Il Restyling di Garibaldi-Isola

Una set city?

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Isola Art Center. Rosta Project, Isola, Milano 2007.

Il progetto di riqualificazione del quartiere Isola-Garibaldi interessa una delle ultime aree centrali di Milano che, dal dopoguerra ad oggi, non aveva ancora subito un processo di riconversione del territorio urbano e di ridestinazione degli spazi pubblici e del verde. Garibaldi-Repubblica è stata ritenuta, fin dalla fine degli anni Ottanta, un’area strategica a livello europeo per le funzioni quaternarie che si intendono insediare su questa superficie di circa 230 mila metri quadri. Alcuni di questi progetti prevedono, tra l’altro, la creazione di una «biblioteca degli alberi», due torri di 19 piani, due edifici di nove e uno di sette, nonché 557 parcheggi e la connessione con la futura linea 5 della metropolitana. Questo imponente intervento di trasformazione dell’assetto urbano interessa un quartiero storico di Milano, di antica residenza operaia e con un tessuto di realtà artigianali che miracolosamente erano riuscite a sopravvivere fino ad oggi. Cuore del quartiere la Stecca degli artigiani, una ex-grande fabbrica dismessa, la Siemens Electra, testimone del passato industriale del cappoluogo lombardo, la cui vocazione direzionale attuale, sia a livello europeo che nazionale ha modificato il volto dell’intera città in modo radicale.

Milano è una città che ha già conosciuto fasi di intensa trasformazione, dopo essere stata la «capitale morale» d’Italia, sede di fabbriche che avevano richiamato migliaia di migranti dal Sud del paese, a partire dagli anni Settanta diviene il centro propulsore dei processi di ristrutturazione produttiva, che modificano l’area trainante dell’economia italiana spostando l’asse dal nord-ovest verso il nord-est. A partire da quel periodo Milano si trasforma in una realtà direzionale che vede un progressivo decentramento delle unità di impresa verso il nord della regione (Brianza) e sviluppa al contempo una significativa specializzazione nei settori cardine del made in Italy: moda, design, arredamento, ma anche centri finanziari e bancari di primo livello. Negli anni Novanta la svolta si definisce in modo evidente, interi quartieri si trasformano in «disney city», le periferie si dilatano in un continuum urbano tale da rendere l’intera area regionale, la più inquinata e trafficata d’Europa. Eppure, questo scenario che è una realtà tra le altre, nei termini dell’architetto Stefano Boeri, appare come: «il palcoscenico di confronto tra tecnologie sviluppate nel Nord del mondo e beni pregiati prodotti nel Sud del mondo. Una città dotata di un formidabile sistema logistico, che grazie anche alla nuova piattaforma di Arese le consentirà di ricevere, stoccare e distribuire nelle grandi infrastrutture espositive della città le merci provenienti dal traffico marittimo (da Genova), ferroviario (la linea del Sempione) e aeroportuale»1. In questa prospettiva si inseriscono interventi imponenti di mutamento territoriale e infrastrutturale, che vedono il raddoppio del sistema delle tangenziali, la creazione della linea 4 e 5 della metropolitana con il fine di rendere Milano e i suoi quartieri un «arcipelago di villaggi a tema». (Ibidem)

Il quartiere Garibaldi-Repubblica occupa in questa geografia una posizione di grande interesse, posto tra i principali snodi ferroviari, della Stazione Centrale e della Stazione Garibaldi, è dotato già ora di servizi metropolitani e infrastrutture adeguate che lo connettono con i principali punti nevralgici della città. Naturalmente l’esistenza di una grande struttura come la ex Siemens, lasciata andare in degrado per decenni, ha finito con l’attirare interessi pubblici e privati che rapidamente hanno avviato una ridefinizione di quest’area e del quartiere che vi gravita attorno. Ma la «Stecca degli artigian», situata tra via de Castilla e via Confalonieri, non è solo un residuato, un pezzo di archeologia industriale, poiché proprio in essa dalla metà degli anni Sessanta sino ad oggi hanno trovato luogo esperienze artistiche e sociali di grande rilievo, dotando Milano di un centro per l’arte contemporanea di cui stranamente, una città così proiettata nel settore della moda e del design, non è fornita.

