Aldiqua
L’immagine è donna?
Questioni di cinema o di femminismo? Genere, lotta e immagini in un focus su donne e immagini in movimento.
Qualcosa fu detto nel silenzio, qualcosa fu taciuto,
qualcosa andò per la sua strada.
Esule e Perduto
erano a casa loro.
Nel maggio 1948, a Vienna, Paul Celan dedica una poesia a Ingeborg Bachmann, “In Ägypten”, suggellando un’unione impossibile in un mondo diverso da quello della poesia.
Tu devi giacendo ornare la straniera nel modo più bello.
Tu devi ornarla con il dolore per Ruth, per Miriam e Noemi.
Di questa poesia, che inaugura tra loro un legame intermittente ma inesauribile, Celan scriverà a Bachmann quasi dieci anni più tardi che lei fu ben più che la sola ispiratrice: «Tu sei e resterai la giustificazione della mia parola […] Ma non si tratta solamente di questo, della parola. Vedi, volevo anche restare in silenzio insieme a te». La loro corrispondenza non cessò mai di sperimentare – nella scrittura epistolare e poetica – i possibili immaginari di una impossibilità. Quest’ultima, secondo il loro traduttore francese Bertrand Badiou, va ricondotta a una «differenza irriducibile» tra i due: lui di una famiglia ebraica di Cernovitz (Černivci) morta nei campi di concentramento, mentre il padre di lei fu un membro della prima ora del NSDAP. Ma questa differenza fonda anche i due rispettivi modi di relazionarsi alla scrittura e alla creazione, e le lettere che fanno nuova luce sulla loro opera portano le tracce di questa difficoltà di dire, del dolore che spesso l’accompagna, del mutismo e del silenzio che, a volte, lo impediscono. Riscoprendo la corrispondenza dei due poeti nel film a loro dedicato da Ruth Beckermann, si è colpiti nel vedere in che misura la messa in scena riesca a preservare il carattere utopistico di questo scambio e la qualità del silenzio che turba incessantemente il suo equilibrio. Die Geträumten porta al centro della propria forma il problema dell’incarnazione della lingua dei due poeti. Non trattandosi né di una ricostruzione documentaristica né di un adattamento romanzato, il film trova il suo ritmo in una eccezionale economia di inquadrature e nella scommessa di una messa in scena originale: riesce così a mantenersi nello stesso momento a stretto contatto con le lettere di Bachmann e Celan, lette e registrate da due giovani interpreti nello studio della casa della radio di Vienna, e alla necessaria distanza imposta dal dispositivo – poiché il presente dell’enunciazione non è quello della scrittura, i due corpi davanti al microfono non pretendono di essere quelli di Bachmann e Celan. È in questo scarto e in questa prossimità a un materiale letterario composito e discontinuo (centoottantasei testi, redatti tra il 1948 e il 1967), su cui è stato necessario operare prima un montaggio, che Beckermann ha concepito questo scambio epistolare ad alta voce, fino a includere nella selezione dei brani anche le lettere che Bachmann non ha mai inviato, come tracce della difficoltà per le parole di trovare la loro strada fino alla persona amata e perduta.
Ruth Beckermann ci presenta un film sulla sensazione di un mondo dischiuso dalla lettura di queste lettere, sulla possibilità per queste parole scritte più di cinquant’anni fa di risuonare nella voce di due giovani, Anja Plaschg, nota come cantante e musicista sotto il nome di Soap and Skin, e Laurence Rupp, attore del Burgtheater di Vienna. Si tratta della prima che Beckermann lavora con degli attori, dirigendoli non solo durante le scene in studio ma anche nei “tempi morti”, quando i due camminano nei corridoi e nelle sale della casa della radio, fumando con piacere ed evocando alla rinfusa la difficoltà dell’essere artisti e i meandri del processo creativo, i tatuaggi, la musica contemporanea. L’intero film si svolge in questo luogo spoglio e chiuso, come sospeso fuori dal tempo, e che assomiglia alla radio Rot-Weiss-Rot dove Bachmann lavora come redattrice all’inizio degli anni Cinquanta. «Quello che ottengo non è sempre cattivo» – scrive in questo periodo a Celan – «per l’Austria, è già abbastanza audace, con autori che vanno da Eliot fino a Anouilh», ma tutto ciò non è che «business culturale», un compromesso rispetto all’ossessione per la scrittura che li accomunava. Si ha la stessa impressione quando i due attori di Die Geträumten osservano i musicisti dell’orchestra della radio chiedendosi come trovare le condizioni adatte alla creazione quel giorno. Beckermann aveva pensato inizialmente di montare la traccia delle due registrazioni come