Un tema di particolare attualità, quello dei rapporti tra Architettura, Arte ed Operaismo, eppure un tema complesso qui indagato a partire dalla pubblicazione di un brillante saggio sul progetto dell’Autonomia. Con incursioni >…
Dare forma al collettivismo
Il gruppo N tra Olivetti e Classe Operaia
In anni recenti, gli apporti concettuali dell’operaismo e del marxismo autonomo italiano (anche nella sua declinazione femminista) sono stati utilizzati dagli storici dell’arte e dell’architettura che lavorano nel mondo anglofono. Alcuni studi si sono limitati a connessioni grossolane che rivelano soprattutto la fretta di allinearsi con quella che appare come l’ultima moda in fatto di theory. In altri casi, però, le ricerche hanno prodotto risultati notevoli, reinterpretando esperienze capitali, quali l’ideologia classicista dell’architettura di Brunelleschi o il rifiuto del lavoro delle avanguardie storiche. L’importanza crescente di questo tipo di marxismo non ha riguardato solo gli storici, ma anche i giovani artisti (si può citare l’australiano Marco Fusinato o il duo Claire Fontaine), gli architetti (come Amit Wolf e Pier Vittorio Aureli), i grafici (Emilio Macchia) e le mostre, quali la Biennale di Venezia e Documenta. Dal conto loro, pur con molte differenze, Negri, Bifo, Lazzarato, Virno hanno contribuito ad alimentare questo fenomeno, riflettendo sulla ricadute politiche dell’espansione del lavoro creativo.
L’idea, di matrice romantica, che il fare artistico non rappresenti una tipologia sui generis di forza lavoro, ma una forma libera, realizzante ed eminentemente umana di produzione che dovrebbe essere socializzata, si è inverata – ma come farsa
Per gli artisti, una delle ragioni di questo interesse risiede nell’attualità delle indagini che la galassia operaista e autonoma ha consacrato al lavoro, visto come luogo di conflitto dove le dimensioni affettive e cognitive incontrano a un tempo l’economia domestica e la finanza internazionale. Nell’universo post-fordista, il lavoro artistico è gradualmente diventato un caso tanto estremo quanto paradigmatico delle condizioni in cui versa il lavoro vivo. L’idea, di matrice romantica, che il fare artistico non rappresenti una tipologia sui generis di forza lavoro, ma una forma libera, realizzante ed eminentemente umana di produzione che dovrebbe essere socializzata, si è inverata – ma come farsa. A costo di una semplificazione, si può affermare che, se da un lato, i luoghi di estrazione di plusvalore si sono moltiplicati, dall’altro, l’estetico ha gradualmente perso la specificità e l’autonomia che parevano essergli connaturate. Tuttavia, l’emergere di una sorta di creatività diffusa nel terzo settore ha poco o nulla a che spartire con le finalità emancipatrici che le avanguardie, i situazionisti o l’ala creativa del 1977 attribuivano allo sconfinamento dell’arte nella vita. Se a lungo l’artista aveva incarnato l’antagonista del borghese, oggi quelli che erano gli aspetti più deleteri della sua condizione (l’inclinazione all’autosfruttamento, la non-sindacalizzazione, il cottimo, l’arbitrarietà delle remunerazioni) diventano i tratti dominanti del nuovo mercato del lavoro nei Paesi più ricchi. È in questa congiuntura – e certo non a causa di una ritirata strategica o narcisista nel «culturale» – che il marxismo operaista e quello autonomo, così come la loro rielaborazione negli ultimi vent’anni, acquistano una valenza inattesa per l’estetico.
L’interesse internazionale degli artisti e degli architetti per il marxismo eterodosso italiano non è però una novità. Negli anni Sessanta e Settanta artisti, architetti, progettisti e urbanisti italiani lessero od orecchiarono i testi di Tronti, Negri, Alquati, Bologna, Dalla Costa, Fortunati, ecc. È lecito pertanto domandarsi in che misura le idee e l’immaginario dell’operaismo e dell’autonomia siano confluiti nel loro lavoro. Porsi questa domanda non equivale a cercare di affibbiare ad alcuni artisti l’etichetta di «operaista». Al contrario, l’intento è, piuttosto, quello di trovare nel passato strumenti per capire il presente e, al contempo, mostrare, a dispetto dell’ostracismo nazionale nei confronti dei cattivi maestri, come alcune idee di ascendenza operaista e autonoma siano penetrate nella cultura italiana e intridano ora una cultura transnazionale.
