L’arte del conflitto

Teoria del lavoro reputazionale

Claire Fontaine STRIKE (K. font V.III) 2005 2007 (2000x1500)
Claire Fontaine, STRIKE (K. font V.III) 2005/2007.

Teoria del lavoro reputazionale è il titolo del nuovo saggio di Vincenzo Estremo, appena uscito per Milieu Edizioni. Il saggio propone un’analisi delle trasformazioni del lavoro contemporaneo a partire dalle caratteristiche del lavoro artistico diventato paradigma del lavoro in generale (questo è anche uno degli assunti sul quale si basa il manifesto di fondazione di questa rivista). Per l’occasione proponiamo un’intervista di Elvira Vannini all’autore. 

Elvira Vannini: Nella società capitalistica si produce tempo libero per una classe trasformando in tempo di lavoro tutto il tempo di vita delle masse: inizi la tua riflessione con la questione della temporalità, a partire da un’analisi marxiana del tempo libero, per arrivare all’espropriazione del tempo libero nella società transestetica: perché collegare il tempo libero al «cattivo esempio dell’arte»?

Vincenzo Estremo: Se negli ultimi tempi molti lavoratori si sono ritrovati a fare i conti con il fiato corto dello smart working, per chi lavora nell’ambito dell’arte contemporanea quella sensazione di indistinta occupazione del proprio tempo non è di certo una novità. Il tempo dell’arte è un tempo che non ha fine e se sono diversi i fattori che contribuiscono a far sì che non vi sia una vera e propria distinzione tra il tempo della vita e quello del lavoro, l’aver interiorizzato (incarnato) il proprio lavoro è sicuramente il motivo scatenante di questa subdola forma di sfruttamento. Questo è un discorso complesso e come sempre, quando si parla di arte, i paradossi e le contraddizioni sono parte integrante del discorso stesso. Infatti, se un da un lato la trasversalità dell’arte ha parzialmente realizzano il disegno di Marx ed Engels sul tempo libero – ne L’ideologia tedesca (1846) Marx ed Engels sostenevano una visione organica di «libertà» dal lavoro, qualcosa di diverso dall’intervallo dalla vita attiva e più vicino a una possibilità di crescita personale e consapevolezza collettiva – dall’altro l’arte con la sua indefinibilità e la sua inter-dimensionalità ha definitivamente traghettato i lavoratori nell’oceano dell’auto sfruttamento 7 Eleven, tanto per usare un’espressione idiomatica americana che fa riferimento a una nota catena di minimarket. Per Marx ed Engels il tempo libero non era distaccato o alieno dall’attività̀ del lavoro, perché́ lo concepivano come un impegno diversificato, altrettanto produttivo in quanto in grado di sviluppare interessi e desideri individuali in modo da contribuire al progresso della società̀ stessa. Paradossalmente quello che avviene con l’arte contemporanea sembra essere il soddisfacimento di questa prospettiva da realizzatasi però in ottica liberista e di produzione, in cui l’incognita non data per risolvere l’equazione tempo + lavoro è sempre rintracciabile nell’aumento del tempo e delle risorse dedicate al lavoro. Il tempo libero dell’arte, coincidendo con il tempo del lavoro, è un investimento intellettuale in grado di agire retroattivamente sul tempo dell’occupazione che produce il ricatto dell’occupazione pressoché totale della vita stessa.

EV: Il capitalismo ha avuto proprio nell’artista un modello e un alleato: più volte abbiamo commentato il ruolo dell’arte contemporanea come uno dei principali global player nell’assetto economico capitalistico e le sue retoriche (dell’arte) al servizio dell’accelerazione neoliberale. Con capitalismo artistico non indichi lo svelamento – o la denuncia – di regimi di proprietà e ricchezza ma un vero e proprio modello esemplare di regolamentazione dell’approccio al lavoro, in grado di orientare le passioni e i desideri a proprio vantaggio: cosa intendi per capitalismo artistico?

