La civiltà degli androni
Una riflessione su Corcovado, e sull’odore di aria stantia nei compartimenti stagni delle arti contemporanee
Ricordo il 25 giugno 2017. Negli Stati Uniti andava in onda l’episodio numero 8 della terza serie di Twin Peaks, diretta e ideata da David Lynch. Il regista americano in 58 minuti aveva ristabilito gli assi cartesiani della video-arte. Quel che era interessante, infatti, di quella breve puntata di una serie divenuta capitolo nobile della storia della televisione, era il modo in cui un regista di cinema – pur visionario come l’autore di Mulholland Drive o Eraserhead – facesse irruzione all’interno di un altro linguaggio e vi impartisse una suprema lezione. C’è da dire che Lynch ha portato avanti, negli anni, una lunghissima frequentazione col mondo delle arti visive, ma l’esito raggiunto in quell’episodio ormai storico andava al di là di ogni aspettativa per quanto riguarda la ridefinizione dei registri linguistici.
Ho rammentato tutto questo quando mi sono trovato ad assistere alla performance Corcovado nata dal genio di Michele Di Stefano, leone d’argento alla Biennale di Venezia (settore danza) nel 2014, affiancato, nell’occasione, da Luigi De Angelis e da un Lorenzo Gleijeses in forma smagliante nelle vesti di danzatore. Anche in questo caso, come nel precedente da me citato, veniva dato fuoco ad un confine balcanico come quello tra due ambiti piuttosto simili, ma profondamente distanti, la performance teatrale (o di danza) e quella che fa riferimento alle arti visive. Nel suo insieme questo genere di opere costituisce uno degli oggetti più complessi e al contempo più frequentati – verrebbe da dire usurati – dalla produzione contemporanea. Se c’è, infatti, una forma d’arte che può, con un certo grado di sicurezza, essere assunta a simbolo della produzione del XXI secolo, è proprio la performance. E non c’è bisogno di citare la vittoria del padiglione Lituano alla scorsa Biennale di Venezia per suffragare questa affermazione. Varrà, però, la pena di farlo per dire che, anche in quel caso, ad aggiudicarsi il Leone d’oro sono state tre artiste provenienti da discipline affini, ma differenti dalle arti visive propriamente dette. La conclusione che se ne può trarre e che anticipa la riflessione che andrò a fare di seguito, è simile al celebre adagio tratto da Per un pungo di dollari che così recita: «Quando un uomo con la pistola incontra un uomo col fucile, quello con la pistola è un uomo morto». Questo per dire – traslando – che quando un coreografo (o un regista di teatro) incontra un artista visivo sul territorio della performance, il rischio che quest’ultimo abbia la peggio è piuttosto alto. Fortunatamente in questo caso, come in quello di Lynch, il trio teatrale che ha concepito e realizzato Corcovado non ha incontrato nessuno sulla propria strada e ha potuto dar corso al suo «episodio numero otto» senza spargimenti di sangue davanti ad un centinaio di spettatori.
Tuttavia, qualcuno con cui confrontarsi c’era, magari non in carne ed ossa, ma nel fantasmatico stato di memoria dei luoghi. La performance a cui ha assistito chi scrive, infatti, si è svolta al museo Madre di Napoli, tempio dell’arte contemporanea di queste ultime stagioni italiane. Ed è su questo terreno che l’opera, costruita su un nastro trasportatore – di quelli che si possono vedere negli aeroporti, per intendersi -, ha imposto la sua legge. Quanto visto nei circa 45 minuti della sua durata si può dire che sia valso più o meno quanto tre anni di programmazione (pur pregevole) dell’intero museo. Questo perché l’opera di Di Stefano e compagni ci dimostra una cosa semplicissima, ossia che non si può scrivere la storia dell’arte in Italia mantenendo la ferrea quanto insensata distinzione tra le discipline che si è andata lentamente imponendo dagli anni Ottanta in poi. C’è, infatti, più arte contemporanea in questa performance ospitata per due giorni dal Madre (ma che avrà una tournée in altri spazi simili) che in tutte le mostre che mi sia capitato di vedere da qualche anno a questa parte, tra musei, gallerie e fondazioni varie ed eventuali. E questo, forse, perché la danza, quando sconfina dai suoi ambienti abituali è in grado di affrontare temi e problemi – anche di linguaggio – con una immediatezza che non inciampa in quelle forme sclerotizzate di tradizione a cui le arti visive hanno ceduto un po’ per compiacimento, un po’ per reazionaria debolezza. La danza verso tutto questo, nel momento in cui entra in un museo, può mostrare una naturale irriverenza.
