Alberto Grifi artista radicale
Cinematografia antagonista e forza-lavoro
TV Politics è un film program che accompagna la rassegna espositiva documenta 14 a Kassel e che ripercorre alcuni dei tentativi più significativi di un approccio radicale e politico al mezzo televisivo. Il 24 e 25 agosto Marco Scotini presenterà uno dei filmmaker più radicali della cinematografia indipendente e militante italiana: Alberto Grifi.
Presso il cinema BALi-Kinos di Kassel (che ospiterà fra gli altri i film di Jonas Mekas, Mathia Diawara, David Perlov, Mohamed Soueid, Sarah Maldoror e Nagisa Oshima) saranno presentati Verifica Incerta, Festival del Proletariato giovanile al Parco Lambro, Dinni e la Normalina, Michele alla ricerca della felicità, Argonauti, Lia, Anna, ed Evviva!, alcuni tra i film che hanno reso Grifi un autore riconosciuto internazionalmente, resi disponibili dall’archivio Associazione culturale Alberto Grifi e Fondazione Baruchello (per Verifica Incerta).
Curato da Hila Peleg, TV Politics consiste in sei serate di proiezioni, ognuna dedicata all’opera di un regista internazionale che usato in modo pionieristico il canale televisivo, ufficiale o censurato, in base ad istanze politiche o attiviste, che trascende dalla specificità dei paradigmi del tempo e fornisce un terreno necessario per criticare la produzione di immagini contemporanee. Qui pubblichiamo una versione ampliata di un saggio contenuto in M. Scotini, Artecrazia. Macchine espositive e governo dei pubblici, DeriveApprodi/OperaViva (2016).
In una delle 20 lettere del libro Pipe-line, concepito nel carcere di Rebibbia, Toni Negri scrive: «Cher David, se ti fosse capitato di passare da Milano nel giugno del 1976, ti sarebbe stato difficile evitare Parco Lambro. Anzi, ne sono certo, vi saresti precipitato»1.
Tra il 26 e il 30 giugno 1976 l’incontro di Parco Lambro si trasforma da manifestazione controculturale e musicale in vero e proprio evento. È la sesta edizione del Festival del Proletariato Giovanile che, dopo tre appuntamenti nell’hinterland milanese, dal ’74 in poi, si tiene annualmente a Milano: nello stesso luogo e nello stesso tempo. Anche l’organizzazione non muta. È sempre quella della rivista «Re Nudo», vera e propria espressione generazionale del rapporto tra cultura underground e sinistra extraparlamentare, nonché organo ufficiale dei circoli del proletariato giovanile.
Eppure a mutare, nei quattro giorni del ’76, è la natura stessa del raduno, dell’incontro. Ciò che emerge è un processo imprevisto, completamente inedito, che eccede le condizioni associative prestabilite, spiazza le coordinate politico-sociali del movimento e apre al «possibile» dell’evento. La sesta Festa del Parco Lambro (che sarà l’ultima della serie) non è l’esito di qualcosa che giunge a compimento, non è la risposta (giusta o sbagliata) a una domanda formulata in precedenza. Tantomeno la soluzione implicita a un problema politico maturato da tempo. Si tratta piuttosto dell’apertura problematica di un campo di possibilità inedite, della rottura con le forze in atto della storia e della necessità di ridefinire sia un nuovo oggetto che un nuovo soggetto politico in rapporto all’evento. Tanto le intenzioni degli organizzatori quanto quelle dei partecipanti risultano stravolte. Così come scrissero alcuni degli esponenti dei circoli del proletariato giovanile: «Siamo tutti andati al Lambro cercando negli altri e nella festa qualcosa di indefinito e di migliore che ancora però non ci appartiene e ci siamo trovati davanti la realtà così com’è»2.
L’evento, quando accade, sopraggiunge senza che vi sia un progetto prestabilito. Proprio per questo esso richiede l’apertura totale a tali condizioni di possibilità a costo di mancare la novità radicale che produce, sottraendosi alla portata trasformativa e all’orizzonte di senso che esso inaugura. Mancare l’evento vuol dire dare vecchie risposte a nuovi problemi, apporre a questi ultimi soluzioni teoriche già date e che si tratterebbe solo di applicare. Al contrario, le soluzioni devono essere create. In sostanza, non aprirsi all’evento significa fornire di esso rappresentazioni inadeguate che ne riterritorializzano desideri e bisogni, obiettivi e soggetti, comportamenti e ruoli.