VE: Sono contento di questa domanda perché mi permette di fugare un primo grande dubbio rispetto al testo. Onestamente non mi interessa la «banalità del male» del mercato dell’arte, ho lavorato qualche anno in una casa d’aste e credo di averne avuto abbastanza, quello che mi interessa è capire come l’arte passi dall’essere oltre che una merce, un sistema mercificante. Proverò ad essere più chiaro, il mercato dell’arte è fondamentalmente un elemento necessario e indispensabile alla vita stessa dell’arte, come sempre accade quando si tratta di mercato, anche questo particolarissimo sistema di scambi ha delle leggi, dei margini e produce un’economia. Ecco l’economia dell’arte a sua volta è resa possibile grazie a un sistema in cui si trovano a vivere e a lavorare i lavoratori dell’arte. Una categoria di lavoratori – una minoranza se consideriamo le marco-aree del lavoro – che negli anni ha accettato e coltivato, in connubio con i «padroni» tutta una serie di strutture e modelli di efficientamento produttivista che non sono passati inosservati nel macro-universo del lavoro tout court. Questa sorta di sperimentazione continua di modelli e di strutture costituiscono il laboratorio in cui si sono coltivate le strategie di un capitalismo sempre più adattivo e mutante. Il processo del capitalismo artistico, infatti, è qualcosa di più di una semplice sovrapposizione tra due ambiti, quello dell’arte e quello del capitalismo ipermoderno. Gilles Lipovetsky e Jean Serroy hanno definito artistico il capitalismo contemporaneo proprio perché riconsidera senza sosta le relazioni tra l’economia e la società, qualcosa che accade quasi per mission nell’arte, e che arricchisce i sistemi economico sociali con una sorta di trans-mutazione continua e senza sosta. Lo spostamento della soglia dello sfruttamento, il ricongiungimento, la deregolazione e l’ibridazione sono caratteristiche principali sia dell’arte che del capitalismo e queste caratteristiche non ricadono solo dall’alto verso il basso, ma mirano a diffondersi orizzontalmente in modo da creare modelli di egemonia trasparenti e contraddittori. L’arte sta insegnando al capitalismo a spostare le responsabilità delle proprie crisi.

EV: Il concetto di sterilità – come ha affermato Christian Marazzi – è interessante nella misura in cui si «trasforma il mondo senza produrre alienazione». La classe creativa, come classe sterile, cristallizza le principali contraddizioni e ingiustizie del capitalismo finanziario di cui è espressione. Il concetto di sterilità, con la doppia istanza trasformativa e di sottrazione, riguarda la possibilità di agire al di fuori del circuito economico come un errore all’interno del sistema, producendo qualcosa di potenzialmente non sfruttabile e se vogliamo rivoluzionario. Cosa emerge rispetto alla composizione di classe del mondo dell’arte?

VE: C’è un problema di classe nell’arte e questo problema è il convitato di pietra a ogni riunione, collettivo, organizzazione e movimento. I lavoratori dell’arte sono necessariamente, per una questione quantitativa, l’espressione o la coda lunga di una ben nota borghesia che ha respirato e interiorizzato l’arte sin da quando Jannis Kounellis gli andava a cena e fumava nel salotto di famiglia. Ovvio che questo non inficia ne vuole stereotipare le istanze di classe dei lavoratori dell’arte, quello che però voglio dire è che sempre più spesso e sempre più lavoratori dell’arte, hanno usato la loro sterilità non come uno strumento di trasformazione ma come espressione di un privilegio. Personalmente credo che la sterilità di cui parla Christian Marazzi sia oramai sterilizzata a sua volta, i lavoratori dell’arte sono, in una società transestetica, dei lavoratori che in questo momento hanno bisogno di trovare nella cassetta degli attrezzi dell’antagonismo dei metodi e modelli per delle alternative e per riconquistare un minimo di potere contrattuale. Purtroppo uno dei punti che viene quasi sempre negato nella discussione post-operaistica e sulla scia lunga della sua influenza artistica sta proprio nell’efficacia delle strategie di sterilizzazione dell’iperproduttivismo capitalistico. Allo stato delle cose dobbiamo accettare di aver perso terreno, di aver ceduto metri alla lotta e di conseguenza dobbiamo ricominciare a conquistare agency. Nel momento in cui lo sciopero viene minato e distrutto dal macrosistema lavorista dell’economia estetica e nel momento in cui la sterilità – se non di massa – diventa un fattore che agevola il turnover di produzione, io credo che sia necessario ripartire dall’organizzazione.

