Vacanze

Dispositivi per sottrarsi alla cattura della macchina capitalista

Non ora. Non ancora. - fotoromanzo I motti di spirito. 2016 (1000x718)
Mauro Folci, Non ora. Non ancora. - fotoromanzo I motti di spirito. 2016.

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“Michel Foucault, Il coraggio della verità. Il governo di sé e degli altri II, Feltrinelli 2011), e L’uso dei corpi, di Agamben”

In occasione della mostra Vacanze – in corso all’Auditorium Parco della Musica di Roma fino al 21 maggio a cura di Anna Cestelli Guidi – pubblichiamo un testo dell’artista.

In Abecedario((Gilles Deleuze, Abecedario,video intervista di Claire Parnet. Regia Pierre André Boutang, DeriveApprodi, 2005 )) Gilles Deleuze racconta di quando, nel 1936 – lui ragazzo undicenne -, il governo di Blum impose le ferie pagate a tutti i lavoratori dipendenti, e di come la borghesia di destra e antisemita della Francia di allora fosse scandalizzata, oltre che seriamente preoccupata, di quella particolare misura sociale. Racconta di quando sulla spiaggia di Deauville, località dove la famiglia si trasferiva per le vacanze estive, giunse a disturbare la quiete dei pochi, la folla dei proletari. L’odio di classe dei padroni e dei borghesi che questa legge sulle ferie retribuite liberò, fu di tale intensità che costrinse molti di loro a rinunciare al mare di Deauville. Deleuze ricorda, con un sorriso di soddisfazione, come la conquista delle ferie pagate sia stata una delle vittorie più importanti della storia del movimento proletario e per inverso come questa abbia letteralmente traumatizzato i padroni por molti anni a venire. Più di quanto avvenne negli anni 70.

Le ferie è un periodo di tempo che è di vacanza dal tempo del lavoro, e dunque capite bene perché i padroni fossero così preoccupati: è tempo liberato per la cura del sé e questo rappresenta, da sempre, un serio pericolo per la macchina che trasforma il tempo in capitale. È una minaccia in quanto libera cariche desideranti che sono potenziali forme diverse di vita: una “vita altra” che fa dell’essere vacante il principio di un’azione destituente nei confronti dei poteri costituiti.

Essere vacanti è la potenza che definisce la natura umana, è ciò che delinea il confine tra l’essere dell’animale e l’essere dell’umano, per dirla con Heidegger la vacanza è l’aperto. L’essere vacante è la formula con cui Bartleby lo scrivano conduce a termine l’esperimento di abitare una pura potenza. È l’approdo che tenta di guadagnare Beckett esaurendo e mandando in vacanza ogni forma di linguaggio.

Vacante è il fosco, è colui che non ha qualità né competenze. Vacante è Dino Campana “questo ricordo che non ricorda nulla è così forte in me“((Dino Campana, lettera a Sibilla Aleramo. In: Un po’ del mio sangue, Rizzoli 2007)). Vacante è essere aperto a tutto: – un signore dice all’altro “lei suona abbastanza male” l’altro risponde “si suono male ma non voglio suonare bene” allora il primo risponde “ah se è così allora va tutto bene”((Mauro Folci, Non ora. Non ancora, performance in Pigs, a cura di Escuela Moderna/Ateneo Libertario, Milieu Edizioni 2016)).

Vacante è ciò che si mantiene nell’indeterminato, è la condizione di ogni divenire, è una potenza così come lo è la facoltà di linguaggio, così come lo è la forza lavoro.

Paolo Virno ha riabilitato questo concetto di forza lavoro che dalla fine degli anni ‘70 era caduto nel dimenticatoio, e lo ha fatto a ragione che oggi ciò che si acquista al mercato del lavoro è esattamente ciò che Marx intendeva per forza lavoro: un concentrato di forza fisica e di forza intellettuale trattenuta nei corpi. La forza lavoro è l’insieme delle facoltà che possiede il vivente umano, è per natura propria una potenza indeterminata, e sappiamo che una potenza che si dice tale è sempre una potenza-di-non passare all’atto. La potenza, dunque, è qualcosa che non esiste, che non c’è. Ora dobbiamo riconoscere che qui succede qualcosa di veramente strano, di paradossale, perché se la forza lavoro è la potenza, ossia qualcosa che non è in atto, qualcosa che non è, come si fa ad acquistarla al mercato del lavoro? La risposta che da Virno non è multipla: occorre acquistare l’intero corpo in quanto concentrato che tiene a sé l’insieme della forza fisica e l’insieme della forza intellettuale. Un altro nome per dire forza lavoro, catturata nel processo lavorativo, è Intelletto generale, che è parimenti un sapere non specifico ma generico, che è intelligenza senza padroni diffusa e orizzontale.

