L’avventura del corpo

Un libro di Fabienne Martin-Juchat

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Foto di Davide Casella (2011) - Gerta Human Reports

Per le edizioni Guida è appena uscito un importante saggio di Fabienne Martin-Juchat dal titolo «L’avventura del corpo. La comunicazione corporea, una via verso l’emancipazione», con la traduzione di Margherita Bergamo Meneghini, e la cura di Alessandro Arienzo, Stefania Mazzone e Viviana Vacca. Questo libro offre una riflessione a partire dalle ricerche sull’antropologia del corpo e delle emozioni. La conoscenza del corpo, essenziale per l’emancipazione, si basa su un dialogo tra il sapere riflessivo e la pratica delle arti corporee, in particolare quelle che coinvolgono il tatto. Inoltre, in contrasto con il nuovo culto dedicato al corpo da parte dei poteri del capitalismo, come rispondere alle necessità del corpo, senza rinchiudersi in un nuovo narcisismo? Qui pubblichiamo l’introduzione dei curatori, ringraziando gli autori e l’editore per la disponibilità.

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Quel che resta del corpo: un viaggio verso l’emancipazione

L’inedito e delicato periodo storico inaugurato dalla pandemia di Covid-19 muove le riflessioni di Fabienne Martin Juchat intorno al tema del corpo. L’esperienza drammatica del distanziamento fisico, la paura del contagio e del contatto ha ribadito l’urgenza di approfondire alcune delle principali questioni contemporanee relative al rapporto tra corpo, salute e malattia, al valore significativo dell’esperienza emozionale e all’impatto che sui corpi hanno le nuove tecnologie. Di fronte all’impasse della pandemia, a quali condizioni è ancora possibile un’emancipazione, soprattutto in riferimento alla nostra vita associata?

Quale ruolo materiale e storico ha il corpo, o meglio, hanno i corpi? Ricostruirne le premesse teoriche e metodologiche è, nelle intenzioni dell’autrice, necessario per far risaltare una condizione drammatica che la presenza del virus ha ribadito con radicalità. Benché le questioni che sono sollevate in questo volume vadano ben oltre le questioni poste dall’evento pandemico, perché pongono in questione la nostra relazione con la corporeità mettendo in risalto la necessità e l’urgenza di una vera e propria educazione al corpo nella pratica della corporeità. È certamente vero che la nostra vita forzatamente reclusa dai lockdown, e allo stesso tempo “protetta” dal confinamento, ha reso possibile per un brevissimo spazio di tempo un pensiero non più aggredito dalla velocità, dall’eccesso e dall’urgenza.

Eppure, ciò è avvenuto sul distanziamento dal corpo e dei corpi e in un apparente vuoto di tempo in cui la possibilità della riflessione pacata su noi stessi, sulle nostre scelte quotidiane, sul mondo che ci circonda era vincolato dall’angoscia del virus e delle sue ricadute. Non vi sono invece dubbi che la possibilità offertaci in maniera paradossale e drammatica di riscoprire un legame virtuoso tra “lentezza-protezione-cura” è naufragata sotto la ripresa della vita nel suo ordinario scorrere, sotto la rimozione della nostra crescente vulnerabilità: la mancanza, i limiti, la fragilità e l’incompiutezza dell’umano nella cosiddetta globalizzazione, nella ipermodernità.