The Cool Couple Space Mats, Eternity (2017) dalla serie Karma Fails, Courtesy MLZ Art Dep, Trieste.

EV: Come rovesciare l’alienazione? Rispetto alla categoria politica operaista del «rifiuto del lavoro», come rompere il paradigma produttivista e lavorista a cominciare da una forte critica dei mezzi di produzione?

VE: Questa domanda mi permette di legarmi alla precedente e di continuare il discorso sull’organizzazione. Quando stavo preparando i materiali per la stesura di Teoria del lavoro reputazionale (2020) mi sono ricapitati tra le mani alcuni testi di letteratura anarchica come La conquista del pane (1892) e La morale anarchica di Alekseevič Kropotkin e alcuni pamphlet moralistici ed educativi di Errico Malatesta. In questi testi ho riletto la necessità all’azione, combinata a un’analisi macro politica precisa della condizione degli sfruttati e del lavoro. Era evidente come la necessità spingesse ad accettare il crudo realismo e la condizione del tempo. Kropotkin da determinista e scientista e Malatesta da sindacalista e uomo d’azione, prendono atto dello stato delle cose e lavorano per combinare a una organizzazione oggettiva del corpo dei lavoratori, una lotta e una critica permanente ai mezzi di produzione. Io credo che in questo momento e dopo aver preso atto della pauperizzazione delle nostre forme di rappresentanza politica e aver accertato a nostre spese, quanto il potere contrattuale dei lavoratori dell’arte sia marginale, sia il caso di iniziare a lavorare fuori dagli strumenti dell’arte. Le fonti dell’arte sono state avvelenate e le risorse infettate. La creatività rovesciata nei suoi intenti, come direbbe Oli Mould, è oramai succube delle logiche dell’imprenditoria e della professionalizzazione. In questo momento abbiamo bisogno di una lunga e complessa marcia di autodeterminazione, un’attesa attiva per restare a quanto diceva Malatesta, in cui il rifiuto del lavoro non diventi auto delegittimante, come purtroppo accade spesso, qualcosa quindi che vada oltre la sospensione critica delle attività lavorative. In regime di capitalismo avanzato e all’interno della cappa oppressiva del mercato, vanno trovate le crepe per delle forme di organizzazione politica. Un’organizzazione che di certo non è né semplice né automatica, ma che credo debba essere la nostra prefazione per una nuova critica dei mezzi di produzione.

EV: Da Il Campo Innocente ad AWI, una serie di mobilitazioni sono emerse durante la crisi pandemica e rispetto al sistema dell’arte come atto di enunciazione per dire che le condizioni di prima non siamo più disposti ad accettarle. In una recente intervista Sergio Bologna ha affermato: «A chi vuole scrivere oggi statuti dei lavoratori rispondo che prima bisogna cambiare i rapporti di forza tra capitale e lavoro. Iniziamo a parlare di conflitto…». Quale è la coscienza politica di questa classe italiana dell’arte? Finché continueranno le condizioni del capitalismo attuale quale azione politica è ancora possibile?

