Una più fluida umanità

Dialogo con Cristina Kristal Rizzo sulla danza e l'emancipazione dei corpi

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Cristina Kristal Rizzo, Prélude, Santarcangelo, 2016, credits fotografici: Ilaria Scarpa

Partiamo dalla fine. Il tuo ultimo lavoro coreografico VN Serenade, che ho avuto la fortuna di vedere al Teatro Argentina a Roma, racchiude in sé molti spunti che mi piacerebbe condividere con te che vanno dall’estetica, alla politica, alla danza pura, alla scrittura coreografica, meglio alle scritture. Mi sembra si fondi su alcuni punti essenziali e imprescindibili: la musica, Balanchine, la rivoluzione, il presente come rivelazione, la coreografia. Se così cosa ti ha spinto in questo tipo di ricerca?

Questa questione della «fine» è credo un nodo importante per addentrarsi nei processi creativi di un artista, poiché una ricerca non ha mai veramente fine. Non esiste dunque nel mio modo di procedere un’ultima opera coreografica, ma esiste un’opera che è fatta di linee di pensiero e di divenire del corpo che sta nel tempo e nel tempo si trasforma generando dei concetti, delle nuove visioni, degli eventi in cui la vita si mostra in un luogo che non è reale, ma proprio per questo estremamente intenso.

Si tratta ogni volta di tracciare una scrittura, inscrivere il corpo senza pre-figurarlo, resistere al presente, tracciare una linea in mezzo all’impossibilità e credere alla sua potenza 

Si tratta ogni volta di tracciare una scrittura, inscrivere il corpo senza pre-figurarlo, resistere al presente, tracciare una linea in mezzo all’impossibilità e credere alla sua potenza, lasciarsi attraversare dalle immagini senza conoscerle o riconoscerle eppure assaporarne la sostanza e dare forma alle sensazioni. Diventare sensibili. VN Serenade da Verklärte Nacht (Notte trasfigurata) di Arnold Schönberg e Serenata in do maggiore per archi op. 48 di Pëtr Il’ic Cajkovskij è un’opera coreografica frutto di un sostegno produttivo, quasi una commissione, del LAC di Lugano, grossa istituzione in Svizzera che mi ha dato la possibilità di misurarmi con un formato grande, intendo dire di pensare una danza per un grande palco e un pubblico molto ampio e di poter lavorare con l’Orchestra Svizzera Italiana che al debutto nel novembre 2017 ha eseguito la musica dal vivo. Questa scala di grandezze così ampia, piuttosto che portarmi a chiudere il campo di ricerca per assecondare una visione d’intrattenimento, mi ha stimolato fortemente a mettere in gioco l’idea stessa di danza come rivelazione di un presente che attende ancora di essere realizzato e questo riattraversando delle opere che il passato mette a disposizione, la partitura di Schönberg e la nota coreografia di George Balanchine. L’adesione a questa idea che una differente esperienza del presente possa essere possibile ha stabilito l’incedere dinamico, incalzante, rigoroso e divertito ad assumermi nuovamente la pura bellezza del gesto coreografico e a portarlo nei codici di un movimento contemporaneo. Si è trattato dunque di far emergere la danza come un concetto pieno di forza critica, di politica e di libertà.

Le piante da sempre ci insegnano come condividere uno spazio e coabitare nella diversità. Il New York City Ballet con Balanchine diventa il gioiello della cultura della danza americana dimostrando come un’istituzione all’avanguardia possa convivere senza conflittualità con l’innesto di nuovi linguaggi. La condivisione è dunque possibile? Come si fanno coesistere 11 danzatori ciascuno con la sua diversità in un ensemble?

Danzare è un’azione che emancipa il corpo, liberandolo dalla dittatura della libera espressione, rivelando la materia e la sua trasformazione come soglia o passaggio tra il visibile e l’invisibile 

