Una donna va in guerra

Isole remote del femminismo al cinema

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Non essere donna forte, quelle resistono a tempeste. Tu devi essere tempesta.
Shameless, 7.04

Ma quale amore? Io c’ho da fa’!
Muri di Roma, primavera 2016

Quando mi hanno proposto di affrontare il tema del femminismo al cinema il dubbio mi ha colto. Dove trovare – oggi – dei film femministi? Le più belle inchieste e voci femmine sembrano emergere tutte dal passato (Essere donne, del 1965!), o da riletture originali di pellicole d’archivio (Vogliamo anche le rose, del 2007 e, dieci anni dopo, In Her Shoes, manifesto poetico contro la disparità di genere), ma la finzione e il cinema al grande schermo, come si smarcano da una società ancora soprattutto familista, maternalista e ideologicamente arretrata?

Mentre scrivo è domenica mattina e ai quieti margini della capitale avanza un solo megafono: “Donne, è arrivato l’arrotino! Arrota coltelli, forbici, forbicine, forbici da seta, coltelli da prosciutto. Donne, è arrivato l’arrotino e l’ombrellaio. Aggiustiamo gli ombrelli, donne! Ripariamo cucine a gas, abbiamo i pezzi di ricambio per le cucine a gas!”.

Ci immaginano ancora intente a sognare pezzi di ricambio per cucine a gas, fiere possidenti di forbici da seta (sic!) e prosciutti interi (sic sic!), o timorose del maltempo adoperanti ombrellini da passeggio? O forse il ridondante messaggio si rivolge esclusivamente a noi perché gli arrotini maschi sanno che i coltelli delle femmine vanno affilati ancora, e arrotati molto molto meglio? Abbiamo visto di recente una donna di finzione affilare alla perfezione la punta sottile del suo arco moderno. Proviene da molto lontano, da quell’isola di lava che coincide più con un immaginario altro che con la realtà democratica europea in cui viviamo, derisa nel film di cui tratteremo.

Uscito nel 2018, La donna elettrica (in origine Kona fer í stríð, letteralmente “una donna va in guerra”, e per questo preferiamo almeno la traduzione internazionale: Woman at War) è il più bel ritratto d’indipendenza femminile degli ultimi anni ed è scritto da due uomini: Benedikt Erlingsson (star tuttofare della televisione e del teatro islandese) ed Ólafur Egilsson1. Contro l’ideologia che sparge la voce che: “il messaggio, che dici, non c’è!”, ovvero che un film è solo un film e non vuole ripetere o fornire o stimolare esempi di vita, e che bisogna piuttosto soffermarsi sulle performances attoriali e sulle poste in gioco tutte interne alle società cinefile, noi prenderemo questo ritratto filmico come un modello di condotta, come un’etica, come un’attitudine. Utile nelle nostre battaglie ordinarie, che vanno a stento eppure devono ogni giorno proseguire (con montaggio peggiore, fotografia sbiadita e sceneggiature scarsissime).

Woman at war è “una piccola anticommedia della contemporaneità”2, in cui la lotta al momento più mainstream, più unanime e più condivisa (l’ecologismo), si declina in battaglia individuale contro lo Stato islandese. Ma il nome di questa lotta non deve farci scivolare in eterne metafore della donna-vicina alla natura, della donna che lei sola può capire “le ragioni della terra” (e allora anche della biologia, ma il diavolo ce ne scampi!). Con sega elettrica e non elettrica, con frullino, seghetto e detonatore, Halla sabota gli impianti elettrici della Rio Tinto, una della più grandi società minerarie del mondo, nella quale, una decina di anni fa, la Repubblica Popolare Cinese – sua maggiore concorrente – ha investito venti miliardi di dollari, per compartecipare in attività minerarie in Cile, Australia e USA.