Non è possibile a questo punto tralasciare l’analisi della modificazione della composizione sociale che il quartiere, ma in definitiva, la città intera hanno subito negli ultimi decenni. La grande borghesia industriale non è più tale e stenta a svolgere nella città un ruolo dinamico, i ceti operai e artigiani sono stati soppiantati dalle nuove forme che il lavoro ha assunto: precari, lavoratori autonomi, flessibili e migranti. Alla precedente identità industriale si è sostituita un’identità «scenografica» che vuole Milano vetrina della produzione di qualità italiana e sede del capitale finanziario. Ma l’altro volto di questa realtà è quello del precariato diffuso, che mette in discussione i diritti di cittadinanza al pari dei diritti di uso e progetto dello spazio pubblico.2

In questo contesto, l’uso alternativo della Stecca ha finito con l’essere un laboratorio sociale di pratiche urbane alternative all’uso privatistico del territorio, riuscendo inoltre a coinvolgere tutto il quartiere, che per una volta in modo trasversale, dalla parrocchia, all’Associazione dei genitori, al Comitato I Mille, ha iniziato ad impegnarsi per trasformare la grande area interna della Stecca e lo spazio verde limitrofo. Si è così pensato ad un uso attivo di un quartiere ancora capace di forti aggregazioni sociali e di legami, non solo con la memoria storica del territorio, ma anche con pratiche fondate sulla valutazione dell’impatto ambientale (mantenimento delle aree verdi, edifici non elevati), e di ristrutturazione dello «spazio fabbrica» capaci di soddisfare una domanda dell’abitare connessa alla tipologia della popolazione residente, costituita da anziani, ma anche da molte famiglie con bambini e da giovani artigiani. L’impegno del quartiere e dei suoi abitanti lungi dall’essere astratto ha prodotto con l’aiuto di tecnici, ingegneri artisti e architetti una progettazione dettagliata il cui scopo non era quello di preservare l’esistente, ma di farne un uso diverso evitando di deportare e smembrare insediamenti e attività produttive che costituiscono l’anima di questa zona.

Multinazionali e processi di estetizzazione dello spazio pubblico

Per comprendere come la volontà, i desideri e progetti dei residenti, nonché dei cosiddetti attori sociali non siano altro che un gioco illusionistico, una favola mediatica utilizzata per mascherare tecniche di governance particolarmente aggressive, il caso del quartiere Garibaldi-Repubblica è emblematico.

I cantieri sono avviati, la demolizione della ex Siemens già in corso e la multinazionale Hines Italia ha inoltre ottenuto un accordo che prevede un investimento di oltre un miliardo di euro finanziato per il 70 per cento da banche anch’esse già entrate nell’intesa. I progetti approntati prevedono una destinazione di 179 mila metri quadri ad intervento pubblico (Uffici della Regione, del Comune, ecc.) e i restanti 51 mila ad iniziative private che interverranno per la creazione di residenze, uffici, terziario…). Il verde pubblico occuperà 108 mila metri quadrati. Questo progetto è stato contestato dai comitati sopracitati e da tutte le Associazioni della Stecca, che hanno continuato a sostenere il proprio progetto in cui davvero la creazione di giardini, di spazi sociali, di spazi per l’arte e di infrastrutture quali asili e molto altro, nascevano da domande e bisogni effettivi della popolazione residente e non solo.

Ma, Milano, come si è visto, è la città che ha più cambiato pelle in Italia a partire dal dopoguerra, è cambiata non solo la sua configurazione edilizia, le sue attività produttive ma anche la sua identità che a furia di essere scritta, riscritta e disarticolata ha finito con il precipitare nell’anomia.3 Se questo processo è ascrivibile in buona parte alla «rivoluzione urbana»4 in corso, ancor di più allora alcune riflessioni divengono urgenti.