La parola ensemble è quella che meglio esprime per me un’idea di comunità, nel senso proprio di messa in comune dell’esperienza, ed è una modalità che ho attivato in tutti i miei ultimi lavori con determinazione etica, come messa in atto di una molteplicità in cui è la singolarità a emergere e a comporre la potenza dell’immagine fuori dalle gerarchie del potere. Questo movimento del pensiero chiede una forte adesione agli interpreti, poiché non riguarda solo la sfera estetica ma è anche e soprattutto una messa in gioco dei rapporti propri con l’esistenza tutta, con l’idea che una postura del corpo possa essere una forma politica dell’esistente. È dunque sempre molto delicato e prezioso per me il momento in cui si attiva un processo di creazione con altri corpi, si tratta di attraversare e coabitare luoghi sconosciuti, abitare spazi in cui guardarsi senza giudizio o senza narrazione e questi luoghi che mi piace chiamare «del tempo insieme» allenano sempre anche la psiche e l’anima. Danzare è un’azione che emancipa il corpo, liberandolo dalla dittatura della libera espressione, rivelando la materia e la sua trasformazione come soglia o passaggio tra il visibile e l’invisibile. Tutto questo non deve essere frainteso poiché non si tratta mai di aderire al flusso di un presente continuo o a una libera improvvisazione permanente, ma di dare ogni volta il corpo a una tecnologia muscolare, a una specificità articolare, a un dettaglio che riveli in una forma condivisa la differenza, proprio per potenziare l’autonomia espressiva in cui ogni singolarità possa esistere.

Cristina Kristal Rizzo, VN Serenade, LAC Lugano, 2017, credits fotografici: Luca Del Pia

Alla Galleria Nazionale per il mondo infine il 23 gennaio ti esibirai nella versione Solo di VN, perché l’esigenza di questo nuovo formato? Come cambia il lavoro di coreografia su te stessa e per altri?

Mi piace considerare tutto questo come una sorta di habitat, un luogo ideale e cristallino che permette ai corpi di stare insieme nella complessità senza sforzo 

VN versione in solo è come una costola che si stacca dalla versione corale, non è dunque un nuovo formato ma la possibilità di mettere a nudo un processo generativo, Verlakt Nacht nella versione del 1943 per orchestra d’archi è l’incipit per articolare una danza viscerale, in cui è l’istinto del corpo nell’ascolto musicale a prevalere sul racconto, a disegnare l’immagine dinamica. Il mio lavoro si sviluppa e si trasmette solo ed esclusivamente attraverso l’invenzione di pratiche che sono private, intime e misteriose, ciò a cui tendo è la possibilità di far emergere «la danza» attraverso un pensiero che ne determini la forma, una condizione del corpo e della mente che la faccia apparire. In questa fase in cui l’esperienza che ho accumulato lavora senza che me ne accorga, sento possibile trovare un punto d’incontro in cui il corpo pensa mentre la mente danza e viceversa, cerco così ogni volta di trovare un luogo per questo fenomeno sprovvisto d’intenzione: il luogo dell’apparizione, che è la danza, che è la coreografia, che è un pensiero vivo. Si tratta sempre di sviluppare una tecnologia molto specifica, di trovare un tracciato epidermico che generi degli stati mentali, una qualità di sguardo, una conduzione energetica verso l’esterno, un andamento ritmico, dinamico, emotivo e psichico. Ultimamente mi piace considerare tutto questo come una sorta di habitat, un luogo ideale e cristallino che permette ai corpi di stare insieme nella complessità senza sforzo. Questa traccia di pensiero ha informato tutta la creazione di VN ed è quella che mi sto portando in sala prove in questa rinnovata fase in solitudine, è molto interessante ritornare a lavorarci adesso, è come se tutti e 10 gli altri interpreti della versione corale fossero presenti con me, è come se il mio ascolto fosse molto più sottile ma anche più aperto alle molteplici visioni. Torna comunque sempre un’idea di moltitudine anche se in questa fase sono i miei fantasmi a riemergere!

Nel 2017 per Sensibile Comune: le opere vive – mostra ospitata anch’essa dalla Galleria Nazionale – hai presentato Ikea. C’è un film di Werner Herzog Paese del silenzio e dell’oscurità che lui stesso definì una monografia sulle mani di una sordo-cieca che me lo fa ricordare. Come a dire che le cose che vediamo forse ci apparirebbero diverse se le potessimo anche toccare. Ecco, io credo che la danza lasci apparire, scrivendolo col corpo, ciò che è impalpabile. È così?

