Una teoria perturbante

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Tomaso Binga, Inno alla scrittura, 1977, inchiostro e fotografia su cartoncino (9 elementi), cm 36x11,5 cad.

L’articolo di Barbara Carnevali1 ha l’astuzia e la plasticità di tutte le prese di parola confuse. Funziona – e funziona davvero – ma per effetti paradossali. A partire dal suo nucleo tematico: «un invito provocatorio» a mettere in discussione quel «simulacro di filosofia», quella «scolastica postmoderna», quell’«amalgama disparato» o, più elegantemente, quel «détournement letterario della tradizione filosofica» che l’autrice sintetizza nella parola Theory (con la maiuscola).

Di confuso – e appunto paradossale (ma quale provocazione non lo è?) – c’è questo: che l’esortazione impertinente a questionare una sedicente «filosofia sintetica low-cost, a misura di un pubblico medio», ha come contraltare un appello al rigore argomentativo impedito tuttavia proprio da quel suo parlare in generale. Senza voler cioè specificare l’oggetto dell’affondo. Di quali autori, di quali testi, di quali controversie, di quali discussioni, di quali seminari, si sta trattando? In una conventicola volgare e, immagino, per Carnevali sprezzabilissima, chessò in una piazza o in una strada o in un bar, si direbbe: ma con chi ce l’ha? Discutiamo forse dell’uso della filosofia europea nei dipartimenti di letterature comparate? O dei festival di filosofia e delle diverse manifestazioni dell’industria culturale (così ad esempio nel suo blog ha inteso Matteo Meschiari2)? O ancora delle condizioni di produzione del sapere nelle scuole e nelle università(su questo è intervenuto Benedetto Vecchi3)?

Non esattamente. Oggetto della polemica è questa parola: Theory. Non solo l’Italian Theory – che tra l’altro è stata di recente al centro di un’ampia e diffusa valutazione, cui non si sono sottratti i principali sostenitori di quel programma – ma proprio la Theory in generale. La mia goffaggine sarà certo perdonata: ma scopro con l’occasione che evidentemente devono esistere una connotazione univoca del termine ed un largo seguito di theorists (suppongo, ma non vorrei esagerare, in carne ed ossa e dotati di nome e cognome). Al più, scorrendo il testo, si intuisce cosa non fa problema. L’autrice riconosce galloni di nobiltà a Toni Negri, a Giorgio Agamben e più in generale ad autori come «Marx, Nietzsche, Lacan, Foucault, Deleuze, Bourdieu, Said, Spivak, Butler, Žižek, l’onnipresente Benjamin, l’uscente Derrida, la new entry Latour…». Obiettivo dell’affondo critico, immagino dunque sia l’uso che di questi autori si fa. Ma allora la domanda diventa: dove? In quale contesto? In quale occasione?

Si potrebbe chiedere all’autrice: non è forse che specificando meglio il bersaglio della stoccata, si potrebbe ad esempio iniziare a distinguere, quindi comprendere, di conseguenza analizzare e forse avanzare di un poco nel discorso? Basta l’evocazione di una cattiva scolastica, per determinare il quadro del ragionamento o non urgerebbe forse maggior franchezza, per poter argomentare in pubblico? Questioni di filosofia, come si vede. Tuttavia, l’articolo ha avuto una buona circolazione nel web ed ha assunto la funzione di una salutare critica del conformismo filosofico. Insomma in molti, di questo paradosso esplicito, sentivano la necessità.

Discutiamo allora. E discutiamo, come invita a fare Carnevali, con «rigore», «chiarezza», «solidità definitoria». Di definito, nel testo, persiste unicamente un carattere: ciò che, secondo Carnevali, contraddistingue un metodo filosofico impermeabile all’orrendo pantano del low-cost, e per conseguenza non conformista. Partiamo dunque da qui. Se leggo bene si tratterebbe di una pratica di ricerca e di insegnamento che lascia a bocca asciutta quegli studenti che vanno a lezione «per conquistare pezze d’appoggio per il commento di un testo letterario o un film, se non addirittura per la creazione di un’opera d’arte». Deprecabilissima attitudine. Come anche quel pubblico che intende «rileggere selettivamente i classici» per «aggiornare» la sua «vecchia agenda politica». Che queste cose possano farsi cum grano salis e reciproco vantaggio, non si è evidentemente disposti ad ammetterlo. Piuttosto va rilanciato un programma altisonante: torni ad essere, filosofia, la perigliosa e improba fatica che deriva dalla «ricerca della verità, del senso e della totalità», il ragionar per «considerazioni oggettive e non sociali».

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La presenza di una «inquietante verità», immune dai condizionamenti storico-sociali, acciuffata oggettivamente, perturba, dice Carnevali e garantisce, sola, il crollo delle «sicurezze intellettuali» d’un pubblico distratto, ridotto dai theorists a masticare il dialetto della lingua dei padri: da Platone a Spinoza, da Hobbes a Hegel, Kant, Nietzsche, Wittgenstein. Allora oggetto del testo è qui: salvare il vero oggettivo dalla palude in cui galleggiano insipidi «il potere, il bios, il genere, il desiderio e il godimento, il soggetto e le moltitudini, la coppia dominanti-dominati, il capitale e lo spettacolo, etc.». Ricerca della verità è il pensiero critico. Ed è già tanto che non abbia voluto scriverlo con la maiuscola. Su questo concordiamo. La proposta, in effetti, perturba.

Note

Note
1Barbara Carnevali, Contro la Theory. Una provocazione, in Le parole e le cose, 19 settembre 2016.
2Matteo Meschiari, Epistemologie del tardo occidente, in Pleistocity – The blog.
3Benedetto Vecchi, Un j’accuse che salva l’anima, in il manifesto, 22 settembre 2016.

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