Una macchina smontabile
Su Bert Theis e per un libero uso dell'opera
Ci sono macchine a innesco e ci sono macchine passive, macchine produttrici di senso e macchine dell’abitudine e della malinconia, macchine che producono norme di tempo e di spazio, macchine balbuzienti, sociali, artistiche, economiche. Macchine che sono conglomerati improvvisi estemporanei che si costituiscono per qualche tempo, mettono in moto un regime – a vario titolo – di produzione e si vedono scemare, ticchettando ritmi sincopati che annotano l’intrusione di altri inneschi o cesure. Ma ecco alcune stonano, si rompono, si fanno ripetitive e logorroiche, ossessivamente strutturate, e finisce che riproducono spazio e tempo giusto per mantenere quel regime fine a sé stesso.
La composta rigidezza di questa macchina produttrice di senso è il luogo della separazione senza ripartizione che stanzia nelle città e nelle istituzioni, nel sapere e nell’educazione. Ed è proprio a partire da una diversa esibizione dei saperi all’interno delle istituzioni, e di un porsi di un’educazione che, senza inficiare, affianca la crescita, che Bert Theis opera, in qualità di attivatore e traduttore di esperienze. La mostra Perché non sono riuscito mai nuotare ho deciso di volare a cura di Angelo Castucci, alla galleria Federico Bianchi a Milano, può essere quel volume d’aria spostato da una macchina per volare, ma colto in fermo immagine. Un fotogramma che riunisce alcuni degli artisti che hanno conosciuto e affiancato Bert durante Out, il New Museum o l’occupazione di RimaFlow, facendo propria non solo una progettualità orientata alla specificità del luogo, inclusiva di abitanti e pratiche comunitarie, ma la stessa formazione compartecipata che costituisce l’opera.
Parlare di compartecipazione piuttosto che di partecipazione, vuol dire intendere quel moto aggregativo nel sociale che non ha un regista o un direttore, ma è, forse semplicemente, un fare con, essere parte con. Viene alla mente il viveur dei rapporti situazionisti, uno spettatore che non è più semplicemente attore ma esploratore, che gioca con la propria esperienza in uno spazio aperto e comune. Quasi tutto il lavoro di Bert e dei suoi «compagni di viaggio» nasce come risultato di un gesto di compartecipazione, come appropriazione ed espressione di una collettività che si dà nell’agire di tutti. Una disposizione che si potrebbe pensare come una forma di appropriazione gratuita, una disponibilità concessa da quell’aperto di cui l’opera è l’accesso. Si tratta allora di pensare una relazione che non presuppone un «pubblico», ma un gruppo distinto di soggettività tanto attive quanto anonime, dalle – e attraverso – le quali l’opera si costituisce come tale.
La questione in gioco allora è in cosa e di cosa è costituita questa disposizione ad agire, alla produzione compartecipata, quale estetica assume l’accessibilità, l’apertura di una funzione a un uso arbitrario che è una relazionalità aperta. Assume senso in questa prospettiva quella sorta di banalità estetica di cui le opere di Bert Theis sono portatrici; un registro visivo che intende sfuggire alle dinamiche dello spettacolo, delle luci dei processi di valorizzazione capitalista che inquinano la pratica artistica. Penso che questa banalità formale sia espressione del tentativo di configurare un’accessibilità che sia un’apertura compartecipata. La percezione del banale è il risultato di una ripetizione che finisce col costruirsi come medesimo; è l’esito di una macchina produttrice di senso che perde sé stessa nella riproposizione del suo regime di visibilità, di presenza, è una macchina sociale balbettante e logorroica, a cui occorrono più voci per poter funzionare. Ed è la coralità di queste voci, il loro comune riproporsi che le introduce alla banalità, che in quanto tale è sempre compartecipata, aperta all’uso della collettività ed esclusa dai regimi di valorizzazione. La stessa radice etimologica di banale – bannum, dal latino medievale – significa bando, ed era il proclama del signore inteso a designare i confini della proprietà, pubblica e privata; designava la cosa comune, non di proprietà del feudatario, come acquedotti o mulini, qualcosa il cui uso era aperto alla comunità. Solo successivamente si ridefinì come ovvietà, mantenendo però comunque quell’aspetto che il banale già contiene, ovvero il suo essere comune a tutti, nei linguaggi, nelle immagini, nel sentire.