Ma forse proprio questo rientro alla normalità, all’ordinaria relazione tra corpi, ci permette di comprendere come l’ibridazione crescente di momenti di vita centrati sulla fisicità e sulla digitalità non ha scavalcato, semmai reso ancora più fallace, la nostra relazione strumentale – di uso – col corpo. Per questo, a due anni dal Covid, interrogarsi sui corpi costituisce ancora la premessa teorica e metodologica necessaria per far emergere la drammaticità dell’esperienza fisica: l’esaltazione del nostro corpo, il corpo proprio irretito nella sofferenza dell’isolamento e costretto negli spazi angusti delle nostre case o nelle posture digitali, è legata all’assenza del corpo dell’altro. Fare i conti con la pandemia coincide con la consapevolezza che tale esperienza comporta l’attraversamento di una contraddizione: nonostante i progressi scientifici e il miglioramento dello stato della cura, il corpo isolato sperimenta la propria fragilità quando de-privato dalla prossimità con gli altri corpi. In tal modo, le analisi di Fabienne Martin Juchat incontrano la sensibilità critica di Jean-Luc Nancy. Anche per il filosofo francese, il corpo, quel corpo che anche io sono, nella sua irriducibile singolarità, cede il passo alla prima persona singolare, noi – quel corpo politico che tutti noi siamo1. Intercettare un margine non altrimenti de-costruibile che coincide con il corpo dell’altro e, dunque, con la morte dell’altro. La distanza tra corpi è, per il singolo corpo, distanza da sé stesso, dalla parte più vulnerabile e marginalizzata.

Si pone qui, con evidenza, il tema della presa medicale e medicalizzata sui corpi e il rapporto con la tecnica anche in riferimento a un corpo protesico, addizionato dalle tecnologie più avanzate e della somatocrazia2 riguardo la relazione tra medicina ed economia politica. La complessità delle trasformazioni sociali e politiche indotte dagli effetti della recente crisi sanitaria ripropone, dunque, una serie di interrogativi di stringente attualità rispetto ai processi di de-soggettivazione caratteristici del capitalismo avanzato. La lucidità concettuale con la quale l’autrice mette in dialogo la prospettiva di ricerca dell’antropologia della comunicazione e delle emozioni con numerosi riferimenti teorici e filosofici coinvolge il lettore con una scrittura nitida, capace di evidenziare il portato politico della riflessione sui corpi. È il corpo stesso, di cui Martin Juchat evidenzia la complessità, a tracciare narrazioni plurali con molteplici dimensioni quali quella della comunicazione, delle pratiche artistiche e sportive, della performatività e dell’identità. «Come possiamo oggi imparare questa libertà attraverso il corpo senza metterci in pericolo e valutando i rischi per gli altri? Quali strutture e pratiche conviene sviluppare per dare agli individui l’opportunità di accedere alla propria storia e alle proprie memorie attraverso questa avventura corporea e di poter scegliere il proprio destino?» (p. 8).

L’avventura del corpo, dei corpi, è, dunque, inseparabile da una considerazione degli interrogativi sugli effetti socio-politici che un mancato riconoscimento della sua complessità comporterebbe. Martin-Juchat si riferisce a un modello epistemologico in cui la centralità è assunta dalla relazione non nel senso del controllo (nel senso di una razionalità puramente strumentale che ha un dominio completo sulla natura) ma nel senso dell’interdipendenza: una relazione, in altri termini, che si identifica con la complessità del suo farsi, “corporea”, trasformativa dei reciproci rapporti in gioco. Riguardo al rapporto con le nuove tecnologie, il corpo sarebbe quel medium e, con Merleau-Ponty, corpo-che-percepisce, che viene in-formato dal rapporto tecnica-natura. Il progresso scientifico che consente di avere strumenti sempre più avanzati non permette di eludere le questioni relative all’uso il quale deve attraversare le nostre corporeità, abitarle e, dunque, strutturarsi in un sensibile in cui le relazioni si re-inscrivono secondo nuovi assetti. Intorno al rapporto corpo-strumento, ogni operazione in senso relazionale e che sia di tipo ecologico richiede che si stabilisca all’interno di un atteggiamento attivo nei confronti dell’oggetto, disponibile alla riconfigurazione continua attraverso la quale, anche nell’interazione con la macchina, il corpo si immerge e si perde nell’oggetto tecnico – nel senso di Simondon – con la finalità di lasciare libertà di espressione nel mondo e nella storia a mediazioni sempre aperte e con esiti non scontati. Il discorso critico ha nel corpo il proprio baricentro è, insieme, Leib e con Spinoza, conatus: il corpo ha una potenza, una capacità di divergere, di modificare schemi e procedure, comportamenti appresi e codificati. La dimensione inter-corporea e intersoggettiva, sulla scia della fenomenologia di autori quali Merleau-Ponty, è connaturata a quell’apparato costituito dalle resistenze del corpo, dagli attriti materiali che impediscono l’assolutizzazione dei limiti perseguiti da una tecnica onnipotente.

