Non è il dubbio
ma la certezza a rendere folli

Quel che la psicosi ci insegna sul sapere

Il sapere che viene dai folli
Dal volume «Il sapere che viene dai folli», immagine di Mario Coppola

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“)Ricordiamo la celebre formulazione di Freud secondo cui psicanalizzare sembra essere il terzo dei mestieri impossibili il cui esito insoddisfacente è evidente. Gli altri due sarebbero l’educare e il governare. «Avevo sì fatto mio sin dai primi tempi il vecchio adagio delle tre professioni imp…”

Estratto dal volume Il sapere che viene dai folli: quel che la psicosi ci insegna su linguaggio, sapere, corpo, immagine, femminile, amore, libertà, a cura di Nicolas Dissez e Cristiana Fanelli, DeriveApprodi, Roma 2017 (con immagini di Mario Coppola e Philippe Auliac).

Di solito è l’irruzione di un sapere assoluto nel discorso del paziente ad annunciare la follia – gli alienisti parlavano in proposito di “convinzione delirante”. Può questa scoperta – ripresa da Friedrich Nietzsche in una formula rimasta celebre: «Non è il dubbio, ma la certezza a rendere folli» – interessarci e far risaltare la funzione essenziale che ha il sapere per ciascuno di noi?

Il sapere che costituisce un soggetto

Il delirio è di fatto uno dei fenomeni più immediatamente identificabili, ma anche più sconcertanti della follia. Questa creazione di senso costituisce il particolare sapere del soggetto delirante – se è vero che ogni sapere costituisce una lettura del mondo. Se il delirio è la forma di sapere caratteristica della follia, il mio scopo sarà dimostrare come il suo studio permetta a ciascuno di rinnovare la propria concezione del sapere.

Se vi è dunque un insegnamento basilare del delirio, è che lo scopo essenziale del sapere non consiste nella sua funzione di conoscenza o di erudizione. In modo molto più essenziale il sapere ci costituisce come soggetti. È d’altronde significativo che se siamo debitori ai testi o ai libri che hanno contato nella nostra vita, non è per averci fornito delle nozioni, ma per averci trasformati 

Propongo quindi di declinare i diversi registri di quel che può sorprenderci nel delirio, cercando ogni volta di individuare l’insegnamento da trarne. Precisiamo subito però che questo percorso, per quanto completo sia, non modificherà il senso di sorpresa suscitato dall’ascolto di un discorso delirante, sorpresa dunque destinata a rinnovarsi ogni volta.
Quando si ascolta un discorso delirante, si è colpiti innanzitutto dal carattere essenziale, quasi vitale, che ha per il suo autore. Anche se verte sul mondo esteriore, il sapere che si dispiega nel delirio riguarda innanzitutto il soggetto stesso. Persino quando si annuncia come una scoperta capace di rivoluzionare la scienza, questo sapere trasforma innanzitutto il soggetto stesso. Capiamo meglio, così, gli accenti patetici o la dimensione persino passionale che può assumere l’enunciato di un discorso delirante, poiché, a seconda della sua formulazione e della sua elaborazione, è il soggetto stesso a esserne modificato.
Se vi è dunque un insegnamento basilare del delirio, è che lo scopo essenziale del sapere non consiste nella sua funzione di conoscenza, di acculturamento o di erudizione. In modo molto più essenziale il sapere ci costituisce come soggetti. È d’altronde significativo che se siamo debitori ai testi o ai libri che hanno contato nella nostra vita, non è per averci fornito delle nozioni, ma per averci trasformati, per aver fatto sì che non fossimo più gli stessi dopo averli letti.

Il delirio: senso a profusione

Allo stesso modo, il discorso delirante ci stupisce inevitabilmente quando ci accorgiamo che «il senso del delirio» non corrisponde a quel che di solito chiamiamo «il senso della vita». Il discorso delirante ci sorprende perché lascia da parte temi da cui sembriamo dipendenti, alienati, in un modo talvolta risibile: «Avrò successo?», «Sono amato?». Il senso del delirio ci sorprende perché non va mai a finire su quei temi che orientano le nostre vite e che, perciò, consideriamo di «buon senso». Se questa abbondanza di senso generata dal delirio può stupirci così tanto è perché tale profusione supera il registro di quanto, dopo Freud, chiamiamo “significazione fallica”. Ascoltando una costruzione delirante, siamo dunque sorpresi da come il quadro che ne discende non dipenda dalla significazione sessuale che invece organizza e orienta le nostre vite.