In questi termini il lavoro di Bert non si può definire poroso, forse, ma più che altro aperto, disposto a (per essere costituito con). Un principio fruibile di uno spazio senza precisi ordinamenti, spogliato di una specifica finalizzazione, in cui la compartecipazione si da’ nella possibilità di appropriazione, del bando al comune che questa macchina smontabile pensata da Bert produce. L’apertura di questo dispositivo è una forma di innesco situazionale. Così che allora, forse, non si può parlare di arte pubblica, di un’opera esibita a un pubblico o una città qualunque, ma piuttosto di concepire specificatamente una conformazione che sia in grado di bloccare, seppur momentaneamente, quell’abbacinante ripetizione che conduce all’indifferenza, alla mansueta consuetudine. Si tratta di un gesto programmatico che apre alla ridefinizione del quotidiano:
Questo intervento si tradurrebbe, a livello della vita quotidiana, in una migliore distribuzione dei suoi elementi e dei suoi istanti nei “momenti”, in modo da intensificare il rendimento vitale della quotidianità, la sua capacità di comunicazione, di informazione sociale. La teoria dei momenti non si situa quindi al di fuori della quotidianità, ma si articolerebbe con essa unendosi alla critica per introdurre in esso ciò che manca alla sua ricchezza. Tenderebbe così a superare, nel quotidiano, in una nuova forma di godimento particolare unito al totale, le vecchie contrapposizioni della leggerezza e della pesantezza, della serietà e dell’assenza di serietà.
[Henry Lefebvre, La somme et le reste]
Così che l’apparente inutilità delle opere collocate in città, in cui la funzione è desertificata, assente, metta in discussione non solo la funzione urbana di aggregazione sociale, di comunità, ma il senso stesso di utilità e di conseguenza della disposizione a fare. Ma è proprio questa sospensione del senso di immediatezza dell’utile che apre alle possibili alterità d’uso. Questa macchina smontabile funziona già nel suo essere componente e convogliatore di flussi, di disposizioni singolari. Concepita per essere smembrata e appropriata da altri, offre uno spazio libero – come le scritte che recano i cartelloni pubblicitari, bianchi – in cui la funzione predeterminata si fa meno, lasciando spazio all’eterogeneità dei valori d’uso. Contro l’imposizione di un utilitarismo proiettato alla produzione di valore e di un’utilità consona alla sua stessa riproduzione, l’opera di Bert si smonta, si ridefinisce in quella mancanza di compiutezza che apre a diverse disposizioni ad agire. I termini di questa macchina smontabile rientrano quindi nell’accessibilità data dall’indeterminatezza di una funzione, in quella sospensione di senso comune che concede il riscatto dall’appiattimento utilitarista. È una mobilitazione contro l’ovvio che rimarca la naturalezza anarchica del lasciare a chiunque divergenti possibilità d’uso e di appropriazione. Si tratta infatti di vedere l’apertura produttiva di una forma di utopia materiale che rimette in gioco sé stessa rendendosi tangibile, portando quell’aspettativa di futuro in una prossimità che si concede solo nella concretezza dell’agire di chi si presta al gioco, di chi si sdraia, di chi si siede, di chi passa. È questo che rende l’opera di Bert apertamente appropriabile, libera di appartenere alla soggettività qualunque.
Così che la mostra Perché non sono riuscito mai nuotare ho deciso di volare è a sua volta un pezzo del racconto scritto dai «compagni di viaggio» di Bert, artisti che hanno accompagnato e creato con e attraverso Bert, smontando la sua opera, appropriandosene e restituendola secondo le loro pratiche. Non per niente, nell’allestimento della mostra, le opere di Bert assumono la funzione di supporto, un display per le opere dei compagni. È bello infatti notare come questa macchina smontabile declini in un rapporto di usufrutto, appunto, una libertà d’uso che è quella del cogliere – squisitamente libertaria e utopica. Cogliere spazi e piante, come sarà poi Isola Pepe verde, come hanno potuto lavorare e pensarsi gli artisti che sono coinvolti con Bert, con la storia di Isola e tutto ciò che a essa ancora oggi si relaziona. L’usufrutto che scaturiva dalla messa in gioco delle dinamiche libertarie e collettive era un disporsi alla più ampia disponibilità di appropriazione. Le piattaforme, le sdraio, così come i precetti utopici che guidavano Bert nella produzione delle sue opere sono rivolte alla comunità che accetta di disporsi attorno, di giocare sopra e sotto queste piattaforme.
L’efficacia di un affiancamento libertario, incline all’eterogeneità dei saperi e delle funzioni d’uso, e avversa alle dinamiche di sgretolamento del sociale, è la tensione che emerge dal lavoro di Bert così come in quelli dei suoi compagni. La propensione a costruire una prossimità relazionale, un rapporto di amicizia e collaborazione che intende superare quell’imposizione d’uso che preclude un diverso modo di maneggiare il mondo. Si vedono allora i pezzi felicemente smembrati di questa macchina, si riconosce la processualità e l’apertura agli altri nel nesso compartecipativo che era simultaneamente parte intrinseca della concezione dell’opera e resa ideale della stessa. L’esito è essere autori e fruitori di luoghi e momenti di auto organizzazione del sociale, attraverso quei dispositivi – i pezzi di macchina – che offrono modi di appropriazione assenti dalle procedure di valorizzazione capitalista, profanando così l’imperativo d’uso. È in questo modo di lasciarsi assieme, in spazi e discorsi con pochi contorni, che Bert e i suoi compagni di viaggio ribadiscono la necessità di vicinanza nella mobilitazione contro l’ovvio.
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