sottofondo alle immagini dei luoghi abitati da Bachmann e Celan. Ma in esse la presenza spettrale degli assenti sarebbe stata troppo opprimente, avrebbe fatto loro da tomba. Quando il regista catalano Pere Portabella riprende a Granada la dimora del poeta Garcia Lorca (Mudanza, 2008), niente riesce a soffocare la presenza rumorosa dei fantasmi. Beckermann preferisce suscitare il ricordo degli scomparsi nella possibilità per le loro parole di attraversare il tempo e incarnarsi nel presente dei due giovani ripresi dalla telecamera. Questa messa in scena, sfuggendo tanto alla forma documentario quanto alla tentazione della fiction, risponde a una doppia ossessione: da una parte, mettere al centro il linguaggio dei due poeti, con le sue deviazioni, le sue peregrinazioni, a volte perfino i suoi silenzi; dall’altra, restare prossimi ai corpi, come se le parole potessero imprimersi sulla pelle quando, in perfetta sincronia con la voce, la camera resta immobile sul primo piano di un volto carico dell’emozione del testo. Ciò vale soprattutto per Anja Plaschg, attrice che non avrebbe sfigurato in un film di Chris Marker, icona la cui fotogenia irradia lo schermo. Ma è Laurence Rupp, apparentemente meno permeabile alla litania delle parole, che sembra accusare per primo il peso della memoria e della malinconia che abbatte Celan nelle sue ultime lettere. A risultarne è una forma che oscilla tra il Kammerspiel e la fuga: la narrazione epistolare di due giovani uniti dalla poesia nonostante «la Storia, quella grande, con la sua s di “scure”» si arricchisce in questo modo dello spessore del tempo e delle difficoltà dei suoi interpreti.
Celan, Bachmann, Beckermann… Ancora più sorprendenti sono le affinità che accomunano la scrittura di Bachmann e Celan con l’opera della regista, ebrea come Celan, austriaca come Bachmann. Beckermann appartiene a una generazione di artisti e scrittori ebrei viennesi che hanno avviato una riflessione sulla propria identità in un momento in cui il passato nazista del paese ha fatto brutalmente ritorno sulla scena politica1. Lei stessa figlia di sopravvissuti alla Shoah – suo padre, come Celan, è cresciuto in Bucovina, a Cernovitz – è tornata a vivere a Vienna nel dopoguerra, una città che tormenta i suoi film e i suoi scritti, punto focale e punto di fuga di tutta la sua opera, spazio di una memoria in preda alle amnesie di una storia che non ha mai smesso di cartografare.
Tale genealogia familiare ne fa un’erede della cultura ebraica della Vienna fin-de-siècle, quella della Junge-Wien di Arthur Schnitzler, Theodor Herzl, Karl Kraus e, ovviamente, Stefan Zweig, il quale negli anni Trenta vedrà l’inabissarsi di quel «mondo di ieri», forzato all’esilio ma incapace di vivere altrove, costretto ad «assistere alla più spaventosa sconfitta della ragione e al più selvaggio trionfo della brutalità, nell’ambito della storia»2. Beckermann condivide questi sentimenti ambigui nei confronti di Vienna con Hilde Spiel, alla quale sembra alludere in Wien retour, un ritratto di Franz West realizzato in collaborazione con Josef Aichholzer nel 1983 – Spiel aveva pubblicato nel 1968 Rückkehr nach Wien, una raccolta di articoli di cronaca redatti per un giornale britannico in seguito al suo ritorno in Austria. Il suo sentirsi a tratti al centro e a tratti ai margini della cultura austriaca la accomuna anche, in una certa misura, con Bachmann stessa, l’«ebrea nel cuore» che nel luglio 1952 scrisse a Celan: «A Vienna c’è un silenzio sepolcrale, che qui è quanto di meglio ci possa essere, ma l’estraneità fra me e la città resta ormai inspiegabile»3. I «sognati» sono degli stranieri nei propri paesi. «Esule e Perduto», come si descrive Celan a Bachmann nella poesia «Am Hof» di Sprachgitter, composta nell’ottobre del 1957, a casa propria da nessuna parte. La sola comunità possibile è per loro quella della scrittura, ma questa non esiste che nella separazione e nell’esilio, nella condizione di estraneità al mondo. Nel saggio dedicato agli ebrei austriaci all’indomani del 1945 (Unzugehörig: Österreicher und Juden nach 1945)4, Beckermann definisce questo senso di estraneità «unheimliche heimisch», ovvero la strana consapevolezza di non appartenere a un luogo familiare. Questa tensione è costitutiva della stessa identità di Beckermann, che si aggira lungo la propria strada (Homemad(e), 2000) o per i quartieri storici della comunità ebraica di Vienna come una viaggiatrice immobile, un «essere-in-cammino», secondo la bella immagine fornita da Christa Blümlinger5.