Uno degli esempi più precoci di questo incontro è l’avventura del gruppo N. Il gruppo N nasce a Padova intorno al 1960, ed è formato da Alberto Biasi, Ennio Chiggio, Toni Costa, Edoardo Landi e Manfredo Massironi, tutti nati nella seconda metà degli anni trenta. Sono giovani formatisi a Venezia studiando l’architettura e il design, ma che guardano al mondo artistico milanese, a Fontana, alle mostre della galleria Apollinaire e ad Azimut, la galleria autogestita di Piero Manzoni ed Enrico Castellani. Manzoni li mette in contatto con il GRAV, un gruppo di sei artisti che ha sede a Parigi e che diviene uno degli interlocutori privilegiati dei padovani. Padova è una realtà provinciale, ma la destalinizzazione porta un’aria nuova nella sinistra locale, come testimonia l’effimera esperienza del Circolo del Pozzetto. Diretto dall’intellettuale del PCI Ettore Lucchini, il Pozzetto riesce per qualche anno a proporre un dialogo con le scienze sociali, il marxismo eterodosso e l’arte d’avanguardia, presentando ad esempio opere di John Cage, di Manzoni e di Heinz Mach del Gruppo Zero. Nel 1960, tuttavia, il PCI chiude i battenti del Circolo, non ritenendolo né un contributo alle istanze della classe operaia né una loro espressione. I membri di N non approvano questa svolta, e alcuni di loro decidono di non aderire alla FGCI anche per questa ragione.
Sul modello di Azimut, nel 1960 N inaugura uno studio che svolge sia la funzione di atelier che quella di luogo espositivo. Le prime mostre perseguono il fine di provocare la borghesia locale e di suscitare un dibattito multidisciplinare. N organizza mostre dedicate all’arte, ma anche alla musica sperimentale e all’urbanistica – il giovane Paolo Deganello, poi membro di Archizoom, presenta le sue ricerche sul piano di ampliamento urbano di Amsterdam di Cornelis van Eesteren. Ciononostante, il corpus principale del lavoro del gruppo concerne la visione. N esplora le illusioni ottiche studiate dalla psicologia della Gestalt, una corrente anti-soggettiva della psicologia, i cui testi chiave sono allora tradotti in italiano. Mediata da una probabile lettura di Fisica e filosofia di Heisenberg, l’indeterminazione percettiva della Gestalt diventa per N quasi metafora di un’epistemologia scettica. Le marezzature delle Visioni dinamiche e i trompe-l’œil realizzati dal gruppo sottendono però anche una dimensione sociale, poiché incarnano un’arte economica, ludica, riproducibile e intellettualmente non elitaria, in quanto non postula conoscenze pregresse relative alla storia dell’arte.
In un contesto in cui il mondo libero strumentalizza la figura dell’artista, presentandola come simbolo di autonomia e indipendenza in chiave anti-sovietica, i membri di N non accettano il ruolo di utile idiota. All’individualismo carismatico ed eroico del creatore il gruppo padovano reagisce realizzando le opere collettivamente
In un contesto in cui il mondo libero strumentalizza la figura dell’artista, presentandola come simbolo di autonomia e indipendenza in chiave anti-sovietica, i membri di N non accettano il ruolo di utile idiota. All’individualismo carismatico ed eroico del creatore il gruppo padovano reagisce realizzando le opere collettivamente. N attacca esplicitamente il culto della personalità, il mito della creazione artistica e rivendica la ricerca di un’etica di vita collettiva (?), con un punto di domanda che chiosa con ironia le velleità totalizzanti dell’avanguardia. Il gruppo sposa una retorica scientista e tecnicista che s’inspira in parte all’autorialità collettiva dei laboratori di ricerca, visti come arene di un dibattito neutrale e spregiudicato. La postura di N è a tratti vagamente saint-simoniana. I membri sono affascinati dall’idea di superare hegelianamente l’arte per divenire degli sperimentatori indipendenti al servizio della collettività. E tuttavia questa vocazione ecumenica è incrinata dalla lettura dei «Quaderni Rossi» e da un panorama sociale che vede rinascere, a Genova, a Reggio Emilia, e poi in Piazza Statuto, l’antifascismo e la lotta di classe.