La proliferazione di senso nel delirio ci spiazza anche perché fatichiamo molto a individuarvi un certo numero di punti fissi. In realtà l’ancoraggio del senso è altrettanto indispensabile a un paziente delirante che a noi, e la funzione del delirio è proprio tentare d’impiantare nuovi punti fissi che possano costituire in sé stessi un nuovo quadro di vita.
Spesso sentiamo il personale curante delle istituzioni in cui vengono accolti pazienti deliranti dire: «Bisogna inquadrarlo», ma il quadro migliore che un paziente psicotico possa trovare è precisamente il suo delirio. Eppure non tutte le costruzioni deliranti, o – come diceva Freud – i tentativi deliranti di guarigione dei nostri pazienti, offrono loro un quadro abitabile, vivibile. Il senso in sé non basta a istituire un quadro che, per tenere, necessita di un certo numero di punti d’ancoraggio. Quel che il delirio c’insegna chiaramente è che questi punti fissi sono ancoraggi nel linguaggio, sono significanti.

Il neologismo

Se un neologismo costituisce spesso un termine essenziale della costruzione delirante, se può rappresentarne l’autentica chiave di volta, è nel rimandare solo a se stesso nella propria materialità linguistica 

Ma, ascoltando un discorso delirante, il fenomeno che provoca maggiormente la nostra sorpresa è la comparsa di un neologismo. L’emergere, sempre inatteso, di un termine nuovo, inusitato, provoca sorpresa in chi lo ascolta non solo perché è incomprensibile, ma perché gli sarà presto evidente che spesso esso non rinvia ad alcuna significazione nota. «Mia madre e il mio medico sono in connivelenza per farmi ricoverare», diceva una paziente citata in un trattato di psichiatria. Il termine sembrava strutturare tutto il suo tema persecutorio, ma, se pare riunire le significazioni del veleno e della connivenza, non ne esaurisce tuttavia il senso. Se un simile neologismo costituisce spesso un termine essenziale della costruzione delirante, se può rappresentarne l’autentica chiave di volta, è nel rimandare solo a se stesso nella propria materialità linguistica. C’è in questo una lezione fondamentale del delirio: studiarlo ci permette non solo di cogliere come la struttura su cui si sostiene sia una struttura di linguaggio, ma, proprio questa constatazione, ci porta a considerare che la realtà che ciascuno di noi, delirante o meno, abita, ha consistenza solo di linguaggio. Dipendiamo tutti in realtà da un certo numero di termini che organizzano nostro malgrado la nostra vita e da cui possiamo difficilmente staccarci, quelli che Jacques Lacan chiama significanti padrone. Questa dipendenza del discorso nei confronti di alcuni termini ripetitivi ci appare meglio nell’ascolto di una costruzione delirante, ancor più quando tali termini sono neologismi, coniati di sana pianta dal discorso delirante. Ma anche noi – tutti noi – dipendiamo da significanti che costituiscono punti fissi del nostro discorso. È dunque una lezione fondamentale del delirio che la realtà che abitiamo sia una realtà di linguaggio.

L’insegnamento del misconoscimento sistematico

La clinica delle psicosi brulica di fenomeni, spesso gli uni più sorprendenti degli altri, che indicano quanto la nostra realtà dipenda da fenomeni linguistici. Così, lo psichiatra Joseph Capgras è riuscito a isolare una sindrome clinica che ha chiamato misconoscimento sistematico. Questa sindrome si manifesta ad esempio quando un paziente ricoverato d’urgenza dichiara che i pompieri che sono andati a casa sua a comunicargli la necessità del ricovero avevano effettivamente tutta l’attrezzatura tipica della loro professione – casco, camion rosso con tanto di sirena – ma che lui, accorgendosi perfettamente che si trattava di falsi pompieri, non si è fatto ingannare. Poi, arrivando in ospedale, lo stesso paziente afferma di essere stato accolto da giovani donne in camice bianco che esibivano alla perfezione il comportamento e le competenze delle infermiere, ma che lui le ha subito riconosciute come false infermiere messe là con il solo scopo di ingannarlo. Infine, questo stesso paziente, parlando con il medico di guardia, potrà fargli notare che le sue domande saranno anche molto pertinenti, ma che non si è certo lasciato abbindolare dallo scherzo che gli hanno giocato e sa benissimo che lui è un falso medico che recita la sua parte. È così che tutto l’ambiente di questo paziente assume i contorni dell’imbroglio, di una falsa sembianza.