Credo che la danza apra al corpo, sia di chi la fa che di chi la guarda, la possibilità di sentire senza volere, di condividere un tempo in cui tutto accade senza mai compiersi per esaurirsi, di aderire alla matematica invisibile degli stati d’animo 

Ikea è una durational performance a cui sono molto legata proprio perché i processi per metterla in atto sono stati una vera e propria esperienza sensoriale: si è trattato infatti di lavorare per un periodo molto lungo con una mascherina sugli occhi, esattamente come quelle per dormire, così da sperimentare un altro tipo di corpo, un corpo che non vede l’immagine di sé e che quindi non proietta ma si spinge, come in un’avventura, nella potenza al volere al di là del vedere. Ho condiviso questo processo con Annamaria Ajmone che in alcune occasioni si è esposta al mio posto o a condiviso lo spazio della performance con me, sempre in situazioni site-specific e cioè in spazi ogni volta diversi (gallerie, musei ma anche spazi pubblici e all’aperto ) e credo che per entrambe questo sia stato un momento decisivo di scoperta e di definitivo abbandono, perché fuori dalla metafisica della presenza. Muoversi e addirittura danzare in uno spazio senza vedersi e senza vedere chi hai davanti e ti sta guardando è un vero e proprio atto politico di rinuncia alla riproduzione di un immagine di sé a favore dell’evento, «di ciò che viene senza essere visto», come ha scritto sul lavoro Stefano Tomassini nel bellissimo libro Tempo Fermo Danza e Performance alla prova dell’impossibile, e ancora: «all’impossibilità di compiere e rivendicare un “io” quando si scivola nell’altro che precede senza alcun orizzonte». Credo che la danza apra al corpo, sia di chi la fa che di chi la guarda, la possibilità di sentire senza volere, di condividere un tempo in cui tutto accade senza mai compiersi per esaurirsi, di aderire alla matematica invisibile degli stati d’animo, ai flussi di un’energia in constante trasformazione e credo che questo bilico in cui ogni corpo si trova quando la danza si produce vada lasciato sempre e solo allo sguardo dell’altro.

Parafrasando Spinoza/Deleuze, cosa può la danza?

La danza è un atto impersonale che ci libera dalla dittatura dell’io, del corpo organizzato ed efficiente 

Spesso metto in relazione la pratica della meditazione con la pratica della danza. Meditando si pratica la possibilità della mente di stare nel presente, di sentire il sottile e di fare esperienza della trasformazione di tutto nel tutto. Meditare non ci distacca dal reale o ci trascende, è un esercizio per praticare l’uguaglianza e io credo fermamente che la danza sia altrettanto capace di rivelarci il potenziale politico dei nostri corpi. La danza è un atto impersonale che ci libera dalla dittatura dell’io, del corpo organizzato ed efficiente. Dunque è prima di tutto una fuoriuscita energetica che appartiene a tutti. Quando incontra la tecnologia del corpo, la danza ha la capacità di far emergere intensità o immagini fuori dal senso. Come la meditazione allena al lasciare andare, al non trattenere, a una presa diversa sulle cose del mondo, a considerarsi cosa tra le cose e dunque in questo senso allena a un’altra idea di economia, che potremmo anche chiamare come un’ecologia dell’esperienza. C’è una politica del comune ancora tutta da scoprire, una politica della liberazione che sperimenti, con gioiosa capacità di costruzione collettiva la resistenza all’assoggettamento e credo che un flusso collettivo non può che avere espressioni impersonali poiché il gesto segue la traccia del comune. Spinoza dice che ognuno di noi possiede un determinato potere di essere affetto, di essere toccato, al di la del genere o della specie, quello che conta dunque è di che cosa è capace un corpo nella sua singolarità, nella sua maniera di essere e nel realizzare infinite composizioni. Cosa può un corpo? Cosa può la danza? non lo sapremo mai in anticipo, non sapremo mai come un corpo si organizzerà, cosa può in virtù della sua potenza, che è dunque sempre etica e non morale.

Cristina Kristal Rizzo, VN Serenade, LAC Lugano, 2017, credits fotografici: Luca Del Pia

In un mondo in cui la tecnologia permea ogni istanza del reale, mi sembra tu decida di scarnificare sempre di più ogni orpello o protesi riducendo all’essenzialità il tuo lavoro, cosa ti interessa in questo momento?