A meno di due anni dall’inaugurazione dello studio N, gli artisti sono avvicinati da Munari che sta organizzando, nello showroom milanese di Olivetti, una mostra dedicata a ciò che Umberto Eco chiamerà nel catalogo arte programmata. La società d’Ivrea intende proporsi non solo come magnanimo mecenate, ma anche come un marchio capace di riconciliare alta tecnologia, illuminismo padano, socialismo azionista e arte italiana, in una fase in cui il made in Italy è agli albori. La mostra procura visibilità ai partecipanti (N, Enzo Mari, il Gruppo T, etc.) e introduce alcuni di loro nel mondo dell’industria, del design e della televisione. Il gruppo si trova confrontato a un dilemma simile a quello che emerge nelle scene finali di La notte (1961) di Antonioni. Un ricco industriale propone a un intellettuale, Giovanni Pontano (Mastroianni), di raccontare la commuovente storia della propria azienda allo scopo di instaurare un clima meno conflittuale con i dipendenti. Giovanni è lusingato ma perplesso. Dopo la mostra da Olivetti, a N, come a Giovanni, è offerta la possibilità di farsi decoratore e apologeta del boom economico, svolgendo al più la funzione di coscienza critica, di ospite ingrato in qualche dipartimento di ricerca e sviluppo. N non riuscirà a elaborare una sintesi delle diverse posizioni dei propri membri. Le conseguenti tensioni sfoceranno nello scioglimento.
L’anno seguente, N vince, a pari merito con il Gruppo Zero, il premio delle Biennale di San Marino. Giulio Carlo Argan, che cura questa edizione della Biennale, è l’artefice della vittoria. In una serie di articoli apparsi su Il Messaggero, il critico socialista si fa propugnatore dell’arte della Gestalt, leggendola in chiave umanista, come un austera critica morale al boom economico e come risposta europea alla pop art americana, che Argan interpreta come complice dei capziosi messaggi veicolati dai mezzi di persuasione di massa. Nei dibattiti che faranno seguito Massironi redige a nome del gruppo due testi compiutamente operaisti, che sconfessano, almeno in parte, le tesi di Argan alla luce delle intuizioni di Tronti.
A quando risale questa radicalizzazione? Nel luglio del 1963 alcuni scioperi a Porto Marghera sono organizzati contro la volontà dei sindacati e danno vita al Comitato Operaio di Marghera. Alcuni membri di N, e in modo più determinato Massironi, la sua compagna Franca e Chiggio, seguono le lotte e condividono le analisi, tra gli altri, di Negri, che Chiggio e Biasi conoscono sin dall’adolescenza. Nell’immaginario di alcuni membri di N, il modello collettivista del Comitato sostituisce l’astratto ideale di collaborazione della comunità scientifica. I rapporti di stima e amicizia con Bianchini, Negri e con gli altri operaisti padovani spingono N e la redazione veneta della neonata Classe Operaia ad aprire uno studio comune nei dintorni del Duomo. Il dialogo s’infittisce. Massironi si occuperà dell’impaginazione di Classe Operaia e poi di Lavoro Zero. Chiggio disegnerà in seguito il logo di Potere Operaio e fonderà con Paolo Deganello i Quaderni del Progetto.
