Il mestiere di scrivere
Feconde corrispondenze d'amore
So che le mie frasi sono primarie scrivo con troppo amore nei loro confronti e questo amore compensa i difetti, ma troppo amore nuoce al lavoro
Clarice Lispector1
«Scrivere è un atto pubblico. Si scrive per esprimersi e per dare risonanza, perché un’altra possa esprimersi e dare risonanza»2. Partire da questa frase, tratta dal testo La presenza dell’uomo nel femminismo di Carla Lonzi, Marta Lonzi e Anna Jaquinta, mi consente di insistere su un problema urgente della contemporaneità. Mi riferisco al tema della «vita messa al lavoro», ovvero estrazione di vita, sussunzione vitale3, processo che implica, nel suo compiersi, l’imposizione a essere sempre più intensamente parte della macchina invisibile della ri-produzione sociale invisibile poiché «i processi di digitalizzazione fanno scomparire tutta una serie di attività che noi facciamo ma che non lasciano tracce monetarie»4. Esiste una diffusa mancanza di consapevolezza nei confronti delle forme di attività, in aumento, che implicano un uso di vita (vale a dire tempo) senza che ci sia scambio (vale a dire denaro), con un incremento spettacolare dell’accumulazione. Si è interiorizzato un fare perenne, quasi che i compiti assegnati dall’economia della promessa possano validare il significato stesso dell’esistenza, a danno, o a perdita, della ricerca del senso di sé e del contatto con ciò che ci circonda.
In questi anni si è indagato molto su questi meccanismi perversi, di obbligata concentrazione sul self branding individuale, che colonizzano gli affetti, rischiando di svuotare le comunità politiche. In particolare sull’atto dello scrivere e sulla centralità imperante dell’autore si sono sollevate da tempo domande straordinariamente importanti e assai qualificate. Proprio nell’era dell’intelletto generale, «scrivere» è poco più che un prodotto, avviluppato in una supposta mistica trascendente, zavorrata da misurazioni Anvur e codici Issn, numero di followers e numero di like, che complicano il cammino verso la presunta ascesa ma consentono di solleticare concorrenza e rivalità. Ci si allontana dalla materia vivente, senza un passato, senza confronti, non pensando alla creazione di risonanza e rispecchiamenti tra soggetti, relazioni tra persone e istituti collettivi («chi scrive e per chi?»). Nella miseria, reale e metaforica, sembra maturare una presunzione soggettiva che impedisce di vedere l’altra, gli altri, si nutre di simboli egotici e finisce per svuotare ogni comunità. Costrette e costretti a essere individualisti, estenuati dalla necessità di procurarsi reddito, si soffre tuttavia di una carestia relazionale e sociale che rende più difficile la capacità di percepirsi, di individuarsi. Tutto ciò espone all’integrazione reazionaria di ciascuno nell’apparato del potere, generando il paradosso di un individuo assoluto (absolutus) ma affatto libero. La scrittura, l’arte, la creazione sono allora una vera e propria merce.
Ognun_ è solo nel cuore di fb
Nel Manifesto di rivolta femminile, si dedicano queste parole al lavoro: «Detestiamo i meccanismi della competitività e del ricatto che viene esercitato nel mondo dall’egemonia dell’efficienza […] Dare alto valore ai momenti «improduttivi» è un’estensione di vita proposto dalla donna»5. In questa ricerca di estensione di vita che deve dare il più ampio risalto ai momenti improduttivi abbiamo la sintesi del problema dell’oggi. Nel momento in cui assistiamo al traslare degli aspetti relazionali, emotivi, affettivi, corporei nel campo della produzione, essa finisce per non appartenere più a me, ma per appartenere «alle condizioni di produzione personificate», ossia al capitale6. Accade allora di osservare quanta paradossale insignificanza rischino proprio di assumere la vita, il vivere, le relazioni, qualora manchi capacità/possibilità di essere davvero in modo politicamente attivo, presente, autentico, all’interno di tali campi. Per poter essere viste e visti – che è imperativo del capitalismo biocognitivo/relazionale contemporaneo – finiamo per rischiare di veder assimilare gli ambiti relativi all’esistere a un prodotto, a una merce, oggettivata, alienata, metafisica, a noi paradossalmente estranea. Finiamo per scrivere ma senza poter realmente vivere, vivendo la vita e sognando il sogno del capitale. Il «lavoro intellettuale» tende a esasperare i collegamenti tra essere e attività, producendo assuefazione al lavoro, antropomorfizzando il lavoro, ovvero il capitale. Per fare un esempio, la collaboratrice Simonelli, lavoratrice cognitiva descritta dal piccolo libro Simonelli di Massimo Pizzingrilli, non può astenersi «dall’adempimento indefinito dei propri compiti», e ciò sistematicamente avvicina alla produzione e allontana da sé stessi, «il posto di lavoro tende a supplire il lavoratore, o meglio la sua posizione di essere»7. Il termine indefinito non è usato a caso ed evoca il dilagare di atti lavorativi nella vita e della vita negli atti lavorativi, il capitale tende a sussumere la vita, ovvero a «morirla dentro di sé».