Forse sto cercando la natura dell’evento, per questo lascio apparire le danze come un’attività giocosa, dove la maestria non è semplicemente un’abilità fisica ma è anche una grazia, una potenza, un luogo per attivare una dinamica micropolitica. Il mio ultimo lavoro ULTRAS sleeping dances è un percorso che oltrepassa l’idea di site-specific e segue il principio secondo il quale la danza accoglie lo spazio che attraversa e viceversa lo spazio si lascia abitare dall’attraversamento di una danza. ULTRAS è un luogo dove succede la vita e quello che la vita stessa contiene: il pianto, come il riso, il gioco come la tragedia. Attuarsi in uno spazio considerandolo come un vuoto in cui tutto si rende presente attraverso una reciproca compenetrazione tra le cose, in cui lo sguardo è una sottile membrana che traccia un passaggio tra l’intimo e l’ultra: tutto questo è ULTRAS. Un luogo dove le forze si liberano, si aprono i meccanismi delle relazioni, le possibilità del corpo oltre la soglia di un reale, un luogo dove i legami tra chi lo abita sono insieme intensi e delicati, necessari e superflui, siamo dentro l’esistenza e dentro questa parabola di vita incontriamo le cose, le persone e i fantasmi che dentro questi vivono traendone energia. La coda nel titolo «sleeping dances» vuole semplicemente indicare questa possibilità data a tutti di incantarsi sulla soglia tra un dentro e un fuori, allentare lo sguardo, contemplare il primo piano di un volto, il dettaglio di una lacrima, l’artificio di un corpo, la figura particolare delle cose ed abitare le sensazioni. ULTRAS è il prolungamento di un corpo collettivo che ricorda, che anela alla vita, che si richiude dentro il dolore e lo tira fuori in forma di potenza.

In un altro tuo lavoro – BoleroEffect – indaghi il loop, la ripetizione, la trance. Quello dell’ossessività è un tema molto caro alla letteratura, la ricerca si spinge fino all’ossessione o è il superamento di un limite la pratica che permette l’accesso all’invisibile?

BoleroEffect è un lavoro del 2014 che ha letteralmente aperto le mie ricerche all’incontro con l’altro. Infatti è stato il primo progetto in cui ho coinvolto altri corpi, la danzatrice e coreografa Annamaria Ajmone e l’artista visivo Simone Bertuzzi nella veste di Palm Wine.

E il corpo può prepararsi a una trasformazione, attivare un lume interno, qualcosa di simile a un fuoco luminoso, procedere per rapide dissolvenze, fosforescenze e pulviscoli, spostare il paradigma esistenziale dal dominio rinunciando a tutte le proprie abitudini mentali 

Questa felicissima collaborazione ha generato un tracciato, un oggetto coreografico che si sviluppa attorno all’assunto esplicito che il Bolero di Maurice Ravel è la partitura orchestrale più popolare esistente al mondo, una musica che tutti conoscono e riconoscono. Il Bolero fu scritto nel 1928, quando Ravel aveva 53 anni e soffriva dei primi sintomi di FTD (demenza fronto-temporale). Come un «esercizio da comportamento compulsivo», Ravel costruisce l’intera composizione su una singola melodia divisa in due frasi, che si ripete nove volte, trascinandoci senza particolari allusioni, senza nostalgia, in uno stato di esaltazione inibita, in un felice coinvolgimento collettivo. Dato questo punto di partenza è stato possibile verificare una condizione del corpo in «apertura massima», forzare la traiettoria sinuosamente accattivante di una massa eccitata. Sul piano musicale il progetto si è articolato intorno alla ricerca sonora di Palm Wine di sonorità border-crossing, di ritmiche da ballo pensate come una corsa in avanti a partire dal Bolero di Ravel, costruite su flussi decrescenti e dilatazioni come in una sorta di dance hall post-globale. BoleroEffect tenta di attivare un luogo utopico di coabitazione della scena in cui figura e sfondo si sfaldano ed il corpo può prepararsi a una trasformazione, attivare un lume interno, qualcosa di simile a un fuoco luminoso, procedere per rapide dissolvenze, fosforescenze e pulviscoli, spostare il paradigma esistenziale dal dominio rinunciando a tutte le proprie abitudini mentali. Ma che cosa è effettivamente un Bolero? È come un’isola deserta, un luogo dove ricominciare, al di là dei contenuti, un tracciato sonoro in cui praticare delle turbolenze corporee e un’erotica del corpo che rompano la compostezza per spingersi verso altre dimensioni, è per me un luogo dalle molte risonanze esistenziali.

Lo spettatore con una sorta di disponibilità alla trance, non ha un ruolo passivo ma entra a fare parte della performance. (Che orrore questo termine)! Come ci si riesce?