Ad analizzarla rigorosamente, il valore di questa sindrome è di interrogarci su cosa solitamente garantisca l’autenticità del mondo in cui viviamo, su cosa, nella nostra vita quotidiana, ci consente di non dover verificare se i pompieri sono veri pompieri, se il nostro medico non sia un usurpatore. Se non verifichiamo di continuo l’autenticità delle credenziali di chi è investito di queste funzioni simboliche, non è perché ci rassicuri la veridicità delle loro attrezzature o perché ci siamo assicurati della loro competenza, ma perché ci basta considerare che se occupano quel posto è perché vi sono stati nominati. Questa nominazione implica una funzione che, socialmente, può richiedere un certo numero di cerimonie ufficiali e che sembra sufficiente a garantire la nostra fiducia nel fatto che un’infermiera sia davvero un’infermiera e che un medico sia davvero un medico.
L’operazione di nominazione è un’operazione simbolica, una funzione del linguaggio, e sembra essere proprio la sua efficacia a far difetto nel paziente delirante colpito da misconoscimento sistematico. Quando questa operazione perde la sua efficacia, infatti, l’intero quadro della nostra realtà va in frantumi.

La nostra sorpresa davanti ai discorsi di questi pazienti deliranti ci rivela quanto siamo dipendenti dai fenomeni di linguaggio, ci rivela altresì che sono questi fenomeni a fissare il quadro simbolico di ciò che chiamiamo realtà. Qui come in molte altre situazioni, sono quindi i fenomeni patologici a gettare luce sul meccanismo detto normale.
Questo quadro linguistico è per ciascuno, delirante o meno, il suo autentico luogo, la sua unica legittima dimora. Per il soggetto nevrotico, tale quadro è quello che Freud ha identificato con il nome di fantasma. Ha il vantaggio e l’inconveniente di essere fissato una volta per tutte. Il paziente delirante, a cui manca questo quadro fantasmatico, si trova in permanenza a dover rifare la costruzione linguistica delirante, intessuta di significanti e di significazioni, che gli permette di abitare il mondo.

L’insegnamento della melanconia

C’è in questo un insegnamento proprio della clinica della melanconia: l’impossibilità di raggiungere il nostro desiderio – un impossibile di cui non manchiamo mai di lamentarci nel corso delle nostre esistenze – in realtà ci è indispensabile. Senza questo impossibile il nostro mondo diviene invivibile 

Dobbiamo però sottolineare che il “delirio melanconico” non è una costruzione delirante nel senso in cui Freud definisce il delirio come un tentativo di guarigione. Il delirio melanconico non è delirio poiché non istituisce alcun luogo abitabile per il soggetto, ma segna piuttosto l’impossibilità di costituirlo. Peggio ancora, il paziente melanconico afferma di essere irrimediabilmente votato all’espulsione, al bando, di essere indegno di stare nel nostro mondo. Un elemento degno di nota è che questo tipo di crisi melanconica può sopraggiungere proprio nel momento in cui sembra realizzarsi un obiettivo che il soggetto attendeva da lungo tempo. È sempre nel momento in cui realizza il suo desiderio che un soggetto simile si vede ridotto a occupare la funzione di un oggetto la cui caratteristica è di essere sempre rigettato, deriso, bollato come indegno: quell’oggetto che Lacan ha chiamato oggetto a.
C’è in questo un insegnamento proprio della clinica della melanconia: l’impossibilità di raggiungere il nostro desiderio – un impossibile di cui non manchiamo mai di lamentarci nel corso delle nostre esistenze – in realtà ci è indispensabile. Senza questo impossibile il nostro mondo diviene invivibile.

