Cosa può una lingua?

Contro-narrazioni architettoniche per risemantizzare la memoria

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Andrea Lo Giudice, "A+G" - intervento sulla facciata del palazzo Wegil (2022).

Alle prime luci dell’alba, quando il sole riemerge dal buio profondo,
il suo calore torna a nutrire le lettere addormentate, vestendole di una materia verde e vibrante.

È l’inizio di un nuovo divenire da cui prende vita una narrazione alternativa:
la dichiarazione di una postura dissonante,
il racconto sensuale di un compost in fiamme.

A+G, opera di Andrea Lo Giudice, è una storia d’amore. Un progetto che prende vita a partire dalla necessità di risemantizzare lo spazio del WeGil, ex Casa della Gioventù Italiana del Littorio che, per il quarto anno consecutivo, è stata scelta da Short Theatre come sede in cui ospitare gran parte dei contributi culturali del festival. Costruita dall’architetto Luigi Moretti nel 1933 su commissione dell’Opera Nazionale Balilla, l’architettura in questione è una delle tanti facenti capo al progetto nazionalista della dittatura mussoliniana. Le aquile sulla porta d’ingresso del palazzo trasteverino scrutano coloro che entrano nell’edificio protette da uno dei tanti motti del fascismo che, dispiegandosi sulla facciata principale, apre un canale temporale che tiene vivo l’inevitabile confronto tra passato e presente, richiamando alla memoria la storia traumatica di un’Italia compartecipe al progetto di razializzazione capitalista.

D’altronde, poiché l’uomo ha memoria breve, accumula per una ragione o un’altra, innumerevoli ricordi-aiuto. Innalza edifici, costruisce monumenti e incide parole che possano rimanere impresse nella storia nonostante l’inesorabile scorrere del tempo. Eppure, spesso, quegli stessi edifici, quegli stessi monumenti e quelle parole, finiscono per diventare invisibili agli occhi di coloro che guardano. Intoccati e intoccabili, continuando silenziosamente a perpetuare il trauma di un passato intrappolato nel tempo. Del resto, l’amnesia culturale non è un meccanismo casuale della modernità, quanto piuttosto un prodotto intrinseco e necessario, incorporato nell’esperienza fisica degli spazi in cui viviamo, fratello del piano colonialista, affiliato del progetto capitalista: la forma più riuscita di una retorica istituzionale che mira a indebolire e rafforzare determinate ideologie, alterando la memoria a seconda della necessità.

Tramite la nominazione e creazione di elementi combinati tra loro, il neoliberismo razionale ha di fatti fin da sempre scritto e cancellato storie, costruendo miti a partire dall’esigenza di attribuire a una certa narrazione il particolare valore di punto di riferimento culturale e costitutivo di una data società. Attraverso le parole, ha modellato mondi, scegliendo cosa inserire e cosa tenere fuori dal sensibile, servendosi del linguaggio per costruire la comunità, gli spazi e le identità utili alla propria esistenza. Con l’atto di ripresa e ripetizione identica a sé stessa, ha sfruttato, e sfrutta ancora, il racconto per incistare ideologie escludenti ed alienanti. Un processo di myth making che si realizza innanzitutto a livello discorsivo. Come insegna del resto J.L.Austin in una serie di lezioni dal titolo How To Do Things With Words, il linguaggio è dotato di una funzione performativa per cui, gli atti linguistici, più che limitarsi a esporre fatti e descrivere cose, sono in grado di compiere vere e proprie azioni nel momento stesso in cui vengono pronunciati, configurando nuovi stati e nuovi scenari. Frasi che non solo dicono qualcosa, ma che eseguono l’azione stessa di cui parlano, producendo nuovo sensibile.

Di fronte a un sistema egemonico che si reifica quotidianamente nella parola dunque, si è animata nel corso degli ultimi anni l’esigenza di rispondere attraverso la parola stessa. Utilizzarla come forma di resistenza per la produzione di nuove storie e la riattivazione del possibile in un’apertura al divenire. Se infatti le istituzioni dominanti spesso ostacolano la memoria, l’inclusione e l’immaginazione, attraverso l’impulso all’archiviazione, le pratiche estetiche si rivelano una fonte preziosa di risorse. Speculando su possibilità pensabili, diventano l’arma per una profanazione corale in grado di risvegliare le nostre immaginazioni: pratiche che rispondono all’esigenza di dare voce a una nuova resistenza. Pratiche che alimentano un altro approccio all’archivio, dettato più dalla volontà di riscrivere la storia, che dall’esigenza di controllarla.

