How To Disappear
Una mostra di Guendalina Salini
Fino al 20 novembre è allestita, presso la Galleria Ex Elettrofonica (Vicolo Sant’Onofrio 10, Roma), la mostra personale di Guendalina Salini dal titolo «Parade». Per l’allestimento l’artista ha trasformato gli spazi della galleria in una caverna primordiale, rielaborando in chiave contemporanea le famose Grotte de Lascaux. Per l’occasione, oltre a invitarvi a partecipare, pubblichiamo il testo critico di Serena Soccio scritto per la mostra.
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Il mondo è ancora vivo, quello che cerchiamo è già qui, frammentario, imperfetto, ruvido e arrugginito come le cose reali, come noi. Si tratta solo di avvertirne l’esistenza. Ritrovare il contatto. Siamo la modificazione continua di un corpo di un essere precedente. Ogni vita porta con sé tratti e forme di vita che l’hanno preceduta.
Le cose, i viventi non sono entità ma giochi, esperimenti in cui la vita si diverte ad assemblare le forme, continuamente, dove la morte è solo un riciclo che continua in una comunità ecologia ancestrale.
Immaginiamo una caverna di Platone al contrario, in cui la caverna non è più prigione da cui scappare verso la conoscenza ma rifugio, tana, fiaba a cui ritornare ammettendo il fallimento della modernità, del progresso. Dopo secoli d’imperterrito capitalismo è scomparso l’humus che costituisce una vita comune. Perdiamo tempo a parlare con un algoritmo che ci saluta chiamandoci per nome, supplendo al nostro bisogno di contatto, a digitare pin e immagazzinare sempre più codici, mentre il globo, il clima e la sfera finanche del nostro privato collassano. Viviamo dissociati, adulti e bambini che già da piccolissimi danno segni di notevole disagio, devoti del godimento, obbligati alla rimozione costante della violenza funzionale che ovunque dilaga e che ormai nemmeno ci scalfisce, se lo facesse forse si porrebbe concretamente fine al disastro che coinvolge tutta la nostra vita.
Come sopperire a questa eclissi dell’immaginazione? Come riuscire a lanciare lo sguardo oltre la paralisi che ci atterrisce e cercare una via di fuga dall’alienazione, dalla declinazione ontologica per cui esiste un solo “dio” e varianti totalitaristiche, per cui il mondo si divide in chi crede e chi esercita sapere e dove porta poi questo sapere se non alla distruzione dell’oggetto conosciuto e alla fine anche del soggetto? Ogni Io è destinato a scomparire.
Questo lavoro cerca di dare risposta alle urgenze poste e moltiplica gli interrogativi in quell’incedere tipico della ricerca. Nasce, per la creazione di quest’opera, la necessità di un dialogo di un pensiero corale, un’occasione di incontro per pensare insieme, consapevoli ormai che l’atto critico più sincero coincida con la creazione artistica, con una vicinanza, una frequentazione affettiva dell’artista che proprio per la sua natura è strutturalmente critico.
Nella conversazione tra me e Guendalina Salini si è riflettuto sulla caverna, sul minerale ferro e le sue metamorfosi (la ruggine e l’ossidazione), sui reperti, i ritrovamenti come feticci e simboli ancestrali sopravvissuti a un mondo che si fa e si disfa senza sosta, nella continuità della vita degli elementi che la compongono e la proiettano incessantemente tra passato e futuro. Dall’idea del minerale, ci si è rivolte all’interno riflettendo sul domestico, sull’intimità, sullo spazio dell’incanto.
Cosa facevano all’interno della caverna i primi esemplari di umanità, perché rappresentavano solo animali, piante, sogni e mai loro stessi? Cos’era la grotta se non la necessità di un rifugio, di riparo, l’andare in quell’abisso primordiale di creatività, rito e vita domestica. Cos’è che si perde in fondo al tempo, quali tracce invece rimangono di una ferrea volontà e speranza di lasciarle, ai posteri sulle pareti di una grotta, nella carcassa di un edificio abbandonato, in una bandiera perduta, nel dominio dell’erba incolta di un terzo paesaggio?
Il percorso visivo imposto dalla galleria che si è voluta in parte far scomparire ma anche utilizzare nella sua peculiare restrizione, quasi una grotta appunto, per costituzione ci consegna in tutta la loro potenza, simulazioni di pitture rupestri tridimensionali che accarezzate dalla luce sembrano risvegliare una proto-cinematografica visione di un mondo passato, in cui i segni del tempo e le sue trasfigurazioni materiche restituiscono un brulicare di vita continua, possibile nell’alternanza ripetitiva e quindi vitale di eros e thanatos.
Peculiare pensare che i primi manufatti furono utensili e non armi, ma che un osso animale, una pietra appuntita, un bastone semi-incenerito fossero usati tanto per tracciare segni di vita quanto per spegnerne una.
E se i vinti continuano a dare voce al mondo, nei villaggi sperduti del Mali, les forgerons, considerati i “primi figli del mondo” conoscono i segreti della fucina, dominano il fuoco e il metallo, fabbricano gli arnesi e per definizione sono anche grandi erboristi e cucinieri di preparazioni vegetali protettive e nutrienti per la comunità.
La creazione di un microclima di simbolico e materia, fatto di elementi accostati con l’attitudine di fare mondo, la costituzione di quell’humus che poi diventa cibo, nutrimento, cura nella dimensione più intima dello stare insieme.
How To Make A Soup
Si può pensare di costruire una mostra partendo dalla realizzazione fisica e simbolica di una zuppa? Quell’arte di trasformare gli alimenti in pietanze che forse ci rende umani, là dove cucinare insieme diventa atto intimo e sociale.
Ciascuno pensa agli elementi da inserire, gli odori, i colori, il tempo di realizzazione, gli utensili, la cucinazione, la forma del recipiente, il processo inaspettato che modificherà per sempre la materia prima che da solida si farà man mano poltiglia e cambierà consistenza.
Fare una buona minestra richiede tempo, accuratezza e attenzione, rappresenta l’affetto che si prova nei confronti di coloro che consumeranno il pasto, la volontà di prendersi cura e la gioia di offrire ciò che si è preparato.
Il cibo parla, racconta, apre orizzonti, congiunge mani e regni, attraversa il tempo e lo spazio. E allora la zuppa diventa metafora di mondo: zuppa di terra, zuppa di fango, zuppa di bottoni, zuppa di ferraglie e ruggine, zuppa del diavolo, zuppa cosmica nel miracolo della continuità, in quella stretta relazione di medesima vita che passa di corpo in corpo, di individuo in individuo, di nazione in nazione, di zuppa in zuppa.
Eppure nella costruzione democratica e povera di una minestra (il Borsch conteso tra Russia e Ucraina), c’è chi riesce a litigare per l’attribuzione di un’identità invece di essere disposti a moltiplicarla a favore di una fremente collaborazione che esalta le diversità e le completa.
Fortunatamente la vita passa indisturbata tra le forme e l’enigma delle immagini si scioglie solo attraverso un’ermeneutica sentimentale, così l’unico sentiero che possiamo provare a raggiungere, in un mondo che si popola di fantasmi, è quello verso una grotta misteriosa, dove voci familiari ci raccontano un’altra storia possibile, dove i soggetti si intrecciano e si perdono nel ribollire di una pentola sul fuoco che risuona fin dall’altra parte dei mondi.
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