Caute scalate
Balzac e Dostoevskij tra capitalismo e potenza del «non»
Con l’età il fiato si perde. Mi sembra inverosimile essermi inerpicato per anni sulle le ripide piole di Urbino o, ancora poco fa, sbrigato un’ascensione a freccia dall’alberata riva del Darro alla spoglia sommità del Sacromonte, per non sfigurare davanti al nipote erasmiano cui nel frattempo somministravo, in vista di un esame, sintetiche nozioni sul secolo breve. Allo stesso modo, diventa faticoso misurarsi con romanzi e poesie contemporanee e uno ripiega a rileggere i classici, cercando di scovare quanto gli era sfuggito nelle frenetiche incursioni dell’adolescenza. Così, usando i tempi vuoti dell’estate, mi sono rivolto a due notevoli scrittori d’appendice, scrocconi e prolifici a cottimo, perennemente indebitati e pure controrivoluzionari: il legittimista Balzac e il calunniatore dei naròdniki Dostoevskij. Qualche piccola sorpresa, magari è ignoranza mia della copiosa letteratura critica che di certo mi avrà preceduto.
Balzac, un visionario post-industriale
Non è proprio una novità scoprire che sotto il policromo affresco dell’aristocrazia e del sottobosco parigino il «realista» Balzac abbia delineato i rapporti di classe della Francia e l’ascesa irresistibile della borghesia nella prima metà dell’Ottocento – inutile ricordare Marx, Engels, Lukács. Più sottile constatare – con l’esperienza possibile solo oggi – che il Nostro non solo abbia colto il declino inevitabile di un vecchio mondo rimpianto a favore di un presente più avido e rozzo ma anche anticipato – e qui sta la sorpresa – alcuni tratti che si sarebbero svelati molto più tardi, dopo il trionfo della borghesia industriale e produttiva di cui aveva orrore.
Fabbricanti e commercianti, artigiani in ascesa e accorti risparmiatori, contadini inurbati e speculatori di borsa non mancano certo nella Comédie humaine. Nei limiti, beninteso, di una società capitalistica arretrata rispetto al prototipo inglese e persino rispetto agli emergenti Usa (peraltro ancora non scoperti da Tocqueville). La centralità di banchieri e usurai (i Nucingen, i Gobseck – tedeschi o ebrei) convaliderebbe l’ipotesi di una descrizione realistica di un capitalismo ancora immaturo, così come l’ossessione nell’acquisto di quote del debito pubblico. Idem per la ricca tipologia di avventurieri, criminali, vittime e speculatori del gioco d’azzardo. Balzac stesso aveva sperimentato le più fantastiche e fallimentari start-up per far denaro (piantagioni di ananas a Sèvres, di oppio in Corsica, riattivazione di miniere abbandonate in Sardegna), ripiegando poi sul farsi mantenere da donne più anziane. Tuttavia…
Tuttavia Balzac, il «visionario», presagisce la linea di tendenza di un capitalismo post-industriale: la finanziarizzazione, il carattere esemplare del lavoro intellettuale e dell’industria culturale, il ruolo pervasivo della criminalità negli affari. Nucingen, Lucien de Rubempré, Vautrin. La centralità del denaro come potenza astratta (l’accumulazione ma ancor più la speculazione, di cui il gioco d’azzardo, raro vizio assente nell’autore, è l’epifenomeno, la messa in scena parodistica e il veicolo della rovina della classe aristocratica), l’influenza sociale dell’editoria e del giornalismo, che fanno mercato delle idee e delle notizie con un minimo di investimento economico, la commistione fra delitto e denaro, l’intima complicità fra delinquenza e polizia. Nel ciclo delle Illusioni perdute e di Splendori e miserie delle cortigiane, la cultura è un mezzo di produzione, anzi l’archetipo di tutte le operazioni capitalistiche. L’arte è gettata sul mercato, non costituisce affatto un riscatto (la dostoevskiana bellezza che salverà il mondo) o la tara segreta dell’economia, il Thanatos dell’Eros accumulativo (come in Thomas Mann). Questa funzione di malattia e disvelamento è piuttosto affidata, in continuità con la tradizione proto-romantica e sacrificale (la Julie della russoviana Nouvelle Héloïse), alle donne, al martirio di Coralie e di Esther (l’attrice e la nipote di Gobsek), con tutti i canoni rispettivi della bohème e dell’orientalismo. Oppure al passaggio dalla potenza del denaro al fascino mondano (le figlie di Nucingen), con il loro correlato «redentore» di infelicità femminile. Il denaro è affare maschile, quindi motore sociale; il sentimento (tutto femminile) è il supplemento che consente la circolazione sociale, con una distribuzione gerarchica dei ruoli emotivi comprensivo perfino dell’omosessualità (velata) maschile e femminile – il segreto di Vautrin, Paquita, la ragazza dagli occhi dorati. Teatro e prostituzione (il giornalismo partecipa di entrambi) sono metafore adeguate del processo e vi rientrano appieno le mascherate di Vautrin, finalizzate al crimine ma ispirate da genuina passione. Alla fine della sua vita, nel 1843, Balzac non manca di recarsi a Pietroburgo, per agganciare la contessa Hańska. Alloggiò in un bel palazzo sulla via dei Milionari, ma non ebbe occasione di incontrare Dostoevskij, che in quell’anno aveva rinunciato alla carriera di ufficiale del Genio e cominciato a scrivere il suo primo racconto.