Vera e propria apertura, in questo senso, è la procedura messa a punto da un filmmaker come Alberto Grifi, artista radicale e outsider del cinema italiano. Grifi arriva a registrare l’evento del Parco Lambro come pioniere del cinema underground e ne riparte come il maggiore esponente del videoattivismo e della controinformazione. Nel registrare una contestazione in atto, la pratica di ripresa per Grifi si trasforma in una strategia attivista. Nel giugno del ’76 Grifi arriva al Lambro con quattro troupe di videoteppisti e tre troupe di cineasti con telecamere Arryflex: 18 operatori in totale3. Ma chi sono i «video teppisti»? I diretti collaboratori di Grifi si autodefiniscono con questo appellativo che denuncia immediatamente l’ambito movimentista di provenienza. Il termine videoteppista, in voga dopo la metà degli anni Settanta, è un perfetto gioco di parole tra il dispositivo tecnico di ripresa (videotape) e il carattere vandalico delle azioni che lo vedono coinvolto. Come ha detto recentemente Flavio Vida (uno dei collaboratori di Grifi al Lambro) questa attitudine aveva più a che fare con l’esperienza derisoria situazionista che con quella della militanza della sinistra. Quello che il videoregistratore portatile consente ai collettivi artistici e attivisti degli anni Settanta è un forte potenziale d’intervento sul campo (le strade, le dimostrazioni, la piazza) con l’incisione di immagini e suoni su nastro magnetico a un costo fortemente ridotto rispetto alla pellicola 16mm. Tanto l’organizzazione politica del giornale «Lotta Continua» che di «Re Nudo» non vogliono che sia alcuna televisione di Stato a riprendere la sesta edizione del Festival ma solo un cineasta underground come Alberto Grifi. Un regista, cioè, da cui ci si aspetta un film-concerto come Monterey Pop: uno straordinario documento girato nel ’67 da esponenti del direct cinema come D. A. Pennebaker e Richard Leacock, qualcosa in cui si trovano associate avanguardia artistica e avanguardia sociale. Tuttavia quello che Grifi si trova di fronte non è una pacifica manifestazione pop con spettatori e palco, rockstar e «fumo», ma un vero e proprio «esproprio» proletario (come si chiamava allora). Esproprio significa «privazione di proprietà» e le appropriazioni nei supermercati, l’occupazione di case, il rifiuto di pagare il biglietto ai concerti, la richiesta di prezzi politici, l’autoriduzione sul costo d’ingresso ai cinema di prima visione sono il tratto più tipico delle pratiche dei circoli proletari giovanili dalla metà dei Settanta. Al Parco Lambro gli oltre 100.000 giovani accorsi da ogni parte d’Italia non rimangono in silenzio davanti al concerto, una volta rapiti dall’ascolto della musica. Al contrario assediano il palco, lo fanno sgomberare, contestano lo sfruttamento e il controllo esercitato attraverso lo spettacolo così come attraverso ogni altra tipologia di merce (panini, polli, birra, gelati, libri, dischi) che gli organizzatori contavano di vendere per l’occasione. Espropriano cose e servizi e li ridistribuiscono socialmente. Il pubblico rifiuta il ruolo che gli è assegnato dall’industria culturale, non fa più da cornice allo spettacolo ma diviene il protagonista e l’attore principale del festival. Il format assembleare e quello delle danze collettive (assimilabili ai riti pagani dell’antichità, come dice Grifi) sono imposti con la lotta sul format del concerto, con il suo carattere di macchina economica, le sue gerarchie convenzionali e le sue strutture organizzative d’impresa. Nonostante Grifi non avesse in mente un progetto filmico specifico per il Lambro, il suo problema diventa di questo tipo: come affrontare un terreno sconosciuto (che è quello dell’evento) con una tecnologia determinata, che ha delle specifiche proprietà funzionali? Se è vero che quella che Grifi ha di fronte è una socialità insubordinata e in trasformazione, come sospendere i codici rappresentativi che fino allora sono stati validi? Come poter neutralizzare delle assegnazioni o far saltare delle identità sociali non più attribuibili attraverso uno strumento di ripresa? Come registrare in tempo reale qualcosa che a esso costitutivamente si sottrae e di cui non possiamo prevedere gli esiti? Come archiviare l’inarchiviabile?
