Un signore impressionante

Per Giuliano Scabia

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Marco Cavallo al galoppo, Trieste (1973).

Quando sento venire certi momenti della poesia – che mi portano via – devo stare attento – per esempio se guido la macchina devo stare attento, sbaglio strada, vedo solo una gran luce e mi scordo le svolte: ci vedo benissimo e non vedo niente: la poesia è una signora impressionante.
Giuliano Scabia 

Ad attraversare Lisbona in un’estate sfavillante di sole e di ombre cupe lanciate dalla dittatura salazarista con il passo stanco del signor Pereira convinto che fosse meglio relegare il corpo affaticato nella redazione di necrologi anticipati dei maggiori scrittori, s’impara la lezione che è il tempo ad essere stanco e poco gentile, spesso. Come dar torto, d’altra parte, a Pereira quando sosteneva che la vita con tutto il suo peso del corpo fiacco e sudato, della cronaca nera del Lisboa, di un’Europa estiva che puzzava di fascismo e di morte, fosse poco interessante. Meglio dedicarsi alla letteratura e alle riflessioni sulla morte, credendo – sosteneva sempre Pereira – nella resurrezione dello spirito e non della carne. Peccato però che, grazie a quella proposta di redazione di necrologi anticipati al giovane e vivissimo Monteiro Rossi, Pereira sostenga pure che lui che il corpo era soltanto addormentato e che fosse necessario ritornare a camminare. Con il proprio passo, insieme ad altri passi incontrati.

Quella di Giuliano Scabia poeta gentile che ha portato al trotto deciso il suo Teatro Vagante e molte altre cose, è una lunghissima storia di passi e di camminate comuni, d’intensità molteplici, di potenze creatrici, di fili della memoria che in un gomitolo si dipanano e arrivano da un’altra parte. Perché se è vero che c’è stato un uomo che sussurrava ai cavalli, Giuliano Scabia ha fatto molto di più nel suo viaggio, a cavallo di un cavallo speciale, creato, costruito proprio da lui, insieme ad altri coraggiosi e visionari Quijote tra cui i gran soccorritori Franco Basaglia e Peppe Dell’Acqua. Un cavallo tutto blu, in una parola Marco Cavallo, un classico, o meglio, la vera storia che da un ospedale psichiatrico ha cambiato il modo di essere del teatro e della cura.

Quando Marco Cavallo dal manicomio di Trieste arrivò per le strade della città, qualcosa di nuovo e importante era accaduto: un progetto di vita insieme che lasciava il buio del manicomio al seguito dello sfavillante cavallo azzurro. L’inizio di un cammino luminoso come solo sa essere quello dei bambini, con lo sguardo pieno di vita che il papà di Marco Cavallo lascia solo per un attimo su questa parte di terra a noi, sorpreso dal tempo nei suoi quasi 86 anni di fanciullesco futuro. C’è in questo tempo di vita e di teatro la delicatezza con la quale solo certi visionari riescono ad attraversare le politiche della propria storia: prima di Marco Cavallo, c’erano stati gli operai genovesi dell’Italsider della Fabbrica illuminata, insieme a Luigi Nono, e la Grande Mam – dopo l’incontro con il grandissimo Carlo Quartucci e con Leo De Berardinis, Rino Sudano e Claudio Remondi -, primo tassello del portagioie del Teatro Vagante con quelli che chiamava gli schemi vuoti, cioè i canovacci per le azioni a partecipazione, riempiti da altre vite incontrate per riscrivere insieme le esperienze. A Torino e nelle sue periferie, nel 1969-70, dilatava il teatro aprendolo agli abitanti e radicandosi negli spazi cittadini degli scontri reduci dall’Autunno Caldo.

Giuliano Scabia durante le «azioni teatrali» di Torino (1969).

Poi con Vittorio Basaglia, Stefano Stradiotto e tanti altri artisti strepitosi tra cui Cucù che sapeva parlare con mugolii e altrettanti segni colorati, nel 1973 triestino, il Laboratorio P, a rompere i muri dell’esclusione. Anche con l’insegnamento al Dams bolognese a partire dal 1972, quello che conta davvero è agire – umani, animali, sognatori – negli ambienti circostanti. Il Gorilla Quadrumàno (1974-1975) ha attraversato l’Appennino reggiano e i quartieri periferici delle grandi città, fino al Festival Internazionale del Teatro di Nancy. Fino al 2005, il laboratorio universitario produce con gli studenti invenzioni nuove anche quando il Gorilla sembra essersi ritirato nel bosco segreto della fantasia e Scabia, per la Biennale Teatro diretta da Luca Ronconi nel 1975, lavora l’entroterra lagunare veneziano alla ricerca della Vera storia di Mira e del petrolchimico di Porto Marghera, trasformando gli incontri in azioni teatrali e musicali.

Con il maestro Aldo Sisillo ha girato per campagne e metropoli con la Commedia dell’Angelo e del suo Diavolo, dal casentino fino a Parigi, passando per la Biennale di Venezia. E ancora storie che fanno camminare e poi volare, narrazioni fantastiche del Ciclo dell’eterno andare e quello di Nane Oca, esseri inconsueti e serissimi che fanno anche paura perché arrivano da quella casa di pietre padovana nel 1935, cresciuto com’era tra stivaloni alti e anni nerissimi di orbace e nelle campagne, sfollato, come la lingua che con lui si fa koinè medusea, fatta di tentacoli e germogli usurati dal tempo come monete e recisi, ma che rinascono subito da un’ altra parte. La lingua e la scrittura come altrettanti spazi di incontro dei dialetti, dalla città alle campagne, dalla metropoli al bosco segreto.

Poeta è Giuliano Scabia, una poesia la sua fatta con i piedi e dalla parte dei piedi, abituata al ritmo danzante del corpo che è insieme Dioniso e Orfeo e a stare attaccata alla terra per lanciare verso l’alto con sorrisi, animali e con un cavallo azzurrino di cartapesta le questioni importanti della vita e della morte, dello stare insieme tra umani e non. Dalla parte delle persone, che si sa, meravigliosamente imparano anche a volare in luoghi segreti, in un canto lunghissimo in cui la melodia cambia quando il mio canto incontra quello di qualcun altro, secondo l’adagio di Gombrowicz così amato. «Voglio vedere cosa fanno i ladri e gli assassini, i vigliacchi e i traditori. Voglio vedere cosa fanno quelli del malaffare e capire cosa sia il sangue cattivo», così diceva Nane Oca nell’ultima tappa del suo viaggio. Sconfiggere il male sulla terra mica è facile, anche per chi possiede il momòn… Ma almeno si riesce a non farsi contagiare. A fare i conti con i necrologi anticipati si impara in fretta, sempre troppo poco si impara a fare i conti con l’assenza e con il vuoto che lasciano, all’improvviso, la bellezza e la delicatezza di una vita e di una scrittura magistrali.

 

Il poeta-albero
Giuliano Scabia

Camminando si sentono i piedi della poesia,
uno, due, tre / uno, due, due, tre, quattro / uno, uno, due, tre, quattro – ballando si sentono ancora meglio.
Quando il camminante incontra altri camminanti (nei sentieri dentro i boschi, dentro le città o dentro il corpo) li ascolta nel suono dei piedi – per sentire la poesia.
Solo dal suono dei piedi si riconosce la poesia.
I poeti camminanti vanno in giro per ascoltare il suono dei piedi – o stanno fermi come alberi. Camminano anche perché vogliosi di suonare i piedi della poesia.
Ci sono poeti camminanti che vanno in giro cercando di non farsi vedere per meglio sentire.

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