Un sapere generico che ci tiene insieme. Bella questa immagine, vero? peccato che nel mondo attuale il vacante, il mancante, il precario, il flessibile, il generico del vivente umano viene acquistato e messo a profitto dalla macchina che accumula capitale. Ma c’è dell’altro: l’arte, in questa congiuntura storica che vede il trionfo dell’estetica nell’economia e nella politica, è l’incarnazione (non la formalizzazione) di quel general intellect, che oggi viene cooptato e sussunto dal sistema capitalistico nella forma della produzione, della valorizzazione e della riproducibilità di soggettività e comunità naturalmente capitaliste.

Non è tanto o solo l’ estetizzazione integrale della politica e dell’economia, che sarebbe ancora pubblicistica, quanto che il processo di estetizzazione di ogni spazio della vita lavorativa come di quella associativa abbia finito col modellare il soggetto come fosse un oggetto estetico. Questa espressione che ora ho usato in senso negativo, mi da occasione per entrare nel merito del mio intervento che verte essenzialmente su due forme di esodo potenti: la prima è quella che indica Michel Foucault nell’esortazione a sperimentare (plasmare, condurre) la propria vita come fosse un’opera d’arte, la seconda è di Giorgio Agamben con una inoperosità attiva, cioè destituente. I testi a cui faccio riferimento sono Il coraggio della verità, trascrizione dell’ultimo corso di Foucault((Michel Foucault, Il coraggio della verità. Il governo di sé e degli altri II, Feltrinelli 2011), e L’uso dei corpi, di Agamben ((Giorgio Agamben, L’uso dei corpi, Neri Pozza, 2014)).

Tutta la seconda metà del corso Foucault la spende per parlare della scandalosa forma di vita dei cinici antichi, per insistere sulla questione che lo ha occupato negli ultimi anni – le relazioni tra soggetto e verità – e per tornare sulle connessioni inestricabili tra la pratica della cura del sé e una qualificata estetica dell’esistenza. Si parla cioè di una pratica di verità su di sé che consiste nel condurre la propria vita come fosse un’opera d’arte, o meglio sperimentare con la propria forma di vita così come si sperimenta in arte.

Altrove, in Sulla genealogia dell’etica, lamentando che l’arte sia diventata un’attività specialistica in relazione solo con le opere e non con gli individui, Foucault si domanda: “Perché la vita di ogni individuo non potrebbe essere un’opera d’arte? Perché una lampada o una casa sono oggetti d’arte e non lo è la nostra vita?”((H.L.Dreyfus, P. Rabinow, Michel Foucault, Sulla genealogia dell’etica: compendio di un work in progress, in: La ricerca di Michel Foucault, Ed. La Casa Usher 2010, p. 309)).

Il cardine della filosofia cinica è il singolare uso della parresia, ossia del discorso franco detto in modo polemico, incurante nella forma quanto più penetrante nella verità. Un dire il vero su se stessi e contro se stessi, contro gli altri e per gli altri. La cura del sé dei cinici è essenzialmente un dire il vero su se stessi, una verità che scava nel profondo del sé con coraggioso e che, per coerente conseguenza, assume forme di vita radicali: una vita altra è sempre una vita di verità. Per analizzare la tipicità della parresia cinica Foucault inizia col definire cosa è una vita di verità a partire dai 4 principi per cui nella filosofia greca una cosa possa dirsi vera e poi, ponendo forte l’accento sul fatto che sono definizioni che si applicano a delle forme di vita, li usa per determinare i principi che fondano la vita altra dei cinici.

1/ Vita non dissimulata: estremizzata in una forma di vita scandalosa, vivono seminudi e mangiano, dormono, fanno i bisogni fisiologici e si masturbano in strada.

2/ Vita senza commistioni: una vita autarchica che è sufficiente a sé stessa, con la pratica della povertà e il disonore.

3/ Vita diritta: una vita conforme alla natura e alla ragione, una forma di vita naturale fino all’animalità. Il cane (randagio e di città) è il modello.

4/ Vita sovrana: è il senso ultimo della filosofia di vita del cinico. Il cinico è la sovranità in sé, è un re-anti re, il che vuol dire l’affermazione della supremazia del soggetto sulle norme.