Dostoevskij e la potenza di non
I personaggi dei romanzi di Dostoevskij si muovono ossessivamente in un quadrilatero irregolare definito sui lati lunghi dalla Mojka e dalla Fontanka, su quelli brevi dal Canale Krjukov e dal Nevskij Prospèkt, tagliato dal Canale Griboedov e al cui centro si apre la Sènnaja Ploščad’ – la piazza del Fieno, l’unico spiazzo irriconoscibile in un quartiere grigio ancora infestato dai fantasmi dello scrittore, che qui cambiò venti abitazioni, ogni volta senza saldare il conto con il locatore. Solo l’ultima, oggi casa-museo, sta poco a sud della Fontanka. Si trattò sempre di case angolari, poste su un crocevia, perfettamente esprimendo l’ambivalenza fra una miseria materializzata in quel settore della Pietroburgo popolare di caserme d’affitto e bettole e le ossessive «idee» dei suoi eroi: sottosuolo e risentimento, canale di scolo delle turpitudini urbane come il Griboedov, malgrado i suoi magnifici ponti. I protagonisti dei suoi romanzi evitano con cura il teatro dell’illusione e delle frustranti fantasmagorie – il Nevskij Prospèkt di Gogol e Belyi (piuttosto villeggiano a Pavlovsk, come gli aristocratici e il demi-monde dell’Idiota) – e ne escono solo per fuggevoli incursioni in aree ancora più periferiche, oltre la Nevà: la Petrogràdskaja storona o l’isola Vasíl’evskij, metafora della «città premeditata»con la sua toponomastica alfanumerica alla Manhattan.
Case angolari, doppie prospettive. Così l’«idea» di Raskol’nikov è di essere, con il delitto, un nuovo Napoleone (nemico e calamita degli slavofili), quello dell’adolescente Arkadij, figlio illegittimo di Versilov è di «diventare Rothschild»: singolare paradigma per un antisemita viscerale come Dostoevskij, che detesta gli ebreucci come i polaccuzzi e gli stranieri infranciosati, ma ammira il potere finanziario allo stato puro, trascendente. Per dirla con le parole del banchiere Nucingen (parodia balzacchiana di Rothschild), «il denaro è una potenza solo quando è in quantità sproporzionate».