Lo spazio urbano nelle sue più recenti trasformazioni tende alla privatizzazione delle funzioni contando sui processi di globalizzazione, che impongono la strutturazione di città disarticolate e diffuse, ove però si insediano nuove gerarchie, soprattutto finanziarie, che finiscono con l’essere le vere artefici di questa nuova e rapida colonizzazione del territorio. In questo senso è possibile comprendere come la desertificazione e lo smantellamento dei tessuti urbani preesistenti, non costituisca di fatto un ostacolo per un processo edilizio e finanziario, che conta sempre più sulla concentrazione e specializzazione di alcune aree a vocazione transnazionale. Milano in quanto città laboratorio ha visto così negli ultimi decenni fiorire una serie di aree trainanti come l’asse Rho-Pero dove è sorto il nuovo polo fieristico, la zona Pirelli-Biccocca che ospita la nuova sede del Politecnico ed ora Garibaldi-Repubblica destinata ad essere il quartiere della moda e del design, ma anche il nuovo polo direzionale degli enti governativi regionali e comunali. Esoticamente questa trasformazione viene descritta nei seguenti termini: «Un arcipelago di edifici, quartieri e villaggi specializzati nell’accoglienza temporanea, ciascuno dedicato alla memoria di un brano del passato autentico di Milano. Una rete di villaggi a tema (Navigli District, Brera Art Resort, Isola Theme Park, Bovisa R&D Villag…) che impiegherà come forza lavoro popolazioni pendolari di lavoratori residenti nelle aree urbanizzate intorno a Milano.»5 Credo che sia inutile sottolineare più di tanto, come questa disney adventure, non sia altro che il solito processo di museificazione e svuotamento delle aree centrali con conseguente dilatazione del territorio periferico e pendolarizzazione indotta della forza lavoro.

Simili processi che mettono in gioco ingenti capitali, banche, istituzioni private e pubbliche non contrattano con la cittadinanza, perché è proprio lo statuto di cittadinanza che oggi è divenuto obsoleto. Ovviamente queste nuove gerarchie territoriali sono produttrici di un’amplificazione e marginalizzazione dello spazio periferico chiamato a gestire tutte le emergenze di una società in rapido cambiamento. L’insieme di queste considerazioni spiega l’insorgere dell’«allarme criminalità».6 Infatti, una delle motivazioni che hanno permesso e agevolato lo sgombero della «Stecca degli artigiani» è stata quella del degrado causato dallo spaccio praticato dagli extracomunitari, che nessuno sembrava in grado di risolvere, se non ricorrendo all’azione delle ruspe e alla liquidazione di tutte le altre attività che si svolgevano nello spazio della ex-fabbrica.

La gestione del degrado è stata risolta, per dirla con Michel Foucault, in termini di polizia7, ma la governance sottesa da questo intervento evoca una strategia più ampia e raffinata, che ha utilizzato la mediatizzazione e amplificazione del fenomeno. Parallelamente si portava l’attenzione sulla creazione di un quartiere nuovo più bello e sicuro, questa narrazione ottimistica e patinata otteneva grande rilievo sui media grazie alla scesa in campo di architetti famosi che, come Boeri, hanno iniziato a parlare di una battaglia per la modernità contro il conservatorismo.

In tutto questo, quartiere e abitanti sono stati dematerializzati e costretti a notificare l’avvenuto stato delle cose. La valorizzazione in termini tecno-finanziari di Garibaldi-Repubblica, la brandizzazione delle aree centrali, è anche la cartina tornasole della mutata vocazione della più grande regione urbana d’Italia, che cerca di scrollarsi di dosso il disagio di un certo provincialismo culturale. Eppure ciò che viene cancellato non è tanto la memoria storica, ma il nuovo che si era prodotto riutilizzando e modificando l’uso di un quartiere, di una ex-fabbrica, dei giardini, delle unità artigiane, che avevano richiamato artisti da tutto il mondo, felici di aprire qui i propri atelier in una prospettiva di arte pubblica e non decorativa. La creazione pluridecennale di queste attività era stata dunque capace di mutare vivificandola l’identità originaria, migliorando la qualità di vita dei residenti ed anche di tutti coloro che in questa zona trovavano uno spazio creativo e condivisibile del vivere urbano odierno.

Occorre peraltro precisare che né out (Office for Urban Transformation), né il Forum Isola (le associazioni e i cittadini del quartiere) e nemmeno tutte le realtà gravitanti intorno a questa realtà, hanno mai coltivato alcun intento nostalgico. Si è trattato di mettere in atto delle azioni alternative a talune pratiche di svuotamento violento dello spazio pubblico, in cui gli arredi urbani, le piazze, i luoghi di produzione culturale e quant’altro, scompaiono per lasciar posto a luoghi freddi, a torri griffate e ad eventi il cui unico fine è la commercializzazione di ogni frammento dell’esistenza.

