The Dancing Public

Mette Ingvartsen a Short Theatre

The_Dancing_Public, Mette Ingvartsen, (c)Marc_Domage
Mette Ingvartsen, The Dancing Public - foto di Marc Domage.

La coreografa e danzatrice danese, Mette Ingvartsen, arriva a Short Theatre 2022 — ¡VIBRANT MATTER! con il suo ultimo lavoro The Dancing Public che sarà presentato al Teatro India il 15 e 16 settembre. In conversazione con Bojana Cvejić, teorica di performance e danza, la coreografa parla della nascita del suo ultimo solo che, partendo dalle coreomanie o epidemie di danza, investiga il ballo nello spazio pubblico.

Bojana Cvejić: A quando risale l’idea di The Dancing Public? Cosa ti ha spinto a investigare i fenomeni della coreomania e delle maratone di danza?

Mette Ingvartsen: L’idea è nata con il titolo The Dancing Public circa cinque anni fa, quando ho sentito fosse il momento per me di creare un lavoro in cui ballare insieme al pubblico. Questo mi ha condotto alle maratone di ballo degli anni Trenta negli Stati Uniti. Mi sono imbattuta nella coreomania, che fa riferimento a un’epidemia di danza durante il Medioevo. Mi ha attratto perché combinava diversi elementi che desideravo esplorare: ballare nello spazio pubblico, ballare come aggregazione sociale, gli eccessi dei movimenti di danza incessanti e incontrollabili che si diffondono come in un contagio. I movimenti viaggiano attraverso i corpi nelle feste, o più in generale tra le persone quando ballano per puro piacere. Ma nelle coreomanie la danza era associata a una forza inspiegabile, qualcosa di inconoscibile, e aziona movimenti fuori controllo. Volevo indagare questo e così la creazione ha preso avvio…

BC: La performance si incentra su due eventi storici che collegano i “focolai di danza”, come le epidemie di danza e le maratone di danza connesse ai periodi di crisi, come la peste nel Medioevo e la Grande Depressione degli anni Trenta. In che modo il ballo collettivo, dedito a eccesso o follia, è intrecciato con le circostanze della crisi sociale?

MI: La correlazione tra le epidemie di danza e le crisi sociopolitiche è solo una delle interpretazioni di questi “attacchi di danza”. Una fonte cruciale nella mia ricerca è stato il libro di Kélina Gotman, Choreomania: Dance and Disorder (Oxford 2018), in cui Gotman traccia la storia dei discorsi sulle manie di danza. Per esempio, una spiegazione si focalizza sulla possessione demoniaca, si pensava infatti che le convulsioni fossero causate da demoni che abitavano i corpi. Questa narrazione si impianta su una visione cristiana, predominante al tempo, e che certo non è la mia prospettiva. Ma, come sostiene Gotman nel suo libro, c’erano molte altre spiegazioni possibili emerse dal Medioevo a oggi nei documenti di cronaca, storici e medici. Si pensava che ballare fosse un modo per allontanare la peste nera oppure che nascesse da celebrazioni del solstizio d’estate in seguito degenerate. La diversità di spiegazioni dimostra il nucleo fantasmatico di questo tipo di epidemie.

BC: Ci si riferisce a queste manie anche come a malattie sociogeniche, isterie epidemiche. Non c’era alcuna base fisiologica per l’infezione, la danza si diffondeva tramite l’imitazione dei movimenti da corpo a corpo. Oltre alle crisi sociopolitiche di cui parli, menzioni anche una classificazione psicopatologica, nello specifico l’isteria, che risale, come spiegazione, alla psichiatria del XIX secolo che è stata contestata, tra gli altri, dal femminismo.

MI: Il Dr. Charcot, direttore del manicomio La Salpêtrière a Parigi, aveva sviluppato un interesse nei confronti della coreomania dal momento che riteneva fosse connessa ai movimenti osservati nei soggetti isterici. Questo è senza dubbio degno di nota perché l’isteria come malattia con base fisiologica è stata esclusa ed eliminata dalla lista delle patologie. La diagnosi medica si trasferiva nel loro comportamento, e il paziente confermava l’aspettativa del dottore. In questa performance provo a ripercorrere la storia delle trasformazioni discorsive delle epidemie di danza affiancandola a un viaggio gentile attraverso le forme della performance. Inizialmente, tento di narrare questa storia come un racconto, che diventa poi una poesia recitata ad alta voce con musica. Più avanti si trasforma in canzoni. C’è anche uno spostamento dalla narrazione diretta a un modo più teatrale di incorporare la storia, motivato dal fatto che alcune declinazioni di coreomania erano teatrali o performative, come l’isteria.