Lo scrittore Roberto Bolaño, qualche anno fa ebbe a dire in un intervista, ripresa in Italia già dopo la sua morte: «Se vincessi quattrocento milioni alla lotteria, vedrebbero. La smetterei con la scrittura. Scriverei solo poesia, quattro o cinque poesie perfette, questo sì. Vivere è un miracolo irripetibile e scrivere, invece, è abbastanza una merda»8. Michel Foucault ha in più occasioni affermato l’impossibilità di una funzione sovversiva e di autentica trasgressione della scrittura all’interno del mondo contemporaneo, dal momento che essa è stata completamente recuperata all’interno del sistema borghese-capitalista. Ne L’ordine del discorso Foucault paragona la «scrittura» ad una forma di assoggettamento. Potremmo ricordare ciò che diceva Deleuze a proposito del marketing intellettuale, a proposito della giornalizzazione della funzione-autore.
L’individualismo illimitato che sottostà alla figura dell’autore – colui che scrive, che produce un’opera, colui che emerge perché «creativo» – viene sollecitato all’infinito, tecnica utile a sconquassare il senso dei legami sociali. Che cosa è questa se non la più perfetta estrinsecazione del regime di biopolitica con i suoi dispositivi che dilagano e pretendono di dare forma alle vite? Nel frattempo l’Io si fa minimo9, fragilissimo, dipendente dall’approvazione, controllato, profondamente preda del conformismo. L’Io si contrae, diventa un nucleo difensivo, all’interno di una vita a-sociale ma comunitarizzata, secondo le parole di un recente libro di Lelio Demichelis, «ciascuno isolato ma connesso e integrato (soprattutto attraverso i social) con individui altrettanto a-sociali de-socializzati»10.
Il paradosso contemporaneo rischia insomma di essere quello di una vita progressivamente alienata, espropriata, estraniata da chi la vive. Performiamo la nostra esistenza e la documentiamo, passo passo, ad uso del capitalismo antropomorfo che ne trae dati profittevoli. Il mio corpo rischia allora, in questo modo, di divenire corpo del capitale. Un corpo-macchina all’interno di una «economia carnivora»11, mentre gli altri sono solo fattore di paura e di ansia. Un processo perfettamente descritto da Jason Read: «Il lavoro è sempre più interiorizzato sia come potenza astratta che come mansione concreta, è privato della sua determinazione sociale per diventare una qualità naturale. Il lavoro, non solo la capacità fisica, ma la disponibilità sociale, affettiva e mentale a lavorare, è diventato una seconda natura che cancella la prima»12. Tutto si aggira attorno al tema del riconoscimento, al tema della validazione sociale, ai temi del talento e del merito Le tecnologie governamentali del presente fanno volutamente crescere e fallire, all’infinito, il desiderio di riconoscimento consentito dal lavoro. Il senso di tutto ciò (come il salario) è permanentemente mancante, continuamente rimandato. «La produzione della produzione, scrive ancora Massimo Pizzingrilli, ipertrofia della attività produttiva nell’epoca del lavoro immateriale non è altro che un supplemento strabordante»13. Il rimpiazzo è il tratto costitutivo del lavoro contemporaneo, l’apoteosi della alienazione.
La scrittura e il femminismo
Non si tratta, ovviamente, di smettere di scrivere, o di essere creativi, ma di capire, riprendendo Tiziana Villani, che la creatività è una «pratica di verità» che richiede sempre scambio, «in una circolarità capace di comprendere i desideri e le differenze»14. Ai giorni nostri proprio l’artista, «in quanto incarnazione della libertà di creare, è diventato […] il paradigma del «capitale umano» e del lavoro cognitivo diffuso»15. Carla Lonzi ha segnalato con anticipo questa distanza, comprendendo l’alienazione dell’artista e la necessità di smarcarsi da tale dinamica poiché la creatività, che è una pratica liberatoria, nel mondo capitalista maschile diventa una lotta, «il Lavoro come Lotta»16.