I motivi del viaggio e di questo vagare compongono una matrice particolarmente illuminante dell’opera di Beckermann, intesa come spostamento (e dunque come sensazione di non appartenere mai al luogo dove si vive) e come ricerca della propria identità e della propria memoria. La questione dell’appartenenza è posta in differenti modi nei suoi film, prima attraverso una storia familiare che la spinge a viaggiare dall’Europa orientale fino a Gerusalemme, poi come interrogazione delle proprie radici viennesi e del destino della comunità ebraica in un’Austria nuovamente vittima degli estremismi politici. Due luoghi, reali e simbolici, delimitano forse la topografia mentale di questo nomadismo: la foresta e il caffè. Nella foresta, ci si può smarrire e ritrovarsi, come in quella favola in cui un ebreo errante ne incontra un altro nel bosco, anche lui perdutosi; o come Oma Rosa, la nonna della regista, che si fece passare per una mendicante muta per evitare la deportazione durante la guerra, nascondendosi nella foresta attorno a Vienna per parlare con se stessa e ricordarsi il suono della propria voce. Quanto al caffè, questo luogo familiare che non è più casa ma non è nemmeno mondo esterno, rappresenta una soglia, un mondo di mezzo: «Di ritorno da un viaggio ma non ancora arrivata», commenta la regista con voce fuori campo in Die Papierene Brücke. Questi spazi eterotopici non si dispiegano solo su un piano sincronico, ma aprono anche una prospettiva diacronica: «Mi piacerebbe viaggiare nel tempo, e filmare così solo il mio presente. Non posso partire nel passato, solo in terra straniera, straniera… Ma può essere che il passato sia esso stesso un paese lontano» afferma Beckermann da fuori campo sulle prime immagini di Ein flüchtiger Zug nach dem Orient (1999).
«Fra il nostro oggi, il nostro ieri e il nostro ieri l’altro tutti i ponti sono crollati», scriveva Zweig all’inizio de Il mondo di ieri6. L’opera di Beckermann consiste tutta nel tentativo di ricostruire questi ponti: tale restaurazione della memoria, come ha ben osservato Blümlinger, non equivale a una forma di commemorazione, bensì a un lavoro di rimembranza della cultura e dell’identità ebraiche nel quadro di una ricerca biografica e collettiva attraverso gli strati della storia. Die Papierene Brücke (1987) appare perciò come una risposta in differita alla disperazione di Zweig e come momento centrale di una trilogia della memoria insieme a Wien retour (1983) e Nach Jerusalem (1990). In questo percorso genealogico sulle orme del padre, la regista incontra altri sopravvissuti, sinistramente mascherati e utilizzati come comparse in una rozza ricostruzione del campo di Theresienstadt, esitanti sui modi possibili per testimoniare la loro esperienza. Ma questa raccolta di tracce e di narrazioni mostra soprattutto «quanto la paura della morte dei nostri cari sia legata alla paura dell’oblio, e reciprocamente, quanto la paura dell’oblio sia legata alla morte di un’intera generazione», osserva Beckermann in voce fuori campo.
Come controcampo della sua trilogia sulla memoria, in occasione di una mostra sui crimini della Wehrmacht, la regista realizza nel 1996 un film sull’oblio, Jenseits des Krieges. Lasciando da parte le fotografie esposte, Beckermann interroga i visitatori, per la maggior parte ex soldati, sui loro ricordi della guerra. Va tenuto presente che questo gioco di memoria e oblio all’opera nei film di Beckermann dà luogo a una tensione permanente tra la storia e il presente: sullo sfondo di Papierene Brücke è in corso la campagna elettorale per le presidenziali che vede scoppiare lo scandalo attorno alla figura di Kurt Waldheim, in seguito eletto, del quale riaffiora il coinvolgimento nel regime nazista. Il caso Waldheim riesuma il violento antisemitismo di una parte della popolazione e crea un cortocircuito doloroso nella distanza tra presente e passato. Quando quasi tredici anni dopo Beckermann gira Homemad(e) (2001) in via Marc Aurel, dove si trova la sua casa a Vienna, l’ingresso di Jörg Haider del Freiheitliche Partei Österreichs nel governo federale proietta istantaneamente sul quartiere un’ombra rievocante l’atmosfera della Vienna degli anni Trenta. Queste insorgenze del passato nel presente del film non contribuiscono però a un fatalismo e a una visione tragica per la quale la storia è destinata infallibilmente a ripetersi, al contrario, illuminano la trama complessa della memoria e della sua inscrizione dentro al tempo presente.