Ne esce lo straordinario film Parco Lambro che è un documento visivo unico di quegli anni e non solo: che è molti film allo stesso tempo e, forse, neppure un film. Perché del film ne esistono molte versioni di lunghezza diversa e con differente montaggio. Da cinque ore in video a un’ora e mezzo, fino a mezz’ora di durata. Alla fine del dicembre ’76 ad Alberto Farassino che lo intervistava per il quotidiano «La Repubblica», a film non ancora editato, Grifi rispondeva: «In ogni caso i film dovrebbero essere due: una versione di due ore a 35mm che, se troverà una distribuzione, dovrebbe raggiungere i normali circuiti commerciali e una di quattro ore a 16mm, per gli usi politici e per il circuito alternativo». Ancora in data 1 aprile 1977 (quasi un anno dopo le riprese) in una recensione di Franco Cordelli per «Paese Sera» il film veniva presentato a Parma, «in forma grezza, a montaggio non ultimato» e per la durata di tre ore. Mai venduto alla RAI, la televisione italiana di Stato, per timore che fosse piegato a scopi disciplinari, di disinformazione e di controllo, il film è comparso in diverse rassegne e ha attraversato negli anni cinema e centri sociali, spazi e emittenti più o meno alternativi. Eppure sempre moltiplicato, con un montaggio mai definitivo. Così che ancora oggi è possibile affermare che l’intero film risulta di 27 ore di nastri videoregistrati in bianco e nero e di tre ore a colori in 16mm.
Ma non solo per questo motivo Parco Lambro è, e non è, un film. È molti film assieme: è un film multiplo4. Ferma negazione della totalità e dell’unità, il film rifiuta di omogeneizzare le differenze e fa della dispersione (eterogeneità dei supporti, molteplicità degli autori, ecc.) la propria modalità d’essere se non un progetto di organizzazione dei materiali e delle soggettività.
L’altra ragione, altrettanto fondamentale, è che Grifi trasforma il processo di registrazione in una controinchiesta strappata di mano ai cronisti e direttamente ridistribuita ai soggetti stessi della contestazione. La telecamera passa di mano in mano, trasformando tutti in protagonisti e l’azione di registrare in quella di intervenire direttamente. Come ha affermato Grifi (e come risulta chiaro nel girato): «I gruppi non filmavano passivamente ciò che accadeva. Spesso gli intervistatori erano più arrabbiati degli intervistati ed erano loro che davano le direttrici di quel flusso di illegalità sottoproletaria»5. Oggi potremmo dire che c’era una volontà di profanazione dei dispositivi spettacolari in cui cercava di restituire all’uso comune quanto gli era stato sottratto, ciò che da esso era stato separato.
Non siamo di fronte a un film partecipato alla maniera del cinema veritè in cui c’è il coinvolgimento del filmante nel filmato, secondo i modelli del documentario che abbiamo conosciuto, da Jean Rouch a Richard Leacock, ecc.. C’è piuttosto un’operazione di disobbedienza radicale al lavoro che scardina le condizioni della regia stessa, l’autoritarismo del gesto di filmare. Il precedente diretto per Grifi è il suo film Anna presentato nelle sale nel ’75 ma girato nell’anno dal ’72 al ’73, e di cui ha parlato Rachel Kushner recentemente in un numero di «Artforum»6. La disobbedienza non appartiene solo all’oggetto da filmare (la ragazza Anna di Piazza Navona a Roma ma anche la ingente massa insorta del Parco Lambro a Milano) ma anche al soggetto che filma. O meglio a quel soggetto, a cui è sottratta irrevocabilmente l’autorità di filmare. L’esproprio è anche quello che Grifi, automaticamente, apporta alla regia. Come Grifi ha scritto: «Ecco, a questo livello si può dire che Anna cambia il cinema nel senso che è la registrazione del cambiamento di quelli che hanno fatto il film. Non è un film che la regia ha girato sulla disobbedienza. È, al contrario, la registrazione della rivolta di attori e maestranze contro il film, a dispetto della regia. A quelli che hanno messo su il festival del Lambro è successo qualcosa di molto simile, ingigantito. Avevano organizzato una festa alternativa sulla testa del proletariato giovanile, e il proletariato giovanile, rifiutando ogni alternativa, ha fatto la festa a loro». Questa modalità è quella stessa assunta dal cinema di Grifi, un cinema che, come quello di Debord, ha cercato di produrre una filmografia antagonista, andando alla ricerca dei propri modi di fare, per cui da Verifica Incerta, presentato a Parigi nel ’65, fino ad Anna del ’72 e al Lambro del ’77, c’è una progressiva radicalizzazione dei modi con cui Grifi interviene dentro al cinema, fa del cinema, si oppone al cinema.