L’intuizione primaria è stata quella di moltiplicare l’energia corporea nell’adesione al ritmo in un doppio, in due corpi che si muovono sempre l’uno accanto all’altro come incatenati, senza mai abbandonare un’intesa intima e condivisa di adesione alla gioia dell’esserci nella differenza. C’è un continuo muoversi insieme ma nessuna dominanza sulla scena, c’è un’intesa fatta di sguardi e di puri richiami coreografici. Senza tregua, i due corpi volutamente diversi per fisicità e indole, si fanno trascinare dal ritmo, inanellando movimenti sinuosi, cavalcando lo spazio con una coreografia aperta ma cesellata da movimenti circolari di braccia, mezza punta, rotazioni e basculamenti, moltiplicando il gesto dinamico nel dissimile. Questa verticalità esasperata a due si dispiega in una pressante voglia di esserci e di possedere lo spazio nella sua totalità, nell’hic et nunc di una possibile polarizzazione tra anime che sono una vicina all’ altra. Sembra di essere di fronte a un disegno dello spazio che svanisce nello stesso istante in cui si crea, in una circolarità di forme e gestualità che potrebbe proseguire all’infinito. L’effetto del Bolero è una liberazione condivisa, una diffusione emozionale che si sprigiona dai corpi e che produce onde concentriche di contagio verso il pubblico e in tutto lo spazio. Il ritmo della musica diventa concretezza nei corpi ed è contagioso per la sensazione di libertà che diffonde e per la possibilità di farlo pienamente tuo. Il disegno luci curato in collaborazione con Giulia Pastore, inserisce i corpi in una dimensione non solo fisica ma anche mentale ed amplifica così la possibilità data a tutti di sentirsi coinvolti con il proprio corpo, in una visione che si trasforma in una vera e propria adesione cinetica.

Cristina Kristal Rizzo, VN Serenade, prove, Castiglioncello 2017, credits fotografici: Luca Del Pia

Hai la capacità – e mi sembra tu la ricerchi anche – di entrare empaticamente in risonanza con chi assiste come ci fosse uno scambio di molecole, dei fili energetici che collegano i corpi. Il potere della comunione. Solo se si è disposti a perdere una parte di sé, a rendere la pelle permeabile. Come se creassi un’atmosfera condivisibile, è così?

Non porre se stessi al centro di un’opera, l’opera di una vita, ma dare luogo nel corpo a un vuoto colmo di presenza, di gioia leggera per tocchi che non hanno presa, che non vogliono possedere 

Attraversare e farsi attraversare dalle tracce del tempo è un’attitudine o meglio una postura che produce una forma di grazia, di potenza lieve ma esatta dello stare dentro il mondo, non porre se stessi al centro di un’opera, l’opera di una vita, ma dare luogo nel corpo a un vuoto colmo di presenza, di gioia leggera per tocchi che non hanno presa, che non vogliono possedere. Toccare e farsi toccare è conoscenza e gioco di trasformazione reciproca, è un vedere senza guardare. Tutto il mio lavoro è attraversato da questo tema o ritornello che si è espresso attraverso varie danze e da formati diversi tra cui il progetto di pratica e teoria «Loveeee», sviluppato con Lucia Amara, di cui questo è un estratto dalla pubblicazione dell’e-book: «La grazia non è un tema. Perché non è il luogo dell’eterno, di ciò che fissa, conficca, pianta definitivamente. È un luogo di incontro, sì, ma non perenne e duraturo. O piuttosto è un punto che somiglia al “sentirsi esistere” del gatto Murr. Pertiene e convoca un regime epidermico. Le sono più consoni il toccare e il cenno. Tutto ciò che ha a che vedere con avvicinamento, appressamento e riduzione della distanza. Gesti. Lievi movimenti. Riconoscimenti fulminei, a volte. Dichiarazioni d’amore che non producono alcuna richiesta di eternità. Sì, la grazia non produce eternità, solo luoghi d’appuntamento, intensi e lancinanti. Ma tempestivi. Si dice éclat in francese. Frantumi che esplodono separandosi definitivamente o schegge luminose che si spengono lentamente? Non c’è una sola traduzione» (Lucia Amara).

In tempi di mobilitazioni femminili planetarie e in un mondo sotto i riflettori, la denuncia nei confronti di Jan Fabre è passata pressoché sottotono. Come ti spieghi quanto accaduto?

