Un Focus su Stefano Rodotà, il suo magistero e la sua eredità, tra il «terribile diritto», la materia giuridica come azione di «guerriglia» e i beni comuni.
Un sintagma strepitoso
Stefano Rodotà e i beni comuni
Ho incontrato Stefano Rodotà, per l’ultima volta, il 22 dicembre 2016, a Roma: mi accolse a casa sua, dove l’avevo raggiunto per consegnargli la mia monografia dedicata alla Non-proprietà e pubblicata nello stesso mese. Prima di raggiungerlo, avevo titubato molto nel comporre le poche righe che avrebbero accompagnato il mio dono, per scegliere, alla fine, una dedica in cui ricerca e impegno politico potessero essere entrambi presenti, nella convinzione che i due profili fossero i tratti che più accomunavano la mia formazione, sotto la guida di Ugo Mattei, con gli insegnamenti del Professore.
In effetti, durante la nostra chiacchierata di dicembre, aneddoti accademici, interessi di ricerca (Stefano rifletteva, cogliendo ancora una volta le sfide più urgenti del diritto civile, sulla necessità di ripensare il rapporto tra contratto e negozio) e passione politica si mescolarono continuamente; il professore continuava a reputare insufficiente l’offerta politica esistente e aveva intenzione, per questo, di buttare giù poche righe per riaprire una discussione e mettere in circolo nuove idee. Porto con me il ricordo di quel pomeriggio e, con esso, quello di una calda giornata di luglio 2015 quando Ugo Mattei, facendomi un grande regalo, mi disse di tenere compagnia a Stefano per tutta la giornata del Festival chierese dei Beni Comuni presso cui il professore doveva intervenire. Molte chiacchiere, un pranzo con Antonio Negri, una lunga cena alla fine di una giornata sfiancante di cui Stefano non sembrava ancora stanco: mangiava di gusto, chiacchierava amabilmente, lasciando senza parole noi più giovani che eravamo con lui.
Stefano Rodotà è stato il maestro di più generazioni; io appartengo a una di queste e, in particolare, a un gruppo di studiose e studiosi di diritto che sono cresciuti all’epoca dei beni comuni, un percorso giuridico e politico che non poteva non segnare il nostro punto di vista. Ricorderemo sempre la Commissione Rodotà, sebbene il professore preferisse l’espressione «cosiddetta Rodotà» per significare un lavoro e uno sforzo che erano stati collettivi: la ricorderemo perché i beni comuni sono stati un sintagma strepitoso con cui forzare le categorie del diritto esistente – la proprietà, il contratto, la necessità di una analisi ecologica delle istituzioni giuridiche – senza rinunciare a osservare la realtà politica in cui, per forza di cosa, siamo immersi.
Una generazione di ricercatrici e ricercatori precari aveva e ha bisogno di trasformare in dispositivi giuridici il messaggio politico del 99%; cresciuti negli anni delle grandi dismissioni del patrimonio pubblico, non potevamo che cercare nuove istituzioni della solidarietà che difendessero i beni comuni ripensando la partecipazione e la rappresentanza. Stefano Rodotà è stato un maestro generoso, che amava ascoltare e dialogare, in modo discreto e sempre acuto. Per queste ragione e per molte altre, a me e a tanti altri pareva il Presidente della Repubblica che volevamo provare a costruire ed è per questo che alcune frasi – dall’ottuagenario riabilitato dal web di Beppe Grillo al cognato di Fassina – oggi ci sembrano ancora più dolorose perché pronunciate da chi si candida – indirettamente o direttamente – a essere classe dirigente del nostro paese.
Il professore Rodotà ci ha insegnato a non essere supponenti e a essere sempre disponibili, pronti a misurare i nostri studi con i bisogni delle persone. Si tratta di un monito rivolto a tutti e soprattutto ai giuristi, troppo spesso chiusi in torri di avorio, dimentichi di essere scienziati sociali. I beni comuni, il diritto all’acqua, le disobbedienze proprietarie, il grande conflitto tra esclusione e inclusione, il retroterra non proprietario sono parte della mia formazione anche grazie a Stefano Rodotà.
Quando ci siamo salutati, in quella calda giornata di luglio, ho accompagnato il professore all’ingresso del concerto di Caetano Veloso e Gilberto Gil; gli dissi che non lo avrei seguito oltre e mi rispose «Dottoressa, e se non mi fanno entrare?» Sorridendo, gli risposi scherzando: «Professore, può sempre dire: lei non sa chi sono io!». Stefano rise e si schermì bonariamente, circondato da un affetto che non era solo il mio, ma apparteneva a quanti avevamo amato il suo grande impegno civile e politico. Lo hanno detto in tanti: Stefano Rodotà ci mancherà. Speriamo di essere all’altezza di tutti i suoi preziosi insegnamenti.
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