La lotta operaia è il motore di questa presa di coscienza dentro la fabbrica del cinema. Lui stesso per montare Verifica incerta agisce sulla falsariga di alcuni test usati per l’assunzione del personale in fabbrica e assimila il cinema alla catena di montaggio. Per Grifi il meccanismo mentale che ci fa accettare il cinema come impresa è lo stesso che ci fa accettare il fatto che l’economia costringa la vita che viene filmata in una dimensione che è appunto quella consentita dal denaro7. Allora ecco che la vita reale si comincia a misurare sulla falsariga dell’economia e da quel momento il linguaggio della vita si trasformerà nel linguaggio del denaro che ha la pretesa di dare significato a tutta la vita trasformandola in merce.
«L’esperienza di Anna – afferma ancora – ci aveva reso evidente che la regia, calcolando in denaro il costo della pellicola, calcola in denaro anche la crescita dei rapporti umani che filma. Sottomessa alla dittatura del capitale ed esercitando a sua volta la propria autorità sugli attori, la regia incastra e deforma le passioni, i desideri, l’amore, la disperazione, in una dimensione cinematografica contenuta nei tempi consentiti dall’economia. I linguaggi della vita sono così quantificati in denaro e, a film confezionato, il linguaggio della vita sarà diventato il linguaggio del denaro»8.
Con Parco Lambro si scopre che una troupe cinematografica può essere messa insieme non più dal produttore, così come il padrone mette insieme gli operai, ma dal precipitare degli eventi, dai liberi concatenamenti possibili. Proprio per questo motivo Parco Lambro è in grado di produrre nuove soggettività, non più politiche, non più propriamente militanti ma disobbedienti. In un testo del 2002 The Articulation of Protest9 (che è stato molto discusso perché esce negli anni del movimento globale) Hito Steyerl individua due modalità per articolare la rappresentazione dell’insorgenza del movimento e dell’organizzazione dei movimenti di protesta, due modalità che passano per il montaggio. Una è quella di Showdown in Seattle (in cui abbiamo un montaggio additivo di voci la cui sommatoria sarebbe la voce del popolo) e l’altra è il film Ici et Ailleurs di Godard/Mieville in cui gli autori espongono il problema stesso dell’addizione delle immagini con un’altra soluzione. In Grifi abbiamo qualcos’altro che prescinde da entrambi e apre a forme dell’autorappresentazione, autorganizzazione non-montata. In Grifi abbiamo nuovi modi di fare politica e nuovi modi di dire (rappresentare) il politico.
Harun Farocki afferma che anche in Sortie des usines Lumière à Lyon (1895) il parallelo tra il sistema di produzione della fabbrica e il punto di vista meccanico della cinepresa era perfetto nella maniera in cui ha compresso il movimento dei lavoratori, rispettivamente, in una forza-lavoro e in immagine. Quando Farocki usa questa sequenza dalla storia del cinema al centro della sua installazione filmica del 1995/200610, non ha fatto nient’altro che focalizzarsi sul momento iniziale di questa relazione. Si tratta di un momento di strumentalizzazione visiva che trova il suo compimento nell’industria culturale contemporanea. La perfetta equivalenza fra i mezzi di produzione e i mezzi di percezione porta a un riconoscimento dell’interdipendenza e superimposizione di «immagini che rappresentano» e situazioni o eventi costruiti. Piuttosto che ritornare semplicemente all’opposizione fra realtà e finzione, che è un aspetto tipico della teoria della rappresentazione, al contrario, si tratta ora di portare allo scoperto la coproduzione della realtà e dell’immagine. Questa è semplicemente una metodologia che riunisce la socializzazione della percezione e i processi di socializzazione e lo sviluppo del capitalismo.