BC: Osservando i soggetti che danzavano, potremmo dire che nelle epidemie di danza ci sia un elemento di protesta contro il controllo? Le donne oppresse dal patriarcato soprattutto tramite l’autorità della Chiesa Cattolica Romana, ma anche i plebei subordinati all’aristocrazia che limitava il loro accesso alla terra. Ciò che dici riguardo al ballo sia come sintomo di una malattia che come sua cura ci dice qualcosa riguardo a un’operazione che si ritrova in vari (tuoi) lavori. A livello drammaturgico, in The Dancing Public, il passaggio dalla narrazione alla danza, dal teatro al concerto, porta una transizione dalla rappresentazione a un intenso embodiment.

MI: Mi collego alla tarantella che è uno dei vari casi che ho studiato ma alla fine non ho incluso: l’idea è comunque in qualche modo incorporata nel lavoro. Ho letto resoconti della tarantella che recitano: “una persona attraversa convulsioni estreme per curarsi da morsi di ragno velenosi mentre altre persone sono lì per supportare e assistere al processo”. Ciò che mi interessa qui è la funzione che ha la guarigione individuale all’interno della comunità, e l’effetto prodotto sui corpi che osservano. Esploro questo meccanismo anche all’interno della performance, essendo quella che si sottopone a stati intensi (e forse curativi). Una domanda emerge dal lavoro: che tipo di eccesso corporeo può liberarci dallo stato di crisi in cui ci troviamo? Per me la performance è un tentativo di risposta. Nonostante si tratti di un solo, non c’è nulla che mi riguardi personalmente. Il mio corpo veicola altri corpi storici, o meglio, di come la nostra comprensione dei corpi sia cambiata. Gli stati limite ci consentono di sperimentare le soglie delle norme, di chiederci se è possibile uscire dalle abitudini del corpo a cui il nostro comportamento si conforma. Il mio incluso. Questo lavoro mi consente una certa libertà per sperimentare stati liminali, fuori dalle norme sociali in pubblico, invitando anche gli spettatori a farlo. C’è qualcosa di politico di cui fare esperienza nel presente: come ci si relaziona allo stato estremo indotto da regolamenti, restrizioni e confinamenti? Si uniranno ai movimenti convulsi, dolorosi e stremanti, o piuttosto si muoveranno durante le sezioni celebrative e partecipative?

Mette Ingvartsen, The_Dancing_Public – Foto di Hans Meijer.

BC: Ora, per pensare di nuovo ai corpi del pubblico: inizialmente hai pensato di creare una situazione in cui il pubblico ballasse. È l’empatia cinetica il fondamento poetico per una risposta del pubblico? La teoria scientifica dei neuroni specchio responsabili della cinestesia è stata di recente contestata, ma la sua base poetica o coreografica rimane. In The Dancing Public, il ritmo ci fa andare a tempo in modo collettivo. È la sincronizzazione il modo per coinvolgerlo a ballare?

MI: Di certo la scelta di avere la musica come traccia continua per l’intera performance ha a che fare con la domanda: “Come propongo alle persone di entrare nel ritmo”? Costruiamo uno spazio musicale come contenitore per l’esperienza di convivenza sociale. Quando parlo di contagio e di come la danza si diffonde da un corpo all’altro, non sto chiedendo di danzare con me, ma sto offrendo indirettamente la possibilità di arrendersi al movimento contagioso. Le persone sono dentro lo spazio di questo teatro, incluse. Poi quando inizio a ballare a tutti gli effetti, di fatto compongo movimenti convulsi e gesti, come grattarsi, ridere e i tic della Sindrome di Tourette. Molte storie del movimento hanno attraversato queste miscele, ma c’è un forte riferimento al fare festa che è parte della mia storia. Qui performo un movimento che tutti sono in grado di fare, con la differenza che lo sto facendo in modo eccessivo: “cosa sta facendo ora, ridendo o grattandosi?”. La connessione cinestetica si appoggia su un forte senso di riconoscibilità dei movimenti quotidiani che sono portati qui a un livello di maggiore intensità.