I membri decidono di formalizzare il proprio impegno collettivo attraverso un Contratto di collettivizzazione della durata di dieci mesi. Il testo prevede una collettivizzazione dei mezzi di produzione, della proprietà delle opere e dei ricavi. Il documento prescrive inoltre una remunerazione proporzionale al tempo di lavoro trascorso nello studio
Il gruppo continua la propria esplorazione gestaltica che lo conduce a esporre, sotto l’egida di Argan, alla Biennale di Venezia del 1964. Parallelamente, i membri decidono di formalizzare il proprio impegno collettivo attraverso un Contratto di collettivizzazione della durata di dieci mesi. Il testo prevede una collettivizzazione dei mezzi di produzione, della proprietà delle opere e dei ricavi. Il documento prescrive inoltre una remunerazione proporzionale al tempo di lavoro trascorso nello studio. Quest’ultima clausola è però un’arma a doppio taglio, poiché favorisce i membri che provengono da famiglie agiate e che dispongono di più tempo da dedicare al gruppo. Inoltre, a dei lavoratori immersi in un mondo, quello dell’arte, in cui il momento produttivo è estremamente elusivo e poco quantificabile, non sfugge il paradosso di una siffatta remunerazione. In attesa di un contratto più conforme a uno spirito rivoluzionario, il gruppo sottoscrive a quella che definisce come una maniera reazionaria di valutare il lavoro, poiché non considera l’attività di ricerca che non abbia come scopo la realizzazione di oggetti tecnicamente finiti [e] ignora l’attività speculativa e le spese connesse a tale attività. N solleva, in nuce, nodi concettuali che saranno al cuore delle lotte autonome (e femministe), e che restano centrali nel dibattito attuale sul reddito minimo universale.
Cionondimeno, al termine dei dieci mesi il malcontento di alcuni membri, e in particolare di Chiggio, non fa che crescere. Il gruppo è poco fedele ai propri impegni: le opere sono realizzate frettolosamente, i testi sono a volte pubblicati senza l’avvallo collettivo. La congiuntura economica, del resto, è sfavorevole. La pop art, promossa dagli Stati Uniti anche con finalità geopolitiche, ha invaso il mercato mondiale, proprio quando la recessione del 1964 ha un impatto rovinoso sul fragile mercato italiano di arte contemporanea. Alla fine del 1964, una lunga lettera anonima inviata a tutti i membri del gruppo, ma in realtà firmata da Chiggio, Landi e Costa, articola una triplice analisi (economica, fenomenologica e psicanalitica) del fallimento di N e della sua rivoluzione borghese. Il testo invoca la necessità di porre fine all’esperienza collettiva, «compagni del gruppo se siete ancora un po’ rivoluzionari, uccidete il gruppo N». Massironi e Biasi prendono atto e accettano lo scioglimento; il loro tentativo di proseguire il lavoro con il nome di Gruppo N 65 non dura che qualche mese. Il MoMA, nel 1965, celebra l’arte programmata, cinetica e l’op art a The Responsive Eye, una mostra visitata da un pubblico immenso. Le opere di N sono presenti ma, a eccezione di Biasi, i membri di N hanno già preso, anche per ragioni politiche, altre strade: l’insegnamento, il design o la graduale cessazione dell’attività artistica.
Massironi e Chiggio parteciperanno a Potere Operaio e saranno indirettamente coinvolti nel processo 7 Aprile, in seguito al quale lo stigma che pesa sugli ex membri di Potere Operaio farà diventare quasi un taboo la comunanza d’intenti e d’ideali tra gli operaisti e N nel biennio 1963-1964. Alla fine degli anni Ottanta, sarà Negri, dall’esilio parigino, a ricordare con toni elegiaci la partecipazione di N all’esperienza esaltante della fondazione di Classe Operaia. In Arte e Multitudo Negri si rivolgerà a Massironi con un’epistola intitolata Lettera a Manfredo sul lavoro collettivo:
Caro Manfredo,
Ricordi il «gruppo N»? Ricordi quando scimmiottavamo gli ingegneri e gli operai e gli psicologi, scomponendo il lavoro, dissolvendo prima e riplasmando poi meccanicamente gli oggetti, costruendo macchinette e producendo illusioni ottiche – una specie di orgiastica taylorizzazione dell’arte! […] Tutto questo era terribilmente artigianale ed un po’ paranoico. Ma in quest’operazione allignava una verità: che l’arte è lavoro collettivo, che la sua materia è lavoro astratto… Come eravamo giovani hegeliani, allora! Eppure quanti vezzi di verità c’erano in quella nostra follia! […] come esprimere questo collettivismo elementare? […] Come dire l’essenza astratta collettiva come base dell’arte?
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