La potenza non è il fine ultimo di Arkadij ma un mezzo per conseguire l’isolamento oppure qualcosa in simbiosi totale con esso, circonfuso di un alone di segretezza. Il denaro, per la sua forza livellatrice, è potenza dispotica e strumento di radicale eguaglianza, ma il ragazzo non vorrebbe mai usarla per vendicarsi, per riscattare la sua condizione inferiore di bastardo. «Non temo il denaro; esso non mi opprimerà e non mi farà opprimere gli altri; il denaro non mi occorre… e neppure la potenza, ma quello che la potenza procura e che non è possibile senza essa: l’isolamento e una tranquilla consapevolezza della propria forza», in cui consiste la vera libertà. È ossessionato dall’idea «di diventare Rothschild (…) non semplicemente ricco, ma ricco come Rothschild (…): la mia norma principale sarà di non rischiare nulla e la seconda di guadagnare a ogni costo e ogni giorno qualche cosa oltre a quel che spendo per mantenermi, affinché non passi un solo giorno senza ch’io accumuli denaro». Un rigoroso allenamento al digiuno e al risparmio finalizzato all’accumulazione di potenza – Nietzsche se ne ricorderà! – senza mai arrivare a godere del risultato o peggio ad ostentarlo: «se fossi Rothschild, andrei vestito d’un vecchio cappotto e con un ombrellaccio. Che mi importerebbe se mi urtassero per strada (…) La coscienza d’essere Rothschild mi metterebbe anzi di buon umore». Il Rothschild ideale godrebbe dell’idea di poter avere cibi squisiti e l’amore delle donne più voluttuose senza farne uso, godendo proprio della rinuncia sdegnosa a questa possibilità. Altrettanto avverrebbe per la vendetta delle offese subite: delizioso farsi insultare in incognito, senza che gli offensori sappiano con chi hanno a che fare. Il punto d’arrivo è il mendicante morto sul piroscafo, che sotto gli stracci nasconde immense ricchezze. L’ascesi e il travestimento che separa dagli altri uomini per invisibilità.
Paradossalmente quell’esercizio ascetico di volontà equivale all’illusione di poter domare la brutalità del caso cieco con la forza di volontà al tavolo della roulette: come è noto, Dostoevskij si identificò con le fantasie del suo personaggio solo nella seconda versione e fu poco assistito dalla fortuna.
La fonte trasparente dell’«idea» è la rêverie russoviana della VI Promenade, quando Jean-Jacques fantastica che sarebbe stato il migliore e più clemente degli uomini se fosse stato il più potente, fino a estinguere ogni desiderio di vendetta sugli uomini che lo hanno perseguitato e che ora vorrebbe fuggire più che odiare. Se il suo aspetto fosse sconosciuto agli uomini, come lo è il suo carattere, potrebbe esercitare una fredda e disinteressata benevolenza universale: «Si j’eusse été invisible et tout-puissant comme Dieu, j’aurois été bienfaisant et bon comme lui. C’est la force et la liberté qui font les excellents hommes. La faiblesse et l’esclavage n’ont jamais fait que des méchants. Si j’eusse été possesseur de l’anneau de Gygès, il m’eût tiré de la dépendance des hommes et les eût mis dans la mienne». Che uso avrebbe fatto dell’anello magico? Un potere così smisurato indurrebbe all’abuso. Ma il buon Jean-Jacques si limiterebbe a esercitare clemenza e giustizia, a distribuire felicità condendola al massimo con qualche scherzo e prodigio. Unico rischio sarebbero state le tentazioni femminili (Rousseau non è così prude come il pedofilo Dostoevskij) e, tutto sommato, sarebbe forse meglio buttar via l’anello ed evitare le seduzioni di una potenza per invisibilità.
L’«idea» – con la sua sproporzione fra miseria reale (di Arkadij) o persecuzioni presunte (di Jean-Jacques) e sogni di potenza – è precisamente una fantasia di risentimento e questo carattere si manifesta nell’evocare una potenza impotente, una potenza di non fare, di trattenersi dal suo esercizio e di dissimularsi. Morire sconosciuti o gettare l’anello. Un eccesso di reattività, ancorato nell’algolagnia russoviana e nell’estasi temporale dell’epilessia dostoevskiana – tutto l’opposto della bulimia vitalistica di Balzac.
Viene da pensare – e prendiamo ora congedo da Fëdor Michajlovič – che l’orrore per il nichilismo e l’anarchia siano un’identificazione profonda e disperata con il nemico più che un genuino spirito controrivoluzionario. I suoi eroi sono i paladini di un potere destituente, che fallisce quando rinuncia alla rinuncia. L’«idea» realizzata (la potenza che passa all’atto) viene redenta soltanto dal senso di colpa. Il cerchio si chiude sul ressentiment e lo stesso Nietzsche sapeva in profondità di stare impigliato nel sottosuolo di un autore così amorevolmente schedato.
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