BC: Guardando alla storia dell’idea di aggregazione sociale tramite il ballo, si è passati dalla funzione di creare dissenso nel Medioevo, alla coreomania come psicopatologia delle donne nel XVII secolo, al XX secolo in cui il ballo in massa, in modo organizzata, diventa una coreografia sociale usata affermare esteticamente ideologie politiche (dal nazionalismo al socialismo, alle parate naziste). Cosa rimane delle epidemie di danza oggi? Ballare come forma di aggregazione sociale è presente nella cultura giovanile. Qual è il potenziale politico del riunirsi danzando oggi? Le persone si riuniscono per protestare in massa, ma non ballano, camminano o si siedono, occupano.

MI: Sarebbe interessante guardare alla storia della cultura rave, che nasce a sua volta come movimento clandestino… Tutto ciò che viene dimenticato ed è forzato a essere clandestino ha un potenziale politico mostrando i limiti di un comportamento consentito. La cultura rave è stata etichettata come apolitica ma si potrebbe cercare il significato politico che sottostà alla necessità dei corpi di muoversi sulla musica techno.

BC: Tornando al tuo solo, voglio sottolineare che per me è impressionante guardarti esibire in qualcosa che hai costruito da sola nella maggior parte dei suoi elementi. Hai scritto il testo componendo una poesia; hai creato la traccia musicale, che è stata poi arrangiata da Anne van der Star, mentre Minna Tiikkainen, con cui hai collaborato in molti lavori, ha progettato le luci. Qual è il posto del solo nella tua opera? Sembri alternare solo e coreografie di gruppo.

MI: I solo mi lasciano il tempo per sperimentare: quando lavoro da sola mi sembra di avere tutto il tempo del mondo. Per me è importante lavorare da sola anche perché ho bisogno che le idee per la coreografia passino attraverso il mio corpo prima che io lavori con altre persone. In aggiunta, visto che quello che voglio fare è spesso esagerato, non posso chiedere ad altri di essere coinvolti prima di avere messo alla prova il mio corpo e suoi i limiti. Raggiungo livelli di intensità molto alti, quando danzo questo solo. Ogni tanto sono così energica che non riesco ad addormentarmi fino a tarda notte. Amo leggere molto e spesso comincio la creazione relazionandomi con domande sociopolitiche: il solo è un format in cui posso mettere alla prova le idee che arrivano da letture e pensieri e confrontarle con desideri fisici che non sempre so da dove provengano.

BC: Potrebbe essere che provi in prima persona non solo per un “test etico” ma anche perché è il modo in cui impari? Un modo di studiare le epidemie di danza è provarle con il tuo corpo. Questo è un modo empirico di apprendere, specifico anche della danza.

MI: Tutto quello che ho letto riguardo questi stati estremi del corpo era interessante, ma ho realizzato che non potevo saperne nulla fino a quando non avessi capito cosa si provasse. Ad esempio, la differenza tra movimenti involontari e controllati. Rispetto alle epidemie di danza e alle isterie collettive ci si chiede quanto fosse auto-indotto, e fino a che punto semplicemente accadesse; cose ci fosse al di fuori e al di sotto del controllo dei corpi. Ad esempio, cosa accade quando giri finché non stai per cadere? […].

The Dancing Public – Foto di Jonas_Verbeke.

BC: Questo giustifica il termine ricerca, quando stai acquisendo un livello corporeo di conoscenza utilizzando il corpo come tramite per un esperimento.

MI: E poi sono interessata alla performance come momento di condivisione dei risultati di fronte e insieme a un pubblico immerso in uno spazio costruito da luce, suono e musica. Mettendo piede in questa performance, le persone si trovano di fronte al quesito “Voglio muovermi? Voglio esserne parte? O voglio andarmene? Oso lasciarmi andare e comincio a ballare di fronte ad altri che potrebbero non ballare? Come ci comportiamo insieme quando siamo in gruppo?”. Queste domande hanno molto a che fare con la socialità con cui siamo preparati ad interfacciarci. In questo modo The Dancing Public dialoga con 69 positions dove il pubblico doveva rinegoziare la propria partecipazione. Per me è sempre un mistero il fatto che a volte l’esperienza collettiva diventa qualcosa di meraviglioso e altre volte non funziona affatto.

BC: Sarà interessante vedere se il pubblico si approprierà dello spazio nelle circostanze attuali. Percepisco una necessità condivisa da parte delle persone di esercitare il proprio diritto a ballare che era una parte importante della vita quotidiana.

L’intervista è avvenuta il 18 settembre 2021 al PACT Zollverein di Essen.

Traduzione di Beatrice Del Core

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