VE: Credo che AWI e Campo Innocente siano delle risposte necessarie e mi sento di dire che la pandemia ha solo parzialmente accelerato la loro comparsa. Molti lavoratori dell’arte e dello spettacolo hanno attraversato un decennio in cui prima chiedevano spazio e successivamente, quando sono stati accontentati, hanno capito che lo spazio che gli era stato concesso era un luogo angusto e con le fondamenta, gli infissi e il tetto da rifare. Negli ultimi due decenni le generazioni di lavoratori dell’arte si sono ritrovate in un sistema di per sé deregolamentato e hanno contribuito a cambiare inconsciamente in peggio le regole stesse del mondo del lavoro che hanno ereditato. Con i loro modi di fare e con la loro disponibilità inserita in un sistema delle apparenze hanno alimentato un paradigma di collocamento professionale su modello reddit o tripadvisor, hanno subito la tagliola della loro stessa depoliticizzazione ma poi qualcosa è successo. Io conosco soprattutto AWI a cui ho contribuito attivamente finché ho potuto e posso dire che la grandezza di quel movimento di lavoratori sta nella consapevolezza diffusa che vi sia bisogno di un grande lavoro di autoformazione politica e di adottare altri mezzi, mezzi che non siano solo quelli dell’arte. Io credo che questi gruppi di lavoratori siano innanzitutto in formazione, in costruzione, hanno scelto una strada lunga e tortuosa e non so se arriveranno alla fine, ma quello che mi sembra di capire è che prima ancora di scrivere o rendere statutario quelle che sono le figure del lavoro dell’arte, questi movimenti stiano scoprendo la necessità di politicizzare le loro esistenze. Non so se siano già in grado di cambiare i rapporti di forza tra capitale e lavoro, ma mi auguro che non caschino nella rete ammaliante della pacificazione borghese. Sono gruppi che stanno iniziando, anche per questioni generazionali, a diventare sempre più consapevoli dell’importanza dell’immagine e credo che prima ancora di chiedergli la rivoluzione, che tra l’altro non è venuta bene a nessuno, nemmeno a quelli che dicono di averla fatta, sia giusto sperare che non disperdano la loro stessa carica politica a causa dell’iperpresenza.

EV: Passiamo alla piaga dilagante della coercizione al lavoro gratuito: l’invisibilità del lavoro artistico esposto alla più totale intermittenza temporale e precarietà strutturale (che non è più congiunturale ma è diventata permanente). Siamo la classe creativa che lavora gratis costretta a performare quel tipo di soggettività, di chi lavora per passione, perché ci piace quello che facciamo, perché quello che facciamo è la nostra vita. Analizzi nel testo la questione dell’autosfruttamento consapevole, in che senso una sorta di «servitù volontaria»?

VE: Anche in questo caso siamo di fronte a una compartecipazione di colpa. Un circolo vizioso in cui la formula win win risiede nel sacrificio dei lavoratori in cambio dell’agognata posizione a cui si ambisce e che si ama. Una formula che nella vittoria ovviamente non tiene conto dei diritti, quelli sono i primi a crollare. Siamo circondati da uno sciame tossico di narrazioni neoliberiste che non riusciamo nemmeno più ad individuare, vivono indipendentemente dalle nostre volontà e portano un’aggressione alle nostre vite operando una violenza sottile e invisibile. Questa nuova «grande narrazione» e mi perdonino Lyotard e Jameson e tutto l’empireo postmodernista, è fatta dalle posizioni consumistiche, globalistiche, capitalistiche che hanno a che vedere indistintamente con le cose e con le persone. Siamo l’oggetto dei nostri desideri e in quanto tale non possiamo esimerci dal soddisfacimento di queste passioni. Tutto ha una matrice emotiva e passionale, ogni cosa ha una radice nei nostri più fervidi desideri, tutto anche il lavoro. Per esempio la retorica del DIY (do it yourself) con i pallet che diventano orrendi tavolinetti con le rotelle e la nostra carriera da curatore indipendente, sono legati alla stessa logica di autosfruttamento e incertezza. Il problema non è nel risultato, non sapremo mai se l’impresa di bricolage andrà a buon fine, così come non avremo mai certezza di lavorare a mostre importanti, ma la volontà non negoziabile di seguire le nostre passioni. Il «fai ciò che ami» che ha sostituito il «fa ciò che devi» è il mantra perverso del lavoratore di oggi, che si fa carico per dichiarazione della responsabilità del proprio successo uccidendo qualsiasi interesse di classe. In quest’ottica diventa quasi logico pensare che rinunciare a un salario sia qualcosa di ovvio. Nella coercizione del lavoro gratuito, c’è l’accettazione di una condizione di necessità, qualcosa che abbiamo interiorizzato come una bruttura derivante dallo storytelling mediatico e globalizzato, in cui il karma dello stare bene è quello del resistere in attesa di farcela, sono un palliativo alla pandemia dell’autosfruttamento. D’altronde come mi sembra d’aver sentito dire una volta al Dalai Lama: «giudica il tuo successo da ciò a cui devi rinunciare per poterlo ottenere».