La stessa antropologia diventa, dunque, l’occasione per dialogare con la sfera della tecnicità originaria del vivente, anche nell’ottica di un indebolimento di posizioni antropocentriche. L’autonomia della tecnica è presunta e assumere, nel futuro più prossimo, la consapevolezza che tra corporeità e tecnicità possa stabilirsi una coappartenenza dinamica e instabile diventa il presupposto fondamentale per la costruzione di uno sguardo come singolarità ma soprattutto come essere in comune. Il corpo sembra, nonostante alcune esaltazioni o alcuni facili riduzionismi, marginalizzato in uno spazio minimo rispetto ad un contesto totalmente organizzato e amministrato.

Assumere la complessità e la radicalità dell’avventura dei corpi è, rispetto al processo di continuo apprendimento, assumere il rischio di attraversare le zone di ambiguità, le contraddizioni che uno spostamento di paradigma comporta. Porre in maniera diversa la questione dei rapporti tra tecnica e corpi, nonostante l’irreversibilità di processi ad essi collegati, significa riportare l’attenzione sul corpo come quel margine che fa cortocircuito nella relazione di embodiment della tecnica, quell’attrito che provoca un urto nel processo di incorporazione, una leva che agisce nei contesti di inefficacia, di insuccesso e di fragilità rispetto all’assimilazione di nuovi automatismi. Il nostro tempo, non più solo post-moderno, ma addirittura post-umano, sembra avere allora messo in forse la relazione stessa dell’uomo con gli altri uomini e col mondo. In un’epoca di progressiva congiunzione tra ciò che è naturale e ciò che è culturale, e di crescente indistinzione tra “natura” e “cultura”, resa possibile dall’incredibile salto storico prodotto dalle nuove tecnologie, l’accelerazione dei vissuti manda fuori asse il mondo (il tempo è fuor di sesto, appunto): la velocità e l’intensità del progresso tecnologico non si rispecchiano più negli sviluppi della cultura e delle istituzioni.

E nella rottura del nesso tra antichità e modernità, di confusione tra tempo storico, tempo naturale e nuovi tempi digitali, si afferma il primato dell’Io tecnologico e del suo corpo protesico: non più la storia, meno ancora la natura, ma la tecnica definirebbe oggi i limiti dell’orizzonte di possibilità entro il quale si muove il pensiero dell’umano.

La danza invisibile dei corpi: corpo vivente e corpo normato

«Veniamo al mondo con un corpo non scelto. Questo corpo, è necessario per tutti addomesticarlo, come un animale estraneo e selvaggio, e allo stesso tempo cercare di renderlo conforme alle aspettative culturali» (p. 11). È un corpo come carne3 che l’autrice definisce con riferimento a Merleau-Ponty e che richiama il corpus di Jean Luc Nancy, un corpo che non viene pensato a partire dalla trascendenza, ma piuttosto scritto in quanto contingenza della vita e della morte, del desiderio e dell’eros, della malattia e della sofferenza. Nella narrazione del trapianto di cuore che ha interessato il suo corpo, Nancy racconta l’esperienza di un dentro assoluto che si rovescia in un foro interno, il momento di collasso tra intimità ed estraneità che destabilizza il concetto stesso di prossimità con sé stessi (il corpo e il cuore non sono più i suoi, sono estranei)4. Nell’esperienza del trapianto e della malattia tumorale, il corpo non è un luogo originario ma l’assemblaggio di elementi eterogenei, non rinvia ad una totalità ma a parti, zone, frammenti.