A Milano, come a Berlino, piuttosto che a Parigi assistiamo ad un progressiva mortificazione dei differenti stili di vita, tipici delle grandi aree urbane, in funzione di una cementificazione sempre più in verticale di quartieri appetibili sia per la loro collocazione geografica che riguardo alle nuove cartografie della globalizzazione. Sono questi i nuovi «terreni vaghi», i territori dell’anomia in cui si lavora e da qui si fugge di sera, al di là di eventi, sfilate e iniziative che hanno unicamente una funzione vetrina. La periurbanizzazione dell’urbano come direbbe il geografo Michel Lussault8, risulta essere prodotta da questa nuova geografia delle città europee in cui il progetto insediativo si sovrappone alla città in divenire9, che cambia pelle in continuazione, poiché al pari dell’internazionalizzazione dei capitali, anche i soggetti e i corpi che vi sono coinvolti non si possono più leggere come stabilmente stanziali. Per questo sarebbe più opportuno raccogliere la sfida e l’interrogativo che proviene da questa nuova condizione dell’essere cittadino oggi, che si declina anche come migrante, precario, bambino, donna e anziano. Per tutte queste figure è finito il tempo dell’appartenenza per sempre ad uno stesso territorio ed è iniziato un movimento di smottamento carico di incertezze, che solo in pochi casi può assumere l’esito scelto consapevolmente del nomadismo.

Alle figure sempre più incerte, «liquide» come afferma il sociologo Zygmunt Bauman,(11) dell’urbano attuale non si può rispondere con la creazione di spazi mirabolanti per progetto architettonico, perché lo spazio non è definito e disegnato solo dalle tecnocrazie; esso è mutante e in questo suo divenire occorre saper cogliere l’opportunità di pensare a case, luoghi di lavoro, di incontro, di espressione creativa che agevolino le relazioni divenute più fragili, riuscendo così anche a compromettersi con tutti quei segnali di disagio, microcriminalità e insicurezza che sono il frutto della città negata e cancellata nei suoi corpi e figure materiali.

Qualche nota sugli eventi successivi: della colonizzazione dell’immaginario

La situazione descritta precedente, [confronta «Urbanisme» nel 2008]10 ha ovviamente subito un’evoluzione tutto sommato prevedibile. L’immagine mirabolante di un quartiere in trasformazione, che in occasione dell’Expo 2015 avrebbe trainato la metamorfosi dell’intera area metropolitana milanese, è stata soppiantata da ben più immediati e concreti problemi. Carenza di risorse, trascuratezza e abbandono di ogni riqualificazione dello spazio pubblico, interessi voraci del privato in tutte le sue articolazioni. Ciò che preme in questa sede sottolineare, è però un aspetto specifico, in termini semantici del processo in corso. Potremmo partire così dal concetto tanto rilevante nella riflessione di Cornelius Castoriadis, di produzione di immaginario e della sua rilevanza nella materialità delle recenti trasformazioni.

Il progetto Isola-Garibaldi oltre ad essersi nutrito delle più avanzate strategie di «brandizzazione» dello spazio pubblico, soprattutto di quello urbano, rivela l’importanza della costruzione dell’immaginario come nuova forma, tecnologia dell’organizzazione del consenso. È il primato della visione che afferma il proprio discorso egemonico. Il visivo non solo precede il racconto, ma è oramai il racconto stesso (Mc Luhan), in una finitezza che la parola non saprebbe consentire. Bene, è proprio questa finitezza, questa delimitazione entro codici simbolici rigidamente selezionati che permette al visivo di captare l’immaginario e indurlo in una logica di rispecchiamento infinito, ma senza margini.

La produzione virtuale, simulata e immateriale della «città futura» ha avuto nella espropriazione del quartiere Isola-Garibaldi, un ruolo decisivo: giardini verticali, svettanti grattacieli, negozi, vie d’acqua, musei, ecc. la versione si è nutrita della narrazione più banale e fittizia delle nuove sensibilità ecologiche, laddove si facevano intravvedere spazi-natura riconsegnati ai cittadini. Tale operazione si è articolata attraverso l’impiego di tutte le tecnologie oggi disponibili, proponendo un’interattività e un’accessibilità di pura facciata. La messa in opera di un simile apparato dell’immaginario precostituito, aveva e ha un compito strategico: spostare l’attenzione, espropriare le conoscenze, illudere pervicacemente rispetto a quanto era ed è l’operare materiale.