Uno dei motivi per cui Grifi non ha mai potuto montare definitivamente Parco Lambro è perché è tra i primi a intuire che il nuovo soggetto politico non si può ricomporre. A me stesso che nel 2004 gli chiesi una copia per Disobedience Archive, ne inviò una ennesima versione di un’ora e mezza con una sua introduzione sul restauro dei film, che non potei utilizzare per la proiezione. A questa sottrazione della copia unica e definitiva corrisponde la sottrazione del soggetto sociale unico, il popolo o la massa. In questo senso non possiamo intendere Parco Lambro alla maniera dell’opera aperta di Umberto Eco, né delle sue possibilità combinatorie. Parco Lambro è il primo film che non converge, è il primo film che non si chiude, che lascia i materiali registrati a loro stessi. Perciò, possiamo considerarlo all’origine della proliferazione della moltitudine contemporanea, così come anche Negri riuscii a leggere nell’evento del Parco Lambro una moltitudine che, tra l’altro, sa già che lo sfruttamento da quel momento in poi non si eserciterà più sul tempo di lavoro ma nel tempo di vita e all’interno di un’economia dell’informazione rispetto a cui l’evento non può che istituirsi in termini antagonistici. E, riconoscendo al Lambro il ruolo di grande anticipazione, potremmo parlare di contro-pubblico in un’economia dell’evento. «Di fatto – conclude Negri – superare quelle transenne che delimitavano il Parco significava entrare in un altro mondo – ma è ben vero che in quest’imbuto si travasava quello che già era fermentato, che le coscienze s’erano trasformate e che la loro potenza già pulsava, e che dal Parco ora usciva una moltitudine. Die Jugendproteste haben den Körper neu entdeckt. Rifondazione dei corpi. Una moltitudine»11.
info sul programma:
Note
↩1 | T. Negri, Pipe-Line. Lettere da Rebibbia, Einaudi, 1983. È la quindicesima lettera del libro, datata 28 febbraio 1982 e intitolata Carnival. |
---|---|
↩2 | Sarà un risotto che vi seppellirà. Materiali di lotta dei circoli proletari giovanili di Milano, Squilibri Edizioni, 1977, p. 71. |
↩3 | S. Fadda, Definizione zero. Origini della videoarte fra politica e comunicazione, Costa&Nolan, 1999, pp. 127-131. |
↩4 | Vedi, in relazione al multiplo, G. Deleuze – F. Guattari, Mille Piani. Capitalismo e schizofrenia, Castelvecchi, 2010. |
↩5 | S. Fadda, op. cit., p. 129. |
↩6 | R. Kushner, Woman in Revolt, in «Artforum», novembre 2012. |
↩7 | A. Grifi, Contro il (lavoro) documentario, in R. Silvestri, a cura di, Il cinema contro di Alberto Grifi, Anteprima per il Cinema Indipendente Italiano, catalogo del festival, Bellaria-Igea Marina 1993. |
↩8 | A. Grifi, Anna. 11 ore di video, in S. Luginbühl – R. Perrotta, a cura di, Lo schermo negato. Cronache del cinema italiano non ufficiale, Shakespeare & Company, Brescia 1976. |
↩9 | H. Steyerl, The Articulation of Protest, in «republicart», 2002. republicart.net/disc/mundial/steyerl02_en.htm; Vedi anche S. Sheikh, Positively Protest Aesthetics Revisited, in «e-flux Journal», n. 20, 2010. e-flux.com/journal/positively-protest-aesthetics-revisited |
↩10 | Faccio riferimento al film di Harun Farocki, Workers Leaving the Factory del 1995 e alla video installazione di 12 canali Workers Leaving the Factory in Eleven Decades del 2006. |
↩11 | T. Negri, op. cit. |
condividi