Persa la sua unità, si pone nell’evidenza della sua materialità vulnerabile, una superficie costituita da zone di contatto e di tangenza con altri corpi. Il corpo, dunque, è quello che gli accade, che lo interessa e se non possiamo dire più cosa sia, il senso di tale esperienza ha sempre a che fare con una dimensione condivisa, comune. In questa ricerca di significato, l’esperienza corporea è il vettore di crisi di concetti quali identità o riconoscimento, nell’evidenza delle contraddizioni che sono assunte. Il cogito cartesiano, l’ego sum si rovescia in quel corpo che anche io sono, spazi che possono ritrovare solo al bordo, al margine segnato da un altro corpo. Se pensiamo alle modalità con le quali i nostri corpi sono tracciati – tatuaggi, iscrizioni, segni che sono altrettante registrazioni nel diagramma degli incontri – riusciamo a comprendere la storicità delle nostre corporeità. Per ribadire la complessità che il corpo reca con sé, Martin-Juchat si riferisce ai due concetti di corpo normato – relativamente al sistema di rappresentazioni e di aspettative simboliche e sociali alle quali il corpo è sottoposto – e a quello di corpo vivente, secondo l’espressione di Bernard Andrieu.

Il corpo vivente, la carne pulsante fa riferimento a quell’insieme di movimenti, di tensioni che sfuggono alla coscienza mentale e simbolica. L’esperienza conflittuale tra la ricchezza ambigua di questi movimenti e il sistema di norme e divieti volti a ridurli, controllarli, nasconderli costituisce l’ossatura centrale delle riflessioni dell’autrice. Se vogliamo emanciparci e riscrivere il corpo come spazio di confronto tra patrimonio fenotipico ed esperienza personale, intima, è necessario promuovere processi di educazione e consapevolezza. Apprendere a comunicare con il proprio corpo promuove la comunicazione inter-corporea: se io sento, ho consapevolezza del mio corpo sento anche il corpo degli altri e sento come i corpi comunicano tra loro.

Attraverso la costruzione di un utile glossario finale, l’autrice riflette sull’inadeguatezza della letteratura sulla comunicazione non verbale e la sostituisce con il concetto di comunicazione inter-corporea, comunicazione che non è visibile ma che deve essere ascoltata.

La comunicazione intercorporea (tra corpi viventi umani o non umani) e quella intracorporea (con l’interno del nostro corpo) non vengono insegnate, mentre la comunicazione attraverso norme, linguaggi non verbali, convenzioni e codici – in altre parole, la comunicazione non verbale – è quella principalmente controllata (pp. 13-14).

Le modalità di comunicazioni tra corpi viventi- umani e non- sono ricchissime come dimostrano gli studi di etologia e che il qualificatore non verbale così come è stato inteso non fa che ridurre alla prossemica, alle espressioni facciali, alla sola parte visibile, cioè quella codificata. L’autrice rimanda alla dimensione di genere: gli standard sono validi per entrambi i sessi fluttuazione intergender. Nelle nostre società, il corpo muscolare è teso tra determinazioni differenti: muscolare, intensivo, tracciato tra determinazione e umiltà, gentilezza e arroganza.

Tali ingiunzioni ci fanno allo stesso tempo percepire le ambiguità connesse a tali determinazioni. Innanzitutto, perché esse pongono in questione l’esistenza stessa di un vero sé che, ancora oggi, si tende a cercare nel corpo o a partire dal corpo: le istanze radicali poste dai movimenti queer e transgender mettono proprio in risalto la ricerca di un Io e di un Noi a partire dal rapporto col proprio corpo: “Io sono il mio corpo” si potrebbe dire, se non forse che questo corpo in cui si cerca un proprio Io è un corpo insieme scoperto e prodotto, praticato e sperimentato.