Mentre l’Europa sprofonda rapidamente sotto un’onda di fanatismi nazionalisti in cui la promessa della democrazia è continuamente messa in discussione, la necessità di contestualizzare spazi e tempi attraverso discorsi e approcci socio-culturali affermativi, gioiosi e trasformativi, si è fatta ancora più urgente. È così che il lavoro di Lo Giudice si inserisce all’interno del dibattito contemporaneo, rivelandosi fortemente attuale. Con il tentativo di risvegliare dall’oblio strutturale dilagante, l’artista interviene sulla facciata della ex Gil con un’azione che tenta di portare alla luce una contro-narrazione. Attraverso la collaborazione con le restauratrici Michela Gottardo e Francesca Cencia, Lo Giudice ha realizzato un compost – fatto di pigmento fosforescente e ciclododecano – in grado di assorbire la luce solare. Applicato solo su alcune delle lettere che costituiscono il motto fascista, la materia permette al testo di illuminarsi e rinascere nella forma di una composizione poetica che ha il potere di risignificare l’architettura. Svegliandosi ogni mattina e addormentandosi ogni notte, l’opera mette in scena una performance continua in cui il testo è il protagonista principale. Un testo che diventa materia agente più che mero agglomerato di simboli in attesa di essere significati: attraverso le parole, trapassa dallo scrittore al lettore come sciame di atomi in movimento e qualsiasi gerarchia o autorialità si perde in un processo di co-immaginazione creativa in cui tutte le parti coinvolte si alleano come fossero un solo organo pulsante.

Assumendo un approccio generativo – piuttosto che imitativo – al «materiale storico», l’intervento di Lo Giudice parla quindi della volontà contemporanea di resistere al sistema egemonico disciplinare e di controllo, così come ai suoi regimi repressivi. In una trasformazione che coinvolge simultaneamente il passato, il presente e il futuro, si apre una finestra su una nuova economia del tempo in cui l’opera agisce sul mito e, con un atto di manipolazione del motto inciso sulla parete frontale dell’architettura, configura nuove parole per nuove grammatiche nel desiderio di restituire alla comunità i suoi futuri perduti e quelli desiderati.

Ora, sebbene nella sua accezione più comune, manomettere stia per danneggiare, alterare con l’intenzione di violare – meglio poi se ciò che si altera non è di propria appartenenza –, spostando lo sguardo sull’altro lato della montagna lo stesso termine assume il significato di liberare. La manomissione infatti nell’antica Roma, era un processo attraverso cui il dominus (o padrone), liberava lo schiavo e gli dava cittadinanza, rinunciando alla manus che aveva su di lui. Quindi: Violare e Liberare al tempo stesso. Una doppia accezione che implica un duplice e possibile approccio alle parole: se infatti da un lato i dispositivi di potere e le sue istituzioni si costruiscono continuamente attraverso degli enunciati discorsivi, dall’altro si staglia la possibilità di costituire un nuovo vocabolario dalla A alla Z: termini che generino altri termini per sfuggire alle relazioni istituzionalizzate dal capitalismo avanzato e dalle ideologie eteronormative, razziali e patriarcali. Parole per produrre nuove parole in movimento, per nuovi e più intensi rapporti di parentela affettiva.

Aprendo uno squarcio sul passato ereditato Lo Giudice lascia entrare un po’ di caos ventoso capace di raccontare la resistenza. Attraverso la ripresa del testo di fatti, riconnette l’edificio del We Gil alle pulsioni delle società contemporanee, raccontando dei fantasmi del capitale che continuano a sollevarsi, riemergendo dalle crepe del passato per riprendersi le città del mondo e tutti gli spazi sottratti. Per riprendersi l’immaginazione e riscoprirsi comunità.

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