolo, la varietà cromatica rimpiazza l’uniformità, e gli effetti della luce si fanno più sensibili, fornendo alla massa dei corpi una dimensione supplementare.
Una funzione inversa sembrano avere quelli che Moggia chiama Tester (come quello che ha partecipato al Premio Celeste nel 2009.
La struttura esiste, ma non è una struttura fisica o cosmica; si tratta piuttosto di un quadrillage con finalità classificatoria, come se si volessero presentare, l’uno accanto all’altro, tutti i corpi possibili, in tutte le loro differenti attività, nei loro movimenti e spasmi. È la tavola periodica degli elementi che compongono l’universo del Rivelatori. Diverso è il caso del Tester del 2014 intitolato L’ora d’aria, in cui la tavola ha la funzione di classificare le posture, le funzioni, le attività ordinarie e quasi le posizioni sociali degli individui isolati (in cui si possono riconoscere, ad esempio, il giocatore di calcio, il conferenziere, la ragazza seduta al divano di un bar), mentre il quadrato nero al centro fa spazio ad un luogo in cui i corpi si mescolano sospendendo la distribuzione fissa delle loro funzioni.
Questi ultimi lavori rendono evidente anche un’altra caratteristica non secondaria di tutta la serie dei Rivelatori: la precisione dei tratti con i quali sono dipinte le figure umane. Parliamo del tratto per suggerire nuovamente quella che ci pare una singolare vicinanza con una certa concezione orientale della pittura. La precisione con cui Moggia dipinge le figure umane non è affatto il frutto di un’istanza iperrealista, ma è letteralmente la precisione del tratto di cui parla, ad esempio, il pittore cinese Shintao. Ogni figura è il prodotto di pochissimi tratti di pennello.
Da qui, l’impressione che ci si trovi di fronte a qualcosa come un’arte più grafica che pittorica (nel senso pieno, denso, occidentale del termine), ovvero di fronte a una sorta di arte della miniatura, nella quale la struttura o, potremmo dire, l’arabesco formalizzato primeggia sia sull’istanza malerisch sia sugli elementi genetici significanti che lo compongono (in questo caso: sulle figure umane). In realtà, nella stessa serie di Rivelatori, Moggia non rifiuta del tutto le ragioni propriamente pittoriche. Ma lo fa quasi sempre in opere di piccola dimensione, quasi si trattasse di particolari ritagliati dai rivelatori veri e propri.
È come se, a un estremo, potessimo avere una singola figura che si staglia solitaria sul nero della superficie, come un Major Tom alla deriva, e, all’altro estremo, la massa indistinta che ricopre quasi l’intera superficie, in una sorta di rumore bianco informale.
La vita di quei corpi medi e ordinari che abitano la terra sta nel mezzo, tra il microcosmo e il macrocosmo, tra le particelle elementari e lo spazio siderale, ammassata come sul bordo di un vuoto infinito.
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