Ma Halla col suo arco anto-drone, pur essendo un’eco-terrorista, non è solo ed esattamente una fanatica dell’ecologismo e del “buon pianeta” da salvare, o almeno alla (pur giusta) causa la sua persona non si riduce. La Natura non è per lei un’entità ideale, un miraggio ipostatizzato. È piuttosto la sua struttura, la sua risorsa, la sua corazza contro le cattive politiche europee. La terra è il suo nascondiglio, il continuo possibile rifugio di una donna mobile, vagabonda (amazzone produttrice, non vittima, delle tempeste all’ordine del giorno). Nelle migliori inquadrature, Halla si nasconde sotto manti erbosi, sotto strane siepi a misura umana, sotto pelli di montone, sotto letami di polli, sotto animali di montagna. Solleva zolle, smembra la natura, la affronta, la ricuce.

La natura non è nemmeno “un fatto di sangue”, così come il suo affetto di madre potenziale non sarà mai una “questione genetica”, o un istinto biologico (ma, semmai, una sorta di “affinità elettiva” islandes-ucraina).

Anticommedia teatrale e film d’azione, Woman at war è la fiaba di una donna-arciera-direttrice di cori che lotta contro un’isola felice sempre più militarizzata, piena di cecchini e di telecamere CCTV appena montate: un’Islanda biometrica, borghese, diffidente, benestante e paranoica. L’interprete di questa fiaba politica (e antipolitica) ha un (doppio) fisico non hollywoodiano eppure agilissimo, e soprattutto quella mezza età che, solo e soltanto alle femmine, le estromette dal mondo cine-televisivo3, essendo “troppo grandi” per recitare madri perennemente e irrealisticamente giovani (a vent’anni madri di ventenni in una società in cui si fanno i figli a quaranta) e “troppo giovani” per interpretare dolci nonne.

Quando vedremo mai, in Italia, un ruolo principale incarnato da un’esattamente cinquantenne affascinante e abile come Halldóra Geirharðsdóttir? Da una donna che non cede alle minacce, che non è sull’orlo continuo di un’acuta crisi di nervi (niente occhi tristi per l’eterno abbandono del maschio), che non è “appena stata lasciata”, appena stata tradita o in vibrante attesa del desiderante giovane uomo, in attesa di quell’“essere vista” ancora, prima dell’“essere spacciata” ormai?

Una donna che non ha l’ovvia narcisistica e tutta maschile “crisi di mezza età”, quella che consente (chissà perché) ancora in tempi moderni di sciorinare ai (tele)spettatori infiniti piani sequenza farciti con i Fallimenti dell’Artista e dell’Uomo, e del padre indolente e del fedifrago marito e dell’amante decadente, i monologhi del maschio a metà vita, eternamente rispecchiante sé stesso e le sue ambizioni da clichés. Quando vedremo nei film o nella serialità predominante un’eroina o un eroe, o un’antieroina e un antieroe, che non lottino solo e sempre per “mandare avanti” il minuscolo nucleo familiare, per proteggere sé stessi e la propria eredità di sangue, per difendersi dal mondo invece che difenderlo, il mondo, compreso quell’esterno che non appartiene tutto sommato a nessuno? E che si compone di personaggi e persone che non sono figli o consanguinei, ma presumibilmente simili, potenzialmente (se volessimo), aiutanti e complici su questa terra in cui ci è dato vivere assieme?

Halla è anche una donna single, e non se ne vergona mica. Quando le si presenta (e quello sì che, data la difficoltà reale del diritto reale nello Stato reale, nella nostra Europa e persino in Islanda sarebbe un miraggio vero, impossibile quanto non accorgersi dell’unica lettera tra le mille bollette e casualmente calpestarla), la possibilità di accogliere una bambina straniera, realizzando lo struggente desiderio di poter essere una madre “nonostante tutto”, Halla riflette con ogni parte di sé stessa. Con “un cuore nella testa” e la testa nel cuore.