In una intervista recente pubblicata su Vice France è stato chiesto a Dj Sprinkles se i Dj fossero «lavoratori alienati». Ha risposto: «Gli artisti sono le figure emblematiche del capitalismo, è la nostra funzione di propaganda […] va contestato questo mito della passione per la professione, e ricordato che anche noi dobbiamo affrontare problemi reali, problemi con i contratti, problemi di salute. Faccio questo lavoro solo per necessità economiche, perché lo odio un po’ meno di un lavoro d’ufficio, o di qualsiasi altro modo orribile con cui guadagnarmi da vivere date le mie attuali competenze». Allora, per non acconsentire di essere trasformati in capitale disumano17, «il monito in questione ci serve a ridefinire una cornice: la singolarità, l’inesauribile facoltà individuale di ciascuno è facoltà in comune»18. Su che cosa sputiamo, allora? Una volta di più, come già è stato indicato, sulla funzione-autore, sulla fragile celebrità normativa che ne deriva, continuamente da confermarsi, da alimentarsi, da reiterarsi, ché il meccanismo prevede la possibile, continua, sparizione e in questa corsa, in continua competizione con altre e altri, si ottunde ogni capacità reale di connettersi con il mondo circostante.
Maria Luisa Boccia ricorda una frase centrale tratta dai diari di Carla Lonzi: Lonzi dice «la cura con cui ho vissuto»19. Ciò significa rivendicare il primato degli essere umani, delle loro relazioni delle loro esistenze sulle opere, sui prodotti. Si affaccia alla mente anche Clarice Lispector: «Questa è la vita vista dalla vita […] Se qui devo usarti parole, esse devono avere un senso quasi solo corporeo, e io sono in lotta con la loro vibrazione ultima»20, mentre Ingeborg Bachmann parla di una «scrittura praticata» e Lea Melandri di una «memoria del corpo» nella scrittura d’esperienza. Ispirano anche le parole di Daniela Pellegrini: «Questi scritti dicono poco di quello che ci sarebbe da dire se si volesse scrivere invece di vivere»21. La carenza di realtà genera un vuoto dell’anima che può essere riempito non dalla trascendenza maschile ma da una diversa espressione nel campo della significazione22.
Non può essere dimenticato, certo, che la società patriarcale e gerarchica ha fatto sparire per millenni l’espressione letteraria femminile. Tuttavia, vale la pena di ripetere: live first, write later. Riprendersi la vita e cioè riprendersi anche la lotta, rompere i blocchi egoisti del Lavoro come Lotta, del Lavoro per il Lavoro, anche in relazione alla generalizzazione della gratuità del lavoro nella generalizzazione del plusvalore sociale che ingloba il valore d’uso, tramutandolo in valore di scambio. Questo deve voler dire scardinare gli assi di un sistema produttivo che – nutrendo gli immaginari, generando miti, minando la cultura politica per fare prevalere la dominante ideologica – pretende di corrispondere al sistema di vita stesso, addirittura di sostituirsi ad esso.
Vulnerabilità, sensibilità, comune
La possibilità di correggere le patologie di fronte alle quali ci troviamo passa dunque dalla ammissione definitiva della nostra transitorietà: viviamo, siamo impermanenti, vulnerabili. La Vita è il nuovo vero campo di una Lotta che si ponga all’altezza del presente. Implica un ampliamento della sfera del sentire – indurito e ottuso dalla stramba idea di bastare a se stessi – e dunque implica la necessità di mettersi in relazione. Implica una riappropriazione politico-pratica del corpo e della dimensione riproduttiva di un «sensorio comune» per mezzo del quale è possibile avvicinarsi alla cognizione comune del mondo. La prassi politica va pertanto dedicata alla costruzione di modelli alternativi di soggettività e di collettività, per spezzare le forme della soggettivazione proprietaria. Problematica strettamente connessa con la soggettività del lavoratore e della lavoratrice cognitivi.
Diventiamo usurpabili perché, catturati dalla solitudine dei lavori autonomi, veniamo forzosamente contrapposti le une alle altre, gli uni agli altri dalla società della prestazione23. Tuttavia, esiste sempre una forza che spinge le singolarità a coalizzarsi e a cooperare. Puntare a una praticabilità della vita, come la definiva Lucia Bertell, a «un’istanza soggettiva e individuale (non individualista) che diventa comunitaria e collettiva proprio nel suo processo di praticabilità»24. Esempi come quello di Riace, oppure l’attivazione di progetti concreti, come quello della nave Mediterranea, rilanciano l’idea che si possa prescindere dai dettami neoliberali del potere costituito e dalle sue snervate istituzioni, mentre il movimento femminista Non Una di meno ha rappresentato una straordinaria palestra di soggettivazione politica per una intera generazione di giovani donne.
