Cosa può un’immagine?

Visibilità e dicibilità nel regime estetico delle migrazioni

Marijan Molnar
Star At My Palm (1980) - Marinko Sudac Collection.

Ci sono stati anni, non troppo lontani nel tempo, in cui dinanzi ad un naufragio in mare, ad un muro, ai fili spinati, alle reti, ai centri di detenzione per migranti, ad un corpo abbandonato con un sacco luccicante addosso, a quei gilet arancioni con le strisce catarifrangenti che «gestiscono corpi» sulle banchine di Lampedusa, a volte con grande spirito di umanità, a volte con la rigidità e la freddezza di un vigile urbano mentre smista il traffico di troppo, a quel linguaggio giornalistico fatto di metafore idrauliche: «flussi», o di mistificazioni retoriche – come l’uso della parola accoglienza al posto di detenzione – o di promesse elettorali costruite sulla pelle di chi viene da un altro continente, ci si indignava, opponeva, organizzava. Poi ci sono stati altri anni, più recenti, in cui ogni episodio attribuibile alle migrazioni, per esempio se fosse giusto o meno pubblicare la foto di un bambino morto su una spiaggia in rete, ha cominciato ad assumere solo le sembianze di una opinione virtuale, sino alla lettura stanca di incipit come: «Nel cimitero di Pozzallo non ci sono più loculi» e ai parallelismi, sempre più insistenti, tra migrazioni e Isis.

L’esito di questa breve genealogia del disastro – del senso e della parola – ha portato, infine, a non sapere più cosa dire, ad una sorta di assuefazione da regime di iper-visibilità che funziona come specchio perfetto di un’impotenza che toglie parola e respiro perché si ripete sempre allo stesso modo, come un processo di normalizzazione dell’anormale, del mostruoso non più inteso come eccedenza positiva, ma come «smarginatura» annichilente. Fino all’ultimo naufragio, quando dalle nostre bacheche solitarie dei «social» (mai ossimoro fu più paradossale) sono scomparse persino le foto, le canzoni da dedicare ai morti in mare, le parole stesse, già erose e affette da balbuzie in seguito ad un susseguirsi di episodi che la trama psichico-emotiva di un corpo non riesce neanche più a reggere. Si potrebbe dire che assieme a tutti questi morti, muri e fili spinati, anche l’ethos pubblico è morto. Non ci si indigna neanche più perché diverrebbe un esercizio retorico, inutile. Morire per «quella umanità in transito» ormai è la norma, non trovare più le parole adeguate per «dire» di quelle morti è un gesto di risulta, una sorta di sfinimento che produce e riproduce vuoto.

O ci sono mancate altre narrazioni, parole nuove in grado di non assuefarci, di farci pensare ancora, di non cedere all’afasia? Parole che provano, a partire dalla propria esperienza, a ri-significare quel che accade ogni giorno accanto e dentro le vite di ciascuna e di ciascuno di noi e dell’altro/a 

Ma è solo questo? O ci sono mancate altre narrazioni, parole nuove in grado di non assuefarci, di farci pensare ancora, di non cedere all’afasia? Parole che provano, a partire dalla propria esperienza, a ri-significare quel che accade ogni giorno accanto e dentro le vite di ciascuna e di ciascuno di noi e dell’altro/a, a nominare anche questo eccesso di non-parole, o di parole insensate, o di immagini che impressionano e ammutoliscono insieme sulle migrazioni internazionali e sul modo di gestirle, di solitudine dinanzi all’ennesimo «naufragio con spettatore», muro, decreto d’urgenza, cartina geografica, loculo ecc.?

5.-10 settembre 2015 frontiera Grecia-Macedonia – Foto di Robert Atanasovskis.

Lo ha fatto Federica Sossi, attraverso un libro importante e dal titolo piuttosto evocativo: Le parole del delirio. Immagini in migrazione, riflessioni sui frantumi (ombre corte, 2017). Tre elementi si intrecciano e provano a decostruire, in prima persona, come in una sorta di autobiografia che lega fatti e pensieri singolari, il posizionamento tossico di alcune narrazioni del presente: le parole deliranti, le immagini, il tempo e il mondo in frantumi. Questi tre elementi si intrecciano all’interno di uno stile narrativo di grande impatto perché innerva esperienza, uso delle immagini e, al contempo, riflessione teorica attraverso una messa in forma operativa di Walter Benjamin, Hannah Arendt, il Foucault del Governo dei viventi e altra letteratura assai lontana dalla costruzione di formule ideologiche che non coincidono, quasi mai, con la realtà, assumendosi il diritto, con una buona dose di arroganza, di «imprigionare gli altri» o di parlare per loro.

Le riflessioni a partire dai «frantumi» sono riportate, da Federica Sossi, attraverso una collocazione spazio-temporale precisa. Ogni fatto migratorio narrato a partire dal 4 aprile 2016 è collocato in uno spazio specifico, ma è sempre un racconto che trova le parole per rovesciare il «delirio» comunicativo di massa, riportando tutto ad un approccio critico che, però, non perde mai la tonalità emozionale e affettiva di chi si chiede come possano ancora accadere certi fatti. E allora si va sull’isola di Lesbo, poi si torna a Lampedusa, si passa per Ventimiglia, Idomeni, si attraversa la «frontiera» tra Serbia e Ungheria, si racconta l’«emergenza Siria» incarnata da Fiona, una bambina incontrata da Federica presso la stazione di Milano, mentre centinaia e centinaia di rifugiati attendevano un treno. E così Fiona, con il suo desiderio reale e materiale di «Ice-cream», diventa un significante che rende «delirante» ogni parola che negli stessi giorni emergeva dal frenetico susseguirsi di vertici europei: «eserciti alle frontiere», «agenti delle deportazioni», «marine militari dispiegate a sbarrare anche gli ultimi interstizi di sopravvivenza».