Forse il sistema teatrale non si rende ancora conto di essere completamente irrilevante, ciò che siamo e che facciamo riguarda davvero una piccolissima parte della sfera pubblica ormai. Quindi per quanto mi riguarda non ho sicuramente pensato che la denuncia nei confronti di Jan Fabre potesse avere qualche seria capacità trasformativa in termini ampi, sociali e politici. Sicuramente però mi aspettavo da parte di tutto il sistema teatrale italiano una consapevolezza ma direi una certa eleganza e intelligenza a comprendere che i tempi in cui continuare a fare cose indicibili come «se niente fosse accaduto» sono finiti, intendo dire che in un sistema sempre più alle strette economicamente e culturalmente non è più possibile operare con le stesse dinamiche di potere di sempre, non solo non è più accettabile ma non è più fruttuoso neanche in termini di marketing, mette in evidenza solamente una certa ottusità del sistema anzi una chiara necessità a non voler cambiare niente. Questo è il momento migliore per mettere le nostre idee e la nostra sensibilità a servizio di una dinamica comune di smantellamento di qualsiasi gerarchia che impedisca una circolazione equa delle risorse, soprattutto le risorse economiche che per quanto mi riguarda non possono essere dissociate da un’etica che comprende il modo in cui produciamo, il modo con cui lavoriamo con i nostri collaboratori, le scelte artistiche che vogliamo sostenere, così come il pensiero sensibile e le immagini che immettiamo nel mondo.

È ancora difficile in un mondo prevalentemente femminile quello della danza ma che da parecchio tempo vede l’accesso a molti ragazzi, essere una femmina? Il filosofo (anzi la filosofa) e la ballerina possono finalmente coincidere?

Direi che ci sono due piani distinti, un conto è l’essere donna a questo mondo che dal mio punto di vista è un ruolo sociale tanto quanto altri al quale è possibile aderire, riconoscerci o mettere in discussione, e questo ruolo è sempre ancora in mezzo al conflitto e alle barbarie.

In fondo io credo che la filosofa e la ballerina non abbiano mai smesso di coincidere 

Operare come donna nel mondo artistico significa a tutt’oggi avere un diverso tipo di rilevanza e sicuramente un’autorevolezza minore. La femminilità, nel pensiero comune, è quasi sempre connessa all’idea di grazia, di armonia e anche di bellezza, questo spesso significa che è difficilmente accettata l’intelligenza artistica in quanto tale e soprattutto non si tollera un dichiarato disinteresse nel proiettare un’immagine di seduzione di qualsiasi tipo come strumento di auto affermazione. Sembra incredibile doverlo dire, ma a tutt’oggi ciò che si chiede a una donna è di essere giovane e bella, anche a una ballerina, oppure di essere una dominatrice, un’attivista, oppure una studiosa, al massimo di essere ironica, anche la pornografia è in parte accettata ma mai un’intelligenza sensibile sconnessa dalla rappresentazione di un sé. Poi c’è il piano del femminile, una dimensione molto più ampia ben espressa dagli studi di Queer Ecologies che riguarda la capacità di essere permeabili alla differenza e di includere nello sguardo il gesto dell’altro, di generare un movimento in cui tutte le dicotomie cadono e ciò che resta è una più fluida umanità, una rinnovata sensualità tra il carisma e la casualità, alla quale tutto l’universo partecipa. Ecco, in fondo io credo che la filosofa e la ballerina non abbiano mai smesso di coincidere.

Cristina Kristal Rizzo, VN Serenade, prove, Castiglioncello 2017, credits fotografici: Luca Del Pia

Cosa ti sentiresti di suggerire a curatori, critici, ministri?

Credo che i prossimi due anni saranno decisivi per tutti, cambieranno molte cose e sicuramente dobbiamo tutti confrontarci con una società che vive nella paura e per questo si sta mostrando razzista, chiusa, indigente, bulimica, ignorante, ipocrita e pronta a censurare tutto ciò che non riconosce. Questo è il momento in cui non bisogna avere paura ma anche smettere di continuare a parlare di una qualsiasi forma di resistenza, è il momento di sostenere concretamente la produzione artistica italiana e di lasciare spazio vitale a tutto ciò che viene dal basso, lasciare che gli artisti immettano nel linguaggio parole effimere e volatili, ma anche affermazioni sconvenienti, nel senso proprio di non spendibili politicamente. Suggerisco soprattutto il rispetto e la dignità.

Ricordo con affetto il tuo pinocchio in Fuoco Centrale del teatro Valdoca, uno spettacolo che mi ha segnato profondamente tanto da caratterizzare parte del mio percorso. Ricordo le prove, la vita comunitaria seppur finalizzata alla realizzazione, come un dispositivo in grado di produrre una tensione etica ed estetica. È ancora possibile secondo te oggi quel tipo di esperienza?