I femminismi contemporanei possono incarnare, sempre più e sempre meglio, una nuova capacità immaginativa di fare insieme, di fare commoning, di Commonfare e di forme della produzione del comune, di forme di istituzione del comune. Incarnare immaginazioni, costruzioni di desiderio e non prigioni e punizioni. «L’utopia del corpo, inscindibilmente congiunta a quella del comune, costituisce, in ogni dimensione alienata, in ogni dimensione in cui l’essere umano sia preda di potenze estranee, uno strumento impareggiabile di denuncia e nello stesso tempo uno dei più potenti stimoli per superare una società in cui la repressione rischia di farsi totale»25. Tutto sembra indicare che si può, ancora, trovare quella radice irrinunciabile di reciprocità sulla quale si fonda l’amore, producendo, da qui in poi, non sterili agonismi ma feconde corrispondenze d’amore.
Testo tratto dall’intervento svolto al Festival Women Out of Joint, Galleria di arte moderna e contemporanea, 28-30 settembre 2018, Roma
Note
↩1 | C. Lispector, Acqua viva, Adelphi, 2017, p. 12 |
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↩2 | M. Lonzi, A. Jaquinta, C. Lonzi, La presenza dell’uomo nel femminismo, Scritti di Rivolta Femminile, , 1978, p. 137 |
↩3 | A. Fumagalli, L’economia politica del comune. Sfruttamento e sussunzione nel capitalismo bio-cognitivo, DeriveApprodi, 2017 |
↩4 | C. Marazzi, Il paradosso della produttività, TYSM Magazine, Philosophy and Social Criticism, 2 ottobre 2018 http://tysm.org/il-paradosso-della-produttivita/ |
↩5 | Manifesto di Rivolta Femminile, in Scritti di Rivolta Femminile, 1974, pag. 15 |
↩6 | K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, II vol., La nuova Italia, 1970, pag. 575 |
↩7 | M. Pizzingrilli, Simonelli, Quodlibet, 2009, pag. 29 |
↩8 | Una intervista inedita a Roberto Bolaño, a cura di Giorgia Esposito. Traduzione dell’intervista, pubblicata nel settembre 1999 sulla rivista spagnola Qué leer, di Óscar López a Roberto Bolaño, Minima&Moralia, 15 ottobre 2015, http://www.minimaetmoralia.it/wp/intervista-inedita-roberto-bolano/ |
↩9 | C. Lasch, L’Io Minimo, Feltrinelli, 2004 |
↩10 | L. Demichelis, La grande Alienazione. Narciso, Pigmalione, Prometeo e il tecno-capitalismo, Jaca Book, 2018, pag. 14 |
↩11 | C. Marrapodi in M. Pizzingrilli, cit., pag.39 |
↩12 | J. Read, Organi coscienti. Verso una antropologia della forza lavoro, pubblicato su Unemployed Negativity traduzione di Giasone Leggo per Commonware, http://commonware.org/index.php/cartografia/858-organi-coscienti-verso-un-antropologia-della-forza-lavoro |
↩13 | M. Pizzingrilli, cit., pag. 29 |
↩14 | T. Villani (a cura di), Simone de Beauvoir. La donna e la creatività, Mimesis, 1993, pag. 17 |
↩15 | N. Martino, «Oltre il museo e la funzione autore», in G. De Finis (a cura di) MAAM-Museo dell’Altro e dell’Altrove di Metropoliz_città meticcia, Edizioni Bordeaux, Roma 2016, vedi anche Doppiozero, 27 maggio 2017, https://www.doppiozero.com/materiali/oltre-il-museo-e-la-funzione-autore |
↩16 | C. Lonzi, Sputiamo su Hegel, in Scritti di rivolta femminile, Rivolta Femminile, 1974, pag. 51 |
↩17 | R.Ciccarelli, Capitale Disumano. La vita in alternanza scuola lavoro, Manifestolibri, 2018 |
↩18 | N. Martino e I. Bussoni, Verso una nuova etica del lavoro culturale: da Bianciardi alla bohème e ritorno, Effimera, 21 settembre 2015 http://effimera.org/verso-una-nuova-etica-del-lavoro-culturale-da-bianciardi-alla-boheme-e-ritorno-di-nicolas-martino-e-ilaria-bussoni/ |
↩19 | M. Boccia, L’Io in rivolta, Tartaruga Edizioni, 1990, p. 29 |
↩20 | C. Lispector, Acqua viva, cit., pag. 11 e pag.14 |
↩21 | D. Pellegrini, Una donna di troppo. Storia di una vita politica «singolare», Franco Angeli, 2012, p. 13 |
↩22 | G. Cesarano, I giorni del dissenso. Diari del Sessantotto, Castelvecchi, Milano 2018, p. 161 |
↩23 | F. Chicchi e A. Simone, La società della prestazione, Ediesse, 2017 |
↩24 | L. Bertell, Lavoro ecoautonomo. Dalla sostenibilità del lavoro alla praticabilità della vita, Eléuthera, p. 117 |
↩25 | L. Parinetto, Corpo e rivoluzione in Marx. Morte, diavolo, analità, Mimesis, 2015, p. 126 |
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