È attraverso il prisma di un simile gioco di corrispondenze, epistolari e mnemoniche, che Die Geträumten prende in prestito il titolo da una delle lettere di Bachmann e suggerisce per il film la possibilità di creare lo spazio tangibile di un incontro, tra i due amanti separati, così come tra loro e noi. Ma ad essere creata è soprattutto una comunità dei sognati e di coloro che non appartengono a nessun luogo («unzugehörig»), all’interno della quale Beckermann ha chiaramente un posto, insieme a un certo numero di scrittori e cineasti che condividono questo sentimento di «unheimlich heimisch». Basti pensare a Nurith Aviv, la quale ha efficacemente affrontato il tema del linguaggio e della memoria in tutte le sue opere e che ha lavorato come direttrice della fotografia in quattro film di Ruth Beckermann. Oppure alla scrittrice e drammaturga Hélène Cixous, che da subito ha rintracciato nel cinema di Beckermann una prossimità affettiva e intellettuale con la propria scrittura, e che ha costruito, con Osnabrück, una storia simile a quella di Celan, Bachmann, Beckermann… Il suo destino familiare7. O ancora, allo scrittore e regista Robert Bober, che ha presentato lo scorso luglio al festival internazionale di documentario di Marsiglia il suo Wien vor der Nacht, cronaca autobiografica del suo ritorno in una città dove è sepolto il suo bisnonno, contemporaneo di Freud e Zweig8. E infine, a colei che forse più strettamente e più dolorosamente fa parte di questa comunità: Chantal Akerman. All’ultima edizione del festival Cinéma du Réel a Parigi, dove Die Geträumten è stato premiato, era presente anche l’ultimo film della regista scomparsa pochi mesi prima, No Home Movie (2015).
L’accostamento dei due film apre una serie di prospettive incrociate sulla filmografia dell’una e dell’altra regista. Anche No Home Movie mette in scena una corrispondenza, in questo caso attraverso i canali contemporanei della comunicazione virtuale e istantanea al posto dello scambio epistolare che caratterizzava quasi quarant’anni fa News From Home (1977). Attraverso questo ritratto della madre, viene come disegnato in filigrana anche un autoritratto della regista stessa nel gioco di identità e differenze che il film opera tra la figura materna nell’appartamento di Bruxelles e la figlia viaggiatrice. Il cinema di Akerman ripercorre come quello di Beckermann, seppur in maniera forse più sotterranea, una genealogia familiare segnata dall’esperienza e dalla memoria del disastro. I racconti dei sopravvissuti, i genitori o i vicini di casa, per l’una, i ricordi materni condivisi nell’appartamento brussellese per l’altra, determinano i punti di ancoraggio di questa memoria, ed entrambe ne hanno fatto la matrice di una ricerca a un tempo intima e storica. Se la questione dell’ebraismo sembra affrontata meno esplicitamente da Akerman rispetto a Beckermann, essa si confonde in realtà con i temi dell’alienazione e della solitudine che infestano i destini femminili di Je, tu, il, elle (1974), Jeanne Dielman (1975), Les Rendez-vous d’Anna (1978) o ancora La Captive (2000). È centrale poi in Histoires d’Amérique (1989) o Là-bas (2006). Infine, è come diffratta attraverso i ritratti di anonimi, di oppressi e di migranti nella trilogia formata da D’Est (1993), Sud (1999) e De l’autre côté (2002). Girato sette anni dopo Die Papierene Brücke, D’Est compone un dittico con il film di Beckermann: il titolo prova d’altronde l’ambiguità di questo viaggio verso l’oriente, il quale consiste in un ritorno alle origini senza però che in nessun momento un’immagine o una voce ne certifichino questa dimensione biografica. La camera scivola lungo paesaggi rurali e urbani, attraverso luoghi pubblici e domestici, senza mai indicare allo spettatore uno spazio o un protagonista. La scrittura dell’«io» non è qui funzione di un atto locutorio per la regista9. E tuttavia, questa non è meno potentemente incarnata dalla potenza dei ritratti filmati. D’Est, come ben formulato da Alisa Lebow, è «un road movie ebraico errante alla ricerca del suo soggetto autobiografico»10.
