Che cos’è uno sciopero nell’epoca della vita al lavoro? Quando il lavoro di riproduzione, di cura, di linguaggio, d’affetto esce dalla scena domestica e si piazza al centro dei dispositivi della subordinazione >…
A trent’anni dall’«obiezione della donna muta»
Per uno sciopero delle parole
Direbbe il mio collega e compagno di strada, che chiedo l’impossibile: scioperare dalla parola.
Siamo linguaggio, non se ne esce.
Eppure.
Vorrei smettere di parlare, quando parlare.
Non è espressione di una vita, di una tensione.
Non è incontro o scontro gioioso, con la sensazione del mondo che si dilata.
È opinione: postura seriosa. Seriosissima. Ma per dire nulla che importi.
È parola richiesta, per avere quel costante rumore di fondo da cui ritagliare notizie e indignazioni.
È competenza professionale: penoso rifugio di soggettività che non contano.
È parola ventriloqua, colonizzata dagli schemi mentali dei progetti, unico modo per avere denaro in cambio della propria prestazione – forse non sex-worker ma senz’altro word-worker.
È parola che serve solo per riconoscere il già detto e già pensato.
Vorrei scioperare quando la parola non sa anche tacere, sospendersi per fare spazio.
Vorrei una parola che sa farsi scioperata. Dissipata, intermittente.
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