Allo stesso modo, la centralità delle pratiche sportive nelle nostre società lascia emergere tutta la problematicità, ma anche le opportunità, connesse alla socializzazione nello sport, al buon uso del tempo libero, all’iterazione tra corpi. Quindi tatticità e libertà, emanciparsi dalla conformità e “sperimentarsi felici”. Pure, questa centralità rappresenta anche quella pre-potenza erogatoria e consumistica che il sistema capitalistico attribuisce ai corpi vincenti. Si apre comunque uno scenario in cui il corpo vivente in quanto corpo dei mammiferi rinvia ad un territorio sconosciuto di emozioni, di palpitazioni affettive percepite dai corpi nella duplicità delle dimensioni intra-corporali e inter-corporali che richiede conoscenza e educazione. La tradizione filosofica della fenomenologia è recuperata nel testo della Martin- Juchat in dialogo con alcune linee del post-strutturalismo.

Il corpo come ciò che io sono non il corpo oggetto, il corpo che io ho. Sulla scorta della lettura spinoziana di Deleuze, il mio corpo si apre ad un’esperienza impersonale, tra la prima e la terza persona singolare, traccia di un’esperienza di esplorazione completamente non traducibile. La prossimità intra-corporale tra corpi viventi è da leggere secondo questa lente, come tentativo di non voler sostituire il codice al fisiologico, il vivente al simbolico. La capacità di attenzione, di avere esperienza dei propri stati corporali fa parte dell’intelligenza corporale. Sentire è riflettere, informare: attingere a sé stessi porta in sé con un sapere non discorsivo, non mediato ma, in virtù di tale matrice, non meno significativo.

L’intelligenza corporale a cui l’autrice fa riferimento è un campo ancora poco esplorato e indagato. La ricettività è potenzialità di dare una voce a tale dimensione, non è oscura; il sentire non è da declinare in maniera dialettica. Modalità comunicative: la proiezione affettiva (utilizzo emozionale tramite il contatto con l ‘altro, riversiamo emozioni sull’altro) deve essere accompagnata dall’empatia, quel sentire l’altro attraverso le emozioni. L’elemento importante che l’autrice ravvisa è quello dell’educazione somatica per i più giovani la cui urgenza è ribadita. Pensare il corpo è pensare i corpi mediati dalle tecnologie e dagli strumenti digitali, non riducendolo ad un’unica dimensione materiale ma nel riferimento alla pluralità delle sue dimensioni integrate. Apprenderci e educarci al governo dei corpi per emanciparsi dalle forme più rigide di governo dei nostri corpi.

Le analisi dell’autrice si inseriscono in maniera originale nel dibattito contemporaneo intorno al corpo e alle sue rappresentazioni culturali, simboliche e sociali. Martin-Juchat coglie le soglie di ambiguità relative alle differenze tra monismo e dualismo, rilevate da studiosi quali David Le Breton5. I rischi che si corrono nell’assumere in maniera riduzionistica entrambe le posizioni sono evidenti nell’esperienza della malattia: l’affezione, ciò che interessa e informa il corpo non è semplicemente un avvenimento biologico, ma un’esperienza emotiva, un interrogativo e una ricerca di senso. Rispetto alla concezione classica ed analogica del corpo come spazio di appartenenza e comunione, con la modernità il corpo è vettore di individuazione e separazione, segno inerte e meccanico, residuo della res cogitans. Con l’affermazione del metodo sperimentale, il corpo viene de-sacralizzato secondo un duplice senso: da un lato, si emancipa dalla visione cristiana e relativa alla religione istituzionalizzata ma è de-sacralizzato con il rinvio alla radice etimologica del termine sacro, che rimanda al segreto. Sacro, segreto è ciò che rimane inaccessibile alla conoscenza scientifica. Si afferma un’immagine laica e scientifica del corpo, come testimonia il trattato di Vesalio De Humani Corporis Fabrica: parzialmente caduta l’interdizione cattolica della dissezione dei cadaveri, i corpi rappresentati nelle tavole anatomiche diventano pubblici, il segreto si espone allo sguardo dei medici.