La grande sala della Repubblica Madre si svuota, evitando conflitti segnici e coabitazioni improprie viste in altri casi (nello stesso museo), per accogliere il dispositivo scenico, per giocare, giustamente «alle sue regole». Sul nastro trasportatore, che è struttura fisica, ma anche narrativa dell’opera, corrono lacerti esistenziali, tracce di vita, oggetti ludici, finanche esseri umani in carne, ossa e sangue. Sembra di vedere scorrere su quella sorta di tapis roulant nero la linea vitale di un elettrocardiogramma, che registra accelerazioni e rallentamenti esistenziali, picchi e cadute, giri a vuoto, soprattutto. È la registrazione, non la rappresentazione, della realtà che ci assale. È qualcosa, quindi, di reale a sua volta, che ci aiuta a capire quella differenza per nulla sottile tra arte e, appunto, rappresentazione. Se la prima, infatti, attiene a qualcosa di vitale, di miracolosamente vivo, non diversamente da noi, dagli animali randagi che abbiamo incontrato lungo la strada per raggiungere il museo, la seconda è un sistema di codici fatti per intendere – nella migliore delle ipotesi – o per ammiccare – nella peggiore.
È quasi divertente notare come la frutta che viene qui vomitata dal nastro come un accidente dell’esistere, insieme a tutto il resto delle cose essenziali e inessenziali che viaggiano con noi nella dimensione di un tempo che è sfuggito non solo al nostro controllo, ma anche alla nostra capacità di adattamento, possa aiutarci a rileggere una famosa banana recentemente balzata agli onori delle cronache dell’arte e divenuta un po’ il simbolo dell’arte contemporanea in quella deteriore prospettiva di rappresentazione a cui ci si è appena riferiti. Si trattava in quel caso del campione di quella sclerotizzata tradizione fatta di cliché del linguaggio, di quell’anti-lingua dell’arte che ormai trattiamo come fosse parola primitiva e poetica, confondendo la naturalezza con l’abitudine. Tutto questo è evidente nel momento in cui il simbolo «buffo» (e qui valga la definizione che ne dà Carmelo Bene rispetto al «comico») si mette a paragone con una vitale e crudele (artaudianamente) lettura della realtà che non ha tempo di prendere in giro niente e nessuno perché, come la realtà stessa, non conosce pietà. È il caso di questa performance, che non deve ammiccare ad un codice o a una morale di riferimento da sbertucciare. Questa performance si dà come realtà a sua volta, senza filtro, col fiatone, fortunatamente senza alito pesante.
Alcuni decenni fa, ormai, appuntavo su un diario perduto, una frase che poi ha guidato le mie indagini sulla generazione a cui appartengo. «Siamo diventati la civiltà degli androni», questo scrivevo, per sommi capi, qualche anno prima dell’inizio di questo secolo. Cosa intendevo? Semplice, che siamo ormai i custodi del grande edificio (culturale, civile) costruito dai nostri precursori e che non ci appartiene più. Lo abbiamo forse ricevuto in eredità, ma lo abbiamo perso al gioco, o magari abbiamo solo smarrito irrimediabilmente le chiavi delle sue stanze e ci siamo ridotti a vegliarne la notte, aggirandoci negli androni illuminati dai neon di sicurezza, al suono oleoso della televisione che proviene dal gabbiotto in cui, buon bisogno, ci addormentiamo, ogni tanto, un po’ rincoglioniti dal sonno o dalla Rai. Ed ecco che dagli androni della mia immaginazione di fine millennio, questa performance trasporta me e i miei colleghi spettatori nel loro omologo aeroportuale di questi esordienti anni Venti, dove la vita, passa e si perde, come fosse una ferita aperta, sorvegliata dall’apatia di un custode che s’alza quando vuole, quando gli va, per raccogliere una valigia caduta, un bagaglio rimasto a girare all’infinito per spostarlo da una parte all’altra senza che la cosa si carichi del ben che minimo senso.
Vedere tutto questo, fuori metafora, come «registrazione» appunto, è, per dirla con Bene – quando dal «buffo» passa a definire il «comico» – , «cattiveria pura, lama gelida e affilata che trafigge i ben decorati presepi» in cui ci convinciamo di abitare. La testimonianza che posso darne, come è mio compito, da spettatore, ha il sapore amaro di una conferma, quella per cui allora, il mondo che abbiamo visto coi nostri occhi, e di cui non trovavamo riscontro nelle conversazioni dei bar o nelle tribune televisive, era tutto tranne che un’allucinazione.
condividi