La risemantizzazione ha prodotto un violento movimento di adeguamento ai modelli proposti, dunque il suo portato lungi da restare nell’orizzonte della fabula ha avuto immediate e rilevanti risignificazioni del «reale». La desiderabilità del «mondo possibile proposto» confliggeva e confligge con gli interessi degli abitanti, dei soggetti coinvolti e della cittadinanza mentre questi sprofondavano nell’afasia. Le esistenze afasiche sono il lato negato dell’egemonia visuale, che dunque porta con sé anche un più complessivo depotenziamento della sensorialità multipla. Per questo motivo il nomadismo molecolare che Isola Art Center ha deciso di mettere in atto, è un vero e proprio «passaggio all’atto della sensorialità negata». Attivare queste pratiche che prevedono situazioni temporanee in luoghi temporanei, ha lo scopo di valorizzare tutta l’estensione del sensibile e la sua intelligenza espressiva. In questo modo nascono gli ambienti, si sciolgono le ovvietà in un umoristico e sapiente sovvertimento di senso. La riduzione dello spazio pubblico a spazio del consumo tout court, altro non è che un tentativo di privatizzare l’esistere in ogni sua manifestazione. Sovvertire questa tecnologia di potere è possibile articolando la mutazione di senso, lasciando alla merce il suo compito di proterva colonizzazione del quotidiano e rimettendo in gioco «le leggi dell’ospitalità».

 

Note

Note
1Multiplicity.lab, Milano, cronache dell’abitare, Bruno Mondadori, 2007, p. 15.
2Vedi in proposito il bel lavoro di indagine sulla residenza operaia a Milano sia pubblica che privata svolto da Maurice Cerasi e da Giorgio Ferraresi, nel periodo che va dalla fine dell’Ottocento alla creazione di periferie dormitorio negli anni Sessanta. Si tratta di un lavoro teso ad indagare «la forme fisiche, edilizie e infrastrutturali, entro cui si determinano le condizioni abitative e urbane». È un libro di inchiesta prezioso per la mole di statistiche, interviste e mappature che offre. Maurice Cerasi, Giorgio Ferraresi, La residenza operaia a Milano, Officina Edizioni, 1974.
3Il concetto sociologico di anomia unitamente a quello di glocal è stato utilizzato da Aldo Bonomi in un testo dedicato alle recenti trasformazioni dell’area metropolitana milanese in occasione della Triennale di Milano del 2004. Aldo Bonomi, Alberto Abruzzese, La città infinita, Bruno Mondadori, 2004.
4Alla rivoluzione urbana in corso su scala planetaria ha dedicato un’attenta riflessione urbano-filosofica Thierry Paquot nel suo Terre urbaine. Cinq défis pour le devenir urbain de la planète, La Découverte, 2006.
5Multiplicity.lab, op. cit. p. 15.
6Sull’emergenza criminalità si è avviata una vera e propria campagna sia mediatica che politica, alcuni comuni come quello di Padova, Bologna, Milano hanno intrapreso azioni di ripristino dell’ordine pubblico che coinvolgono in massima parte extracomunitari o Rom. Tuttavia l’intervento non pare risolutivo, anzi ha finito con lo sparpagliare queste «non persone», come direbbe il sociologo Alessandro Dal Lago, in aree sempre più periferiche e dunque già gravate da problemi di disagio, precarietà, reddito basso. Cf. Alessandro Dal Lago, Non-persone. L’esclusione dei migranti in una società globale, Feltrinelli, 1999.
7Cf. Michel Foucault, Naissance de la biopolitique, Cours au Collège de France. 1978-1979, Gallimard-Seuil, 2004.
8Cf. Thierry Paquot, Michel Lussault, Sophie Body-Gendrot Ed., La ville et l’urbain, l’état des savoirs, La Découverte, 2000, pp. 233-243.
9Mi permetto a questo proposito di rimandare al mio Il tempo della trasformazione, Manifestolibri, 2006.
10Tiziana Villani, Milan. Conflits autour de la requalification du quartier Isola Garibaldi, in «Urbanisme» n. 358, gennaio-febbraio 2008, pp. 36–42.

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