Tale autobiografia familiare Akerman l’ha condotta altrove, nei racconti in cui confonde la propria voce con quella della madre (Une famille à Bruxelles)11, o in film come Marcher à côté de ses lacets dans un frigidaire vide, presentato alla galleria Marian Goodman nel 2004, nel quale sfoglia un diario intimo della nonna polacca redatto in un campo di concentramento, con la madre che le traduce tali ricordi mischiandoli ai suoi. Il tema del destino familiare appare come una costante, presente sotto forma di un sentimento di alienazione ed estraneità o nei vicoli ciechi della memoria. Tali racconti e tali silenzi di famiglia, segnati dal trauma della deportazione della madre e della nonna, danno luogo in Akerman a una genealogia perseguitata dalla scomparsa e dall’oblio. In un’opera di carattere autobiofgrafico apparsa nel 2004, la regista cita la «Fuga di morte» di Celan, versi composti dal poeta come cenotafio per la madre assassinata in un campo12. Una scrittura a cui pare accomunata dal medesimo senso di dolore, prima di seguire lo stesso destino dell’autrice, è quella di un’altra poetessa, Sylvia Plath, le cui lettere alla madre Akerman aveva già messo in scena in Letters Home (1986). Beckermann e Akerman sono degli “esseri-in-cammino” che interrogano senza sosta la dislocazione delle proprie identità. Una differenza però le separa radicalmente: quella, per l’appunto, della memoria familiare e dell’esperienza della Shoah, una «fuga di morte» che non ha mai cessato di infestare i film e gli scritti di Akerman, mentre Beckermann ha fatto di questa ricerca solitaria della storia e dell’identità ebraiche un gesto di sopravvivenza.
È in questo aspetto, forse, che la corrispondenza tra Akerman e Beckermann viene a coincidere con quella di Celan e Bachmann: tra le due registe, come tra i due poeti, sussiste una «differenza irriducibile» relativa al peso del trauma all’interno del loro retaggio familiare. Se le lettere di Bachmann trovano nel film di Beckermann una risonanza di tale calibro, è senza dubbio anche a causa del comune tentativo delle due, vano, di salvare Celan dall’abisso della memoria del disastro. In una lettera del 24 novembre 1949, Bachmann scriveva a Celan: «Piena di paura, vedo che vieni spinto alla deriva in un mare immenso, ma io voglio costruirmi un vascello e ricondurti a casa lontano dal tuo smarrimento. […] Il tempo e molte cose ancora sono contro di noi, ma il tempo non ha il diritto di distruggere ciò che da lui vogliamo salvare»13.
Note
↩1 | In merito, vedere Hillary Hope Herzog, «Vienna is different». Jewish Writers in Austria from the Fin de Siècle to the Present, New York/Oxford, Berghahn Books, 2011. |
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↩2 | Stefan Zweig, trad. di Lavinia Mazzucchetti, Il mondo di ieri: ricordi di un europeo, Milano, Mondadori, 1979 [1946], p. 4. |
↩3 | Ingeborg Bachmann, Paul Celan, trad. di Francesco Maione, Troviamo le parole: Lettere 1948-1973, Roma, Nottetempo, 2010, p. 63. |
↩4 | Ruth Beckermann, Unzugehörig: Österreicher und Juden nach 1945, Vienna, Löcker Verlag, 1989. |
↩5 | Christa Blümlinger, «Les divagations d’une voyageuse autrichienne», Trafic, n° 49, marzo 2004, p. 100. |
↩6 | Zweig, op. cit., p. 4. |
↩7 | Hélène Cixous, Osnabrück, Paris, Des femmes, 1999. Vedere anche Hélène Cixous, Cécile Wajsbrot, Une autobiographie allemande, Parigi, Christian Bourgois, 2016. |
↩8 | Nel 1975, con il suo primo lungometraggio, Robert Bober aveva già intrapreso la strada di questa genealogia familiare andando in Polonia sulle orme di suo padre, profugo fuggito dalla Germania, apolide di origine polacca. |
↩9 | Almeno nella sua versione cinematografica, nell’installazione D’Est, al limite della finzione, il lungometraggio è accompagnato da due altri pezzi, uno dei quali è composto da un monitor che trasmette un monologo di Akerman teso a fornire delle chiavi di lettura delle immagini. |
↩10 | Alisa S. Lebow, First Person Jewish, Minneapolis, Londra, University of Minnesota Press, 2008, p. 4. |
↩11 | Chantal Akerman, Une famille à Bruxelles, Parigi, L’Arche, 1998 |
↩12 | Chantal Akerman, Autoportrait en cinéaste, Parigi, Cahiers du cinéma / Centre Pompidou, 2004. |
↩13 | Bachmann, Celan, op. cit., p. 17-18. |
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