Uno sguardo politico

Lo sguardo sul proprio e sugli altri corpi fa parte di una storia non soltanto ottica e visuale ma cognitiva, psichica, politica. Lo sguardo del e sul corpo è agito, esperito anche da altri sensi e, nel XX secolo, le potenzialità e il potere dello sguardo intorno e sui corpi diventano sempre più tecniche. Lo sguardo tecnologico è quello della biomedicina e delle sue scoperte, sul finire del XIX secolo con l’introduzione dei raggi X. Dalle tavole di Vesalio, rappresentazioni a due dimensioni di cadaveri, di corpi morti, passando attraverso le radiografie, rappresentazioni a due dimensioni di corpi (anche) vivi, per arrivare ai nostri giorni all’imaging a risonanza magnetica, rappresentazioni a tre dimensioni di corpi ben vivi e attivi, le straordinarie e impensabili trasformazioni tecnologiche dello sguardo dentro i corpi hanno trasformato radicalmente anche il modo di guardare i corpi. Il mutamento delle forme e degli strumenti della comunicazione trasforma le forme della conoscenza: allo stesso modo, il mutamento dello sguardo trasforma ciò che si guarda.

Il XX secolo è il (primo) secolo della centralità sociale, culturale, psicologica, mediatica del corpo perché il XX secolo è anche il (primo) secolo di questa radicale trasformazione dello sguardo verso il corpo: per questo è stato anche definito come il secolo in cui nasce e si diffonde la pulsione scopica. L’esperienza del corpo diviene la questione della sua rappresentazione secondo una prospettiva razionale e utilitaristica. Il corpo, sulla scorta del passaggio dalla scienza contemplativa alla scienza activa rischia di diventare un accessorio inessenziale, separato dalla sfera razionale. Il paradigma conoscitivo di tipo cartesiano che, solo, può consentire di accedere ad un concetto di verità come evidenza viene spogliato, de-privato delle tracce corporee ed immaginative. In altri termini, è il mondo ad essere costruito a partire dalle categorie concettuali della filosofia meccanicistica in netta separazione da quello abitato e accessibile attraverso l’esperienza dei sensi. Il corpo, dunque, una macchina meravigliosa ma fragile come dimostrano i progressi tecnici di bioingegneria applicati che non cessano di progettare impianti, protesi, trapianti.

Si pone, dunque, l’esigenza di rintracciare vie di riflessione teorica che forniscano possibilità generative di trasformazione politica intorno al rapporto tra corpo, malattia e salute. Nel dibattito contemporaneo, infatti, si pone l’urgenza di sottolineare i limiti dell’approccio epistemologico della scienza medica che vede nel corpo esclusivamente il luogo, il ricettacolo della malattia, trascurando di considerare la complessità dell’esperienza di sofferenza umana. Tessere i legami tra i corpi e la storia personale del paziente, tra quello che Arthur Kleinmann6 ha definito l’illness – la malattia intesa come aggressione fisica, come danno subito dal corpo – e il disease – l’esperienza soggettiva fa parte del processo di liberazione del corpo.