Jeremy Deller, The Battle of Orgraves (2001) Agenti di polizia inseguono i minatori nel villaggio di Orgraves. Courtesy l’artista – Foto di Parisah Taghizadeh.

EV: Nel caso specifico dell’arte, hai scritto, «abbiamo creduto che questa potesse giocare un ruolo centrale nel processo di critica al capitale, ma abbiamo appurato che la critica artistica non è che un elemento ulteriore della produttività capitalista. Un’attività ipocrita e prolifica diventata, nel migliore dei casi, una sorta di capitalismo della critica al capitalismo». Qual è lo spazio per la critica oggi?

VE: C’è sempre meno spazio per la critica, ma non perché non ve ne sia in maniera prescrittiva o perché non esistano degli spazi democratici per l’esercizio della critica, si è vero lo stato di salute del nostro apparato critico non è ottimo, ma quello che è peggio è forse il crogiolarsi nel cosiddetto senso di impotenza o «realismo capitalista» per dirla alla Fisher. Uno dei motivi che credo abbiano ridotto l’impatto della critica come «cane da guardia» del sistema economico e politico internazionale sta proprio nell’abbandono o nel disuso delle istituzioni di formazione e rappresentazione politica. Un abbandono che ha conseguentemente logorato la funzione dell’esercizio critico. Rifondare la critica e riprendere le lotte sono due delle cose da cui è necessario ripartire. Oramai non è più solo una sensazione, ma un dato di fatto, perché se è vero che nella medializzazione la critica è stata sostituita da una sorta di ronzio fatto di arrabbiatura è anche vero che tutta l’indignazione e la rabbia di questo mondo non fanno che favorire le élite di governo. In questi ultimi dieci anni abbiamo assistito prima alla profezia di Marco Aurelio che spavaldo non temeva per la sua esistenza nonostante l’indignazione che lo circondava e poi all’esaltazione dello stesso Marco Aurelio che ha saputo portare a sé quegli stessi che poco prima avrebbero voluto la sua testa. In tutto questo l’esercizio della critica è stato pressoché assente. La popolarizzazione dei principi del postmoderno e l’esaltazione dell’opinione assunta come verità e proliferazione delle verità stesse, ha indebolito notevolmente la capacità collettiva di comprendere analizzare e criticare. L’arte contemporanea ha fondamentalmente subito lo stesso processo e in quanto narrazione postmoderna, è sembrata sciogliersi nelle interpretazioni pur proponendosi come strumento di legittimazione e diffusione dei fatti.

EV: Il sistema dell’arte come punta avanzata del neoliberismo è oggi uno dei principali agenti di «naturalizzazione» della ricchezza in mano a pochi e delle disuguaglianze sociali: l’Artecrazia – per usare un felice neologismo introdotto da Marco Scotini nell’omonimo testo uscito qualche anno fa per DeriveApprodi – non è «l’arte al potere», così come è stata rivendicata dai movimenti del ‘68, ma piuttosto è il potere che si serve dell’arte per far passare le proprie forme di cattura, oltre che di sfruttamento dissimulato da un neoromantico, quanto diffuso, retaggio modernista (eurocentrico, patriarcale e colonialista) che il concetto stesso di arte promette. Il potere è sempre un rapporto di forza ma l’Artecrazia è uno stato che rende irriconoscibile il nostro asservimento. Come si rompe l’Artecrazia?

VE: Quando lessi Artecrazia di Marco Scotini pensai a due cose, la prima era che il libro avesse il merito di rendere evidente come il capitalismo stesse fagocitando il mondo dell’arte, la seconda era che nel momento stesso in cui quell’inclusione stava avendo luogo, forse era meno evidente quanto fosse proprio il capitalismo a guardare alla sua stessa preda come modello. In questa fusione tremenda l’arte e le sue qualità hanno modellato le intere industrie creative, hanno contribuito a creare quello che già prima abbiamo descritto come capitalismo artistico. Insomma sembrava impossibile ma quest’apparentamento parallelo ha prodotto il rovesciamento stesso dello spirito emancipatorio dell’arte, e la sua trasformazione in un enorme strumento o meglio in un potente dispositivo di soggettivazione neoliberale. Un incubo accaduto sotto gli occhi di tutti, talmente evidente che nessuno l’ha notato, mascherato com’è nelle logiche del gaming e della trasformazione transestetica della società.