La funzione dell’impossibile

È quindi legittimo ipotizzare che un delirio possa costituire un sapere, un quadro durevolmente abitabile per un paziente, solo a condizione di istituire un impossibile. Possiamo individuare la funzione di questo impossibile all’interno di numerosi deliri costituiti. Così, l’erotomane non smette di sottolineare che l’unione con il proprio oggetto d’elezione è certa, sicura, anche se non è possibile immediatamente. Un giorno, di sicuro – ci dice l’erotomane – questa unione si realizzerà, ma in questo momento è impossibile. L’oggetto di erotomania, come lo chiamava de Clérambault, è sposato, deve consacrarsi temporaneamente ad altri compiti… Siamo dunque portati a formulare l’ipotesi che il delirio possa costituire una realtà abitabile per un paziente solo istituendo quella dimensione dell’impossibile mediante la quale Lacan definisce il Reale.
Eppure questo impossibile è ben lungi dal costituire la specificità della costruzione delirante. Ecco un ulteriore insegnamento che possiamo ricavare dal nostro studio del delirio: l’impossibile organizza anche le nostre esistenze.

Freud distingueva così tre mestieri impossibili: educare, governare e curare(()Ricordiamo la celebre formulazione di Freud secondo cui psicanalizzare sembra essere il terzo dei mestieri impossibili il cui esito insoddisfacente è evidente. Gli altri due sarebbero l’educare e il governare. «Avevo sì fatto mio sin dai primi tempi il vecchio adagio delle tre professioni impossibili (l’educare, il curare e il governare), ma ero comunque occupato fino al collo con la seconda di esse. Non per questo tuttavia disconosco ai miei amici pedagogisti il diritto di rivendicare al loro lavoro un alto valore sociale», S. Freud, Prefazione a Gioventù traviata, di August Aichorn, in Opere. 1924-1929. Inibizione, sintomo e angoscia e altri scritti, vol. x, Bollati Boringhieri, Torino 1989, p. 181.), ma, in qualche modo, ogni funzione sociale stabilita è segnata dalla dimensione dell’impossibile. Ciascuna delle nostre funzioni, non solo rivela la sua inclinazione all’impossibile, ma esiste probabilmente solo per il fatto di istituire un compito fondamentalmente irrealizzabile. Ogni sapere che organizza la nostra attività non si fonda di meno su questa dimensione dell’impossibile. Tale registro, quando si presenta nella produzione delirante, ha il merito di sorprenderci per il suo carattere manifestamente smisurato, ma, se accettiamo di prestargli un po’ di attenzione, rivela anche il nostro indefesso attaccamento ai compiti impossibili.

Questa costruzione propria a ciascuno, che riposa su un certo numero di termini la cui funzione è di assicurarne l’ancoraggio, come anche di situare gli scopi essenziali nell’esistenza di ciascuno, non assume tuttavia la propria consistenza se non urtando il registro dell’impossibile, che costituisce la sola garanzia della sua conservazione così come del suo rinnovamento 

Il discorso delirante si rivela così ricco di sorprese e di occasioni che ci permettono d’imparare qualcosa sulla funzione che il sapere ha per ciascuno di noi. Se Sigmund Freud ha definito la clinica della follia come un «inconscio a cielo aperto», è perché svela la struttura di un sapere che resta di solito opaco per noi. Questo sapere si rivela una costruzione linguistica essenziale perché costituisce il nostro filtro obbligato per leggere il mondo che ci circonda. Questa costruzione propria a ciascuno, che riposa su un certo numero di termini la cui funzione è di assicurarne l’ancoraggio, come anche di situare gli scopi essenziali nell’esistenza di ciascuno, non assume tuttavia la propria consistenza se non urtando il registro dell’impossibile, che costituisce la sola garanzia della sua conservazione così come del suo rinnovamento.
Dobbiamo infine notare la nostra difficoltà a trarre conclusioni sul tema del sapere, poiché quello che la costruzione delirante ci mostra è un sapere che, anche se si presenta come certezza, mantiene la propria funzione solo reinventandosi costantemente. La stessa scienza non ci mostra forse un sapere che sa rimettersi continuamente in questione, che ci mantiene all’erta solo rinnovandosi incessantemente senza speranza di chiudersi mai su se stesso? Mi auguro quindi, senza giungere a conclusioni, che tener conto di queste poche osservazioni possa permettere a ciascuno di misurare, non solo il valore di questo sapere “non saputo” (fr. insu) su noi stessi che Freud aveva chiamato inconscio, ma anche di avvicinare con maggiore tolleranza e interesse le forme con cui esso organizza ciascuna esistenza in un modo sempre singolare.

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