Ma i frantumi sono anche scene di un teatro dell’assurdo, atti iconici, immagini che lasciano senza parole proprio perché assolvono pienamente alla funzione delle «parole del delirio» ovvero, come scrive Sossi «il modo del darsi della realtà attuale, una sorta di frenesia degli eventi che sta frantumando in una specie di vortice dell’accadere quel sentimento di post-realtà che secondo alcuni regnava in questa parte del mondo negli anni passati».

Idomeni, 21 novembre 2015 – Foto di Sara Prestianni.

Le due ricche sezioni fotografiche presenti nel volume rimandano a quella frase di Benjamin, citata dalla stessa Sossi, «non ho nulla da dire, solo da mostrare», ma anche a quel che resta dopo lo sguardo, dopo l’atto del vedere: un misto di orrore e di impotenza che ci ammutolisce o ci dà la forza di parlare solo se si cambia radicalmente il registro discorsivo. 2 settembre 2015, Bodrum, Turchia. La foto di Aylan, che in realtà si chiamava Alan come ricorda suo padre senza essere ascoltato, fa il giro di tutti i grandi tabloid del mondo, rimbalza su milioni di bacheche dei social network, diventa la fonte privilegiata di articoli, commenti, invettive. In un mondo in cui la morte è all’ordine del giorno nell’assuefazione e nel delirio generale, una foto di un bambino che non c’è più riporta immediatamente alla luce l’ombra fantasmatica del nostro rimosso quotidiano. Ma se è vero che ogni cambiamento reale si misura solo a partire dalla durata, anziché dall’impressione in un frammento di tempo, è altrettanto vero che «il bambino di Bodrum» diventa a sua volta l’immagine di un delirio che dura appena ventiquattro ore incalzato da altri eventi, altri frammenti. Non si fa in tempo neppure a comprendere il significato simbolico di un lutto che già ne arriva un altro a rovesciare quelle ventiquattro ore di Aylan, anzi Alan, bambino simbolo senza vita perché nato nel posto e nel momento sbagliato. Tutti con Alan, nessuno con Alan.

Torniamo indietro, un nuovo frammento e nuove parole del delirio: 13 novembre 2015, la ferocia terroristica dell’Isis si abbatte a Parigi contro il Bataclan e altri luoghi. L’immagine si rovescia, ora a regnare sovrane sono le bandiere francesi pressochè ovunque. Ancora prima, il 7 gennaio dello stesso anno erano stati tutti Charlie Hebdo. Ma cosa vuol dire «Je suis», si chiede in pagine bellissime Federica? «Je pense, donc je suis» ricorda Sossi riprendendo Cartesio, passando per Heidegger e Arendt, ma anche tutt’altro. Ad esempio, come ci ha insegnato Rimbaud «on me pense» perché «Je est un autre», l’Io è anche un altro. Un Altro che in questo caso, ovvero nel regime di superfetazione, stucchevole, del «Je suis» da tastiera, di fatto sparisce, per fare spazio ad un’idea di appartenenza che nulla dice degli stessi attentati e del rancore accumulatosi per anni proprio a partire da quella idea di fedeltà ad una nazione – in questo caso la Francia – che per farsi è dovuta passare dall’antropofagia dell’altro. E di nuovo, con quella parola del delirio, «Je suis Charlie» diventa gesto di espulsione di tutti gli altri.

Ventimiglia, agosto 2015 – Foto di Livia Cozzolino.

Tra le altre parole del delirio Sossi annovera, con interpretazioni interessanti e sorprendenti, anche la risignificazione di termini come «paesi sicuri», «solidarietà», «giungle». Un lavoro di scavo, mai banale, denso, fitto, eppure così semplice per arrivare a sostenere, con Lacan, quanto di fatto tutte queste parole del delirio, tutte queste immagini, tutti questi frantumi, sono la produzione fantasmatica di un Altro da temere e di un presente da non guardare perché attraversato da un orrore trasversale che è meglio rimuovere o, al limite, iper-rappresentare nel regime della comunicazione senza significazione. Il lutto, ci ha detto Judith Butler, tutto sommato non è altro che la continuazione della vita con una opacità in più. Una opacità che è anche costituzione del soggetto della non-rimozione, ovvero di un soggetto che proprio perché si fa carico della perdita riesce, in qualche modo, a ritrovare se stesso.

Questo libro riesce a compiere questo gesto esperenziale e teorico, riesce ad assumersi il disastro e la perdita di un orizzonte collettivo di senso senza mai cedere al rancore, ma rilanciando sulla possibilità di trovare altre parole per raccontare questo tempo delirante 

Questo libro, tra i più interessanti in circolazione sulle migrazioni in questo momento, riesce a compiere questo gesto esperenziale e teorico, riesce ad assumersi il disastro e la perdita di un orizzonte collettivo di senso senza mai cedere al rancore, ma rilanciando sulla possibilità di trovare altre parole, altri linguaggi, per raccontare questo tempo delirante. Una sorta di incantevole e raffinata «scrittura femminile azzurro pallido» che, proprio perché tale, riesce ancora ad esercitare la parresia nella fiera forsennata di questo insensato presente. Il linguaggio, in altre parole, è tutto.

Grande Synthe, 22 febbraio 2016 – Foto di Sara Prestianni.

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