E nemmeno lo stratagemma classico del protagonista-gemellare induce gli sceneggiatori a riproporre la classica “scelta prescritta” tra il bianco e il nero, attribuendo un maggior “istinto materno” alla diversissima sorella gemella e una mancanza di umanità e di “senso della realtà” alla militante incallita. Qui invece entrambe all’adozione tanto agognata saprebbero che in certi casi si è costrette, da donne o da uomini, ugualmente a rinunciare, chi per il “cammino individuale”, chi per una lotta che va ben oltre il benessere dell’individuo. E il motto che trasmetterebbero ai figli futuri non è “una madre può fare tutto”, ma piuttosto “cerca una soluzione, e trovala!”

Halla la cospiratrice propone tutt’altre forme di una (anch’essa eternamente cinematografica) “doppia vita”. Non vuole essere rimirata e vista ma, semmai, incidere nell’ombra. Senza nome, senza perder tempo, si mimetizza persino nel colorato benessere islandese, fatto di yoga e di televisioni sempre accese. Non rincorre lamentosi amanti, non sfoggia compagni fedeli, non ha illusioni all’antica. Ha invece dei complici, degli allievi-aiutanti, dei cugini presunti, dei melodici alleati che le offrono ritmo, tenacia, escamotages.

In Woman at war abbiamo infatti una fotografia immensa che si fa scena teatrale, stratificazione abbondante di terra e di esplosioni, e una colonna sonora che si fa personaggio, i cui esecutori sono gli unici ironicamente in grado di sfuggire alla polizia di Reykjavík, per accompagnare le azioni dell’eroina sostenendola con il giusto swing, a tratti “agendo” e intervenendo poeticamente sulla scena insieme all’attrice. Ma i tre musicanti non sono da soli, e fanno il paio con un coro, pian piano sempre più onnipresente e gagliardo, di donne che possono, infine, lottare con gli uomini.

Per le sue soluzioni, per conciliare l’accoglienza del singolo e la responsabilità della lotta per i molti, anche Halla non potrà più lottare da sola. Avrà bisogno di una solidarietà rapida e puntuale (di quell’Islanda tutta imparentata, e non solo), e al momento della scelta non abbandonerà la battaglia per il (bi)sogno di essere madre (che poi è anche il sogno di massa per eccellenza: la famiglia da sfoggiare). E forse possiamo credere che la responsabilità verso chi e cosa ci circonda non è altra cosa dalla responsabilità verso una singola persona da accogliere, e in certi casi non potrà darsi l’una senza l’altra, come in questa sceneggiatura perfettamente articolata.

Perché la lotta, almeno per un certo tipo di cospiratori, non è “un mestiere” che si possa interrompere a causa di forze maggiori e impegni personali. È invece un movente molto più forte, molto più bello del (pur meritatissimo) quieto vivere, è tempesta che anima tanto l’essere uomo quanto l’essere donna. Ed è anche un movente per condividere qualcosa di meglio con i figli ucraini che con estrema gioia accoglieremmo (che “ci somigliano” anche se provengono da un altro grembo e da un altro Paese), e con tutte le figlie e i figli e i cugini e gli amici a fianco dei quali dovremo camminare ancora in questo pianeta alluvionato… e con noi stesse infine, che non usiamo l’ombrello e l’arrotino non l’abbiamo mai visto in faccia.

Note

Note
1In un’industria culturale in cui la percentuale di cineasti prodotti, pubblicizzati e distribuiti è ancora, nonostante le promesse e le proteste, al 90 per cento maschile, consola il fatto che, se gli uomini sembrano ancora essere gli unici in grado di tenere in mano una macchina da presa, con alcuni sceneggiatori è almeno possibile il dialogo, così difficile nel quotidiano, sui ruoli, le possibilità e le ambizioni degli altri generi sparsi sulla stessa terra.
2Dice Marianna Cappi su MyMovies
3Come denunciato da Catherine Piffaretti dell’AAFA (Actrices et Acteurs de France Associés) durante il seminario “Éthiques & Mythes de la Création” tenuto a Parigi il 24 maggio del 2017 (e per combattere gli stereotipi di genere legati all’età, l’attrice è responsabile della “Commission tunnel de la comédienne de 50 ans”

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