Si pone la questione relativa al rapporto tra medicina e corpo nel senso dei tentativi – caratteristici delle medicine popolari o di quelle orientali – di riconnessione all’esperienza soggettiva. La salute diviene, se non l’occultamento del corpo, la possibilità di distrarsene. La principale consapevolezza del corpo deriva quindi dalla malattia. Quello che manca è perciò un sano sentimento della propria incarnazione in un corpo. Le attività possibili del corpo, quelle attraverso cui il soggetto costruisce la vivacità della sua relazione con il mondo, con cui prende coscienza della qualità di ciò che l’attornia e che strutturano la sua identità personale, tendono ad atrofizzarsi. In linea con diverse tendenze dell’antropologia contemporanea, la riduzione contemporanea del continente del corpo, secondo l’espressione che Le Breton mutua da Paul Virilio, fa sì che proliferino discorsi sul corpo e su pratiche compensatorie che spesso coincidono che la centralità del corpo è spesso fittizia.

Martin-Juchat condivide i rischi di ripiegamenti narcisistici che spesso sono sottesi ad un’esaltazione del corpo funzionale ai tempi e alle modalità dell’efficienza e della produttività capitalistiche. Il rischio è che questo ludico culto del corpo sia una maschera, una dittatura dell’apparenza dietro cui rimane il dolore del corpo che vuole radicalmente manifestarsi, come cerca di fare nell’autolesionismo, nell’accreditarsi la sofferenza del proprio corpo. Il corpo diviene un segno della lotta per il riconoscimento. Si cercano segni corporei tangibili, per sfuggire all’incertezza. I processi di liberazione del corpo coincidono con quella ribellione della carne a cui Martin-Juchat fa riferimento e non coincidono con l’elogio del corpo sano, scolpito, igienico la cui portata mediatica fa parte delle cosiddette astuzie della modernità. L’ambiguità del cliché della liberazione del corpo si rivela nel confronto con le persone che a vario titolo hanno impresso nel corpo il loro handicap. Anziani, malati, pazzi creano allora imbarazzo e disagio oppure sono percepiti attraverso il prisma deformante del paradigma della compassione o della marginalizzazione.

La visibilità del corpo disabile – Martin Juchat fa riferimento all’esperienza del filosofo Francois Joillen – con i suoi gesti e la sua mimica è, dal punto di vista sociale, un attrattore di sguardi e commenti che coincidono con lo stigma. Da matrice identitaria che nelle sue alterazioni rispetto alla norma – secondo le classiche riflessioni di Goffman – diventa esperienza di estraneità che non può specchiarsi nel corpo dell’altro come corponormato, il corpo nella malattia e con disabilità può diventare quell’operatore politico di discorsi e di emozioni necessarie alla sua liberazione. Liberazione che passa per l’integrazione e la comprensione della sua sofferenza.

Note

Note
1J. L. Nancy, Corpus, a cura di A. Moscati, Cronopio, 2004.
2Nell’ambito degli studi intorno alla biopolitica, Foucault definisce con l’espressione somatocrazia moderna l’idea di un regime nel quale l’intervento statale è finalizzato alla gestione della cura del corpo e ai rapporti tra salute e medicina. Cfr M. Foucault, Medicina e biopolitica. La salute pubblica e il controllo sociale, a cura di P. Napoli, Donzelli, 2021.
3F. Martin Juchat, Les corps et les Mèdias: la chair éprouvée par les médias et les espaces sociaux, De Boeck, 2008.
4J. L. Nancy, L’intruso, a cura di V. Piazza, Cronopio, 2005.
5D. Le Breton, Antropologia del corpo e della modernità, Meltemi, 2021; Id., Esperienze del dolore. Fra distruzione e rinascita, Raffaello Cortina Editore, 2014.
6Cfr A. Kleinman, The Illness Narratives: Suffering, Healing, and theHuman Condition, Basic Books, 1988. Il paradigma fenomenologico- ermeneutico elaborato da Kleinmann e da Byron J. Good è alla base della narrative based medicine che, secondo un’ottica integrata, utilizza l’approccio narrativo nella relazione terapeutica con il paziente. Cfr B.J. Good, Medicine, Rationality and Experience: An Anthropological Perspective, Cambridge University Press, 1994; R. Charon, Narrative Medicine. Honoring the Stories of Illness, Oxford University Press, 2008.

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