Sembra incredibile perché in realtà non sono passati molti anni da Fuoco Centrale, eppure il mondo è cambiato quasi radicalmente e soprattutto le generazioni di artisti hanno modificato le tensioni interne a cui si richiamano, adottando modi molto diversi di costruzione di un percorso artistico. Un giovane interprete, così come un giovane autore, oggi, ha metabolizzato un’idea di tempo in cui tutto accade molto velocemente per consumarsi subito e dunque l’idea di generare processi piuttosto che risultati è quasi inimmaginabile, detto questo è molto interessante osservare come ci siano tentativi continui di rimettere in gioco la possibilità di esperienze comunitarie. Oggi si parla di «condivisione di pratiche» e di rinnovata attitudine a rendere orizzontale l’informazione e la conoscenza. Forse quel tipo di esperienza così totalizzante e chiusa nel chiedere adesione se pur affascinante non è più auspicabile, ma è pur vero che la necessità di generare spazi e tempi comunitari in cui condividere frammenti di processi per non sentirsi isolati e lasciati soli a confrontarsi con la pura competizione è sempre più importante ed è credo la posta in gioco del futuro.

Come si sopravvive alle politiche necrotiche del sistema dell’arte?

Continuando a parlare della creazione come di qualcosa che traccia una sua strada in mezzo alle impossibilità.

Cosa significa, per te, vivere tra le rovine?

Ogni giorno cerco di tenere bene a mente che niente è reale, tutto è impermanente, ma che questo non mi esime dal ricercare la libertà 

È una strana sensazione quella che sento perché le rovine in verità non le vedo concretamente, non sono realmente davanti ai miei occhi ma sono nella mia testa che è attraversata anche dalla memoria di altri momenti, altre città, altri continenti. Vivo a Firenze da tantissimi anni, da quando ero bambina e apparentemente questa città è un gioiello, ha una qualità di vita altissima, è pulita e sembra non accadere mai niente di pericoloso o distruttivo, è piccola e funzionale, ancora a sinistra, popolare ma allo stesso tempo molto elegante eppure ormai non riesco a considerarla neanche più una città, ma lo scrigno perfetto del turismo globale che ha reso queste strade e queste piazze un salotto, un bellissimo salotto ma senza vita. Ogni giorno cerco di tenere bene a mente che niente è reale, tutto è impermanente, ma che questo non mi esime dal ricercare la libertà.

Cosa vorresti dire che qui non ti viene chiesto?

Raccolgo immagini, solo fotografie dal web, da almeno un paio di anni. La cartella sul mio computer in cui sono archiviate si chiama Kalligraphy, proprio perché si tratta per me di una sorta di scrittura personale e intima fatta di immagine rubate o comunque prese dal flusso. È una sorta di diario personale che mi serve per alimentare una visione sul mondo e che utilizzo come un patchwork di riferimenti estetici. Non c’è una logica che seguo, a volte è il soggetto dell’immagine ad attrarmi a volte la cromatura a volte l’attinenza che percepisco o intuisco con tematiche che sto attraversando nella mia ricerca. La considero una modalità altra di studiare, come leggere filosofia, cercare consonanze con ciò che sto pensando o elaborando come pensiero. Ultimamente ho un po’ smesso di farlo, da quando Instagram è arrivato, è diventato molto più difficile essere attratta da un’immagine in particolare tanto da volerla conservare in un archivio personale, è come se l’archivio si fosse talmente espanso che non ne vale più la pena o, meglio, la mia attenzione adesso è spostata verso la portata simbolica che ognuno di noi produce e archivia nei propri social. La produzione di una immagine del sé che non corrisponde mai al reale è una pratica su cui sto elaborando. Le immagini sono come dei frammenti del pensiero che articolo intorno al mio lavoro, le uso come ulteriori strumenti per far apparire l’invisibile, ciò che ancora non esiste ma potenzialmente è già davanti a me, quella che io considero «danza», dunque non sono mai dei riferimenti di un immaginario possibile. Non lavoro su l’emersione d’immaginari, mondi fatti da immagini, ma su l’apparizione d’immagini che all’inizio non sono visibili, se non nella mia testa. Ultimamente però preferisco non guardare, solo ricordare, un frammento di qualcosa, per far emergere l’istinto del corpo.

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