La parresia coraggiosa che i cinici usano per modellare la propria vita, in ragione di un ritorno alla natura, la rivolgono anche agli altri e consiste in questo: “riuscire a fare si che gli uomini condannino, respingano, disprezzino, insultino la manifestazione stessa di ciò che essi ammettono, o pretendono di ammettere, sul terreno dei principi”((Michel Foucault, Il coraggio della verità. Il governo di sé e degli altri II, Feltrinelli 2011, p. 125)). Vale a dire far incazzare gli altri sbattendogli in faccia la contraddizione stridente tra ciò che loro stessi accettano e sostengono sul piano delle idee (ritorno alla natura) e il modo di condurre la propria vita che racconta un’altra storia.

I cinici dicono la verità con il discorso e dicono la verità mostrando conseguentemente la loro forma di vita: dicono la verità anche attraverso il corpo. La parresia dei cinici è un dire il vero con coraggio, e tutti sanno che la verità detta con franchezza a volte può risultare sconveniente, si può offendere l’amico o l’amante, ma si può anche perdere la testa se l’altro del gioco parresiastico è un re, un tiranno o un potente qualunque.

Sappiamo bene che si rischia la vita a dire il vero, ma la cosa interessante che Foucault puntualizza con energia, è che nei cinici questo rischio scaturisce non tanto dal discorso dissacratorio quanto invece dallo scandalo che la loro vita suscita. Ecco ciò che va tenuto a mente occupandoci dei cinici, dice Foucault: “si rischia la propria vita non solo dicendo semplicemente la verità, non solo per dire la verità, ma anche per il modo in cui si vive“((Ivi, p. 226)). Questo dire il vero con coraggio è insieme critica di sé e critica al potere: inoltre si rapporta con il bios, ossia, dice il vero attraverso il proprio comportamento, la propria postura, la propria estetica di vita. Questo bios è l’accezione positiva di ciò che chiamiamo biopolitica, intesa cioè come potenza del soggetto.

“Il coraggio di dire il vero quando si tratta di scoprire l’anima. Il coraggio di dire il vero quando si tratta di dare alla propria vita una forma e uno stile”((Ivi, p. 159)). Queste sono le due forme della cura del sé; e ciò che interessa Foucault è come, a partire da questa pratica parresiastica il bios, la vita si sia trasformata in oggetto estetico, come il coraggio di dire il vero si sia intrecciato con “il principio dell’esistenza come una opera da plasmare”((Ivi, p. 161)).

Il cinismo più che una filosofia è una prassi di vita che testimonia una possibilità diversa di stare al mondo, ed è solo a partire da questa testimonianza di vita scandalosa – eretica, rivoluzionaria, anarchica – che è possibile una genealogia del cinismo che attraversando tutte le epoche giunge fino a noi. La questione del cinismo diviene molto importante ad esempio nell’arte moderna a partire dalla fine del ‘700, basta pensare al lungo fenomeno della Bohème in cui la forma di vita dell’artista attesta non solo la veridicità dell’opera ma diviene essa stessa opera d’arte: l’artista non crea opere ma plasma se stesso nella forma di un’opera d’arte. Nello Sturm und Drang della prima arte borghese, ci dice Peter Sloterdijk((Cfr. Peter Sloterdijk, Critica della ragion cinica, Raffaello Cortina 2013)), si apre la valanga del kinismo estetico e l’arte diviene polemica, processuale, mostra insofferenza a qualunque norma, si pone in costante tensione verso il superamento di ogni limite, contro ogni forma di arte acquisita. È questo il cinismo dell’arte. Sloterdijk parla di un “materialismo esistenzialista” che esprime con la carne e con le ossa il possesso della propria sovranità: la vita cinica è una vita di godimento che dispone pienamente della propria soggettivazione, che sperimenta il proprio essere come fosse un’opera d’arte.

Questa idea di pensare sé stessi nella forma di un’opera d’arte è stata criticata da alcuni che hanno inteso, sbagliando totalmente, la “vita da plasmare” come si trattasse realmente di una scultura, come di un oggetto posto fuori da sé, quando invece è più che evidente che il soggetto di Foucault è sempre in divenire e che un soggetto vero e proprio, ossia costituito, non esiste. Questo è un punto importante su cui Agamben si sofferma a lungo in L’uso dei corpi ribadendo che per Foucault “l’estetica dell’esistenza” e “la vita come opera d’arte” sono sempre in un contesto discorsivo di etica((Giorgio Agamben, L’uso dei corpi, Neri Pozza 2014, p. 136)).