EV: Come agisce l’immagine reputazionale dentro il paradigma regolamentato del capitalismo artistico dominato dall’economia della presenza?

VE: Credo che l’interiorizzazione della cultura dell’esser-ci – Hito Steyerl ne parla in un suo saggio da poco uscito anche in Italiano nel volume Duty Free Art (2018) – è il presupposto necessario per l’immagine e per il lavoro reputazionale. Come dicevo anche in precedenza, quando si ascoltano i discorsi dei top manager e dei CEO delle grandi aziende, discorsi che hanno in tutto e per tutto sostituito le linee guida della politica internazionale, emerge una smisurata rivendicazione della centralità dell’ego. Nel discorso di consegna dei diplomi alla Stanford University nel 2005, Steave Jobs stabilisce i prodromi di quella che nel libro ho definito essere l’immagine reputazionale per un lavoratore. Jobs indirizza l’attenzione di chi ascolta su una specifica tipologia di lavoratore, un soggetto in grado di coltivare un’immagine molto specifica di sé stesso quale lavoratore ispirato, disinvolto e appassionato. Jobs non descrive una professione ma definisce una tipologia e contemporaneamente offre una ricetta per il profitto che risiedere nell’ipertrofia e nella distribuzione dell’ego. Questo processo si è consolidato con il dilagare della medialità digitale (new media e social media) che ha rimodellato radicalmente spazi e relazioni tra le persone. Questa contro-rivoluzione ha in definitiva prodotto nuove forme di investimenti e stabilizzato quella che Mitchell definisce come economia della presenza. Oggi oltre a lavorare e oltre a produrre i nostri contenuti passiamo gran parte del nostro tempo ad attualizzare quegli stessi contenuti in maniera autoriale. Un investimento in cui l’avatarizzazione dei nostri corpi moltiplica la nostra immagine e la mette in competizione con quella di altri lavoratori creativi altrettanto avatarizzati e altrettanto agguerriti per accaparrarsi quelli che nel libro definisco Immcoin.

EV: Nell’ultima parte affronti la necessità di una mobilitazione che torni ad essere antagonista. Come organizzare le lotte e con quali strumenti, in un campo problematico, come quello dell’arte costituito da privilegi di classe, fondamentalmente? Pensi sia ancora possibile fare dell’arte un campo di soggettivazione politica?

VE: Se non credessi all’arte quale strumento di soggettivazione politica forse farei qualcosa di diverso, penso però che sia evidente che la soluzione vada cercata nel ripensamento radicale dell’arte stessa, nella sua storia e nella sua discontinuità rispetto al suo essere uguale a quella che è in questo momento. Credo che sia finito il tempo delle lotte di classe dell’arte, quelle che hanno portato Marx in fiera come il tabernacolo del santo, e passare a quelle nell’arte (quelle dei lavoratori dell’arte). C’è la necessità di un patto interclassista nelle industrie creative, un patto in grado di riaprire il contenzioso e riacquisire potere contrattuale. Contrapporsi allo status quo e all’egemonia dell’immagine. Per farlo bisogna occupare le sedi e gli spazi politici delle istituzioni dell’arte, accettare la necessità dello scontro, cercarsi e trovarsi nella posizione scomoda. Le chiacchiere sulla cooperazione e il dialogo, i tentativi di fare leva su elementi di pacificazione e di scambio che di continuo vengono messe in opera dai soggetti e delle istituzioni con cui ci relazioniamo lavorando nell’arte, sono l’ennesimo tentativo di fare astrazione dalla storia reale, di mascherare quella che Marx definirebbe un’accumulazione primitiva. Se non costringi nessuno a niente il risultato finale sarà sempre quello di sottostare all’accettazione all’impossibilità del cambiamento. Non bisogna aver paura del conflitto perché siamo già in lotta e al momento le stiamo prendendo, ma c’è tempo per riorganizzarsi, non molto tempo, ma c’è tempo.

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