Ora seguiamo Agamben sulla questione del soggetto costituito e del soggetto costituente e le contraddizioni che rintraccia quando il soggetto che liberamente va costituendosi sotto l’opera della cura del sé entra, nella prassi, in relazioni di poteri per cui “la soggettivazione di una certa forma di vita, è, nella stessa misura, l’assoggettamento in una relazione di potere”((Ivi, p. 145)). lo so, è difficile da accettare ma questo è ciò che Foucault chiama la microfisica dei poteri. Insomma il soggetto libero entra comunque nella dialettica soggettivazione/assoggettamento e da questa trappola Agamben cerca di uscirne ipotizzando una terza via: una forma di vita che si sottragga alla polarità zoe/bios che fa della biopolitica, in ogni caso, il dispositivo di controllo della vita in quanto tale, della nuda vita; a partire da questo “terzo” Agamben sembra suggerire una via di esodo nel possibile che si apre nella “inoperosità”, nella sottrazione attivamente inoperosa: “Occorrerà, allora, innanzitutto, neutralizzare il dispositivo bipolare Zoe / bios. (…) si tratta, cioè, di rendere inoperosi tanto il bios che la zoe, perché la forma-di-vita possa apparire come tertium che diventerà pensabile soltanto a partire da questa inoperosità, da questo coincidere – cioè cadere insieme – di bios e zoe”((Ivi, p. 287)).

Non più la dialettica bios/zoe perché ciò non riproduce altro che uno stato d’eccezione, quello in cui la posta in gioco della politica è la nuda vita. L’Occidente politico si struttura su questa forma di esclusione inclusiva, giocando sulla nuda vita il differenziale che definisce di volta in volta che cos’è umano e cosa no: “La struttura originaria della politica occidentale consiste in una ex-ceptio, in una esclusione inclusiva della vita umana nella forma della nuda vita. Si rifletta sulla particolarità di questa operazione: la vita non è in se stessa politica – per questo essa deve essere esclusa dalla città – e, tuttavia, è proprio l’exceptio, l’esclusione-inclusione di questo impolitico che fonda lo spazio della politica”((Ivi, p. 333)).

La disattivazione di questo dispositivo uomo-non uomo darebbe a vedere quel vuoto, quella zona di indistinguibilità che si pone al confine tra l’animale e l’umano, da cui poter cogliere una vita inseparabile, né animale né umana: “il problema ontologico politico fondamentale è, oggi, non l’opera, ma l’inoperosità, non la ricerca affannosa e incessante di una nuova operatività, ma l’esibizione del vuoto incessante che la macchina della cultura occidentale custodisce al suo centro”((Ivi, p. 336)).

Lo stesso paradosso che il dispositivo logico dell’esclusione inclusiva crea lo troviamo nel dibattito, recentemente rinvigorito, su un potere costituente che non passi mai all’atto nella forma definitiva di un potere costituito, cosa in realtà difficile da sostenere visto che rimane evidentemente imprigionato nella dialettica costituente / costituito, che altro non è se non il ritornello che giustifica la violenza del potere, che sia già costituito o che vada a costituirsi. Sulla logica della terza linea Agamben propone un “potere destituente”. Questa idea di potere destituente che fa tutt’uno con l’essere inoperoso è tema frequentato nell’ambito della filosofia politica che ha riflettuto sul comunitario, come ha fatto ad esempio Nancy.

Inoperosità e potenza destituente stanno insieme, rendono inattuale “una funzione, un potere” ma senza distruggerlo, liberando invece le potenzialità che ne permetteranno un uso diverso. Agamben sta pensando l’umano e il politico senza alcuna relazione tra loro, li pensa disgiunti per poter disattivare la macchina dell’esclusione inclusiva: “pensare l’umano e il politico come ciò che risulta dalla disconnessione di questi elementi e investigare non il mistero metafisico della congiunzione, ma quello pratico e politico della loro disgiunzione”. I due elementi (la zoe e il bios) così rimangono ben visibili ma non più compromessi, e ,”perciò stesso, ciò che era stato diviso da sé e catturato nell’eccezione, la vita, l’armonia, la potenza anarchica, appare ora nella sua forma libera e indelibata”((Ivi, p. 344-345)).

Lo stato d’eccezione permanente, prodotto dalla dialettica zoe/bios, e la traccia di un possibile destituente ci offrono degli strumenti di lettura ulteriori per capire se l’indicazione così “urgente” e precisa di Foucault,”condurre la propria vita come un’opera d’arte”, sia una strategia di salvezza ancora valida oggi, a distanza di 32 anni, sul piano individuale e spendibile su quello politico.

Il problema che ho voluto proporvi, in modo così parziale e superficiale, è in ultima analisi questo: quale strada seguire per un esodo potente e felice, capace cioè di sottrarsi alla cattura della macchina capitalista? È la via verso un potere costituente o verso un potere destituente? Si dovrà realizzare (ancora) un’opera sociale oppure salvare la società (come suggeriva Foucault) liberandola dai vincoli dell’operosità?

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