Fare attrito

Ovvero la politicità dell'arte al di là dell'opera

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Annotazioni di Giuliano Scabia sulla copia in suo possesso dell'immagine scattata del 1964 dopo la rappresentazione de «La fabbrica illuminata». Courtesy Archivio Scabia.

Dopo aver letto fino in fondo il libro di Annalisa Sacchi, Inappropriabili. Relazioni, opere e lotte nelle arti performative in Italia (1959-1979), Marsilio (2024), una domanda diventa inevitabile e sempre più insistente: cos’è successo in questo paese dopo la «grande ondata rivoluzionaria e creativa, politica ed esistenziale» (questo è il sottotitolo de L’orda d’oro, il libro di Nanni Balestrini e Primo Moroni uscito la prima volta nel decennale del Settantasette), degli anni Sessanta e Settanta? Com’è stato possibile che uno dei laboratori culturalmente e politicamente più interessanti della scena internazionale si sia trasformato in poco tempo prima in un deserto e poi in quella società dello spettacolo (integrato) profetizzata da Guy Debord e indissolubilmente legata a un’egemonia culturale passata attraverso le televisioni commerciali degli anni Ottanta e Novanta e che oggi si invera nel feuilleton amoroso tra la lavoratrice precaria Maria Rosaria Boccia, giovane provinciale in cerca di fortuna che conosce tutta la potenza comunicativa di Instagram, e il plenipotenziario ministro dei beni culturali ‒ quasi una caricatura di quei presidi alle prese con le supplenti interpretati da Lino Banfi e Anna Maria Rizzoli nelle commedie di Mariano Laurenti, Sergio Martino e Nando Cicero ‒, che in lacrime chiede scusa alla moglie dentro uno schermo televisivo che sa di secolo ormai archiviato.

Quanto potente è profonda è stata quella controrivoluzione iniziata dopo l’epilogo tragico del rapimento Moro, che ha così profondamente trasformato e impoverito la scena italiana? E come ha potuto così velocemente «smemorarci» rispetto a un mondo radicalmente altro? In realtà lo ha spiegato bene Paolo Virno, più volte citato dalla Sacchi, quando ha scritto che gli anni Ottanta sono stati un «Settantasette rovesciato»: questo significa che la controrivoluzione ha vinto non tanto e non solo attraverso la repressione violenta – che pure c’è stata –, ma riuscendo ad appropriarsi di un modello culturale che ha svuotato di contenuto politico per produrre merci estetiche da far circolare su un mercato rinnovato a fondo dalla ristrutturazione post-fordista del modello produttivo. La televisione berlusconiana, insomma, manterrebbe qualcosa dello spirito settantasettino avendone però rovesciato il segno e quindi il senso politico. Si tratta dello stesso processo descritto, tra gli altri, da Mark Fisher rispetto al punk che diventa mainstream negli anni Novanta e poi, sempre più depoliticizzato, finisce sul palco del Festival di Sanremo. L’industria culturale riesce, insomma, ad appropriarsi in continuazione delle avanguardie e del loro impianto sperimentale disinnescando però la carica politicamente sovversiva di queste ultime. Si tratta di un processo inevitabile e quindi questo significa che la potenza inventiva del capitalismo ci condanna a rinunciare a qualsiasi idea di trasformazione dell’esistente e ad abbandonare qualsiasi illusione rispetto a una pratica artistico-politica che possa fare davvero attrito con lo stato di cose presenti?

Il libro di Annalisa Sacchi, proprio in questo senso, ci viene in soccorso come una vera e propria arma (e questo dovrebbe essere sempre un libro lontano da un qualsiasi esercizio di narcisismo personale o di sterile accademismo, senza per questo perdere nulla del rigore della ricerca), scavando e restituendo – come nel gioco della matassa o «ripiglino» ‒ ciò che di più «inappropriabile» c’è stato nelle opere, nelle lotte e nelle arti performative in un recente passato che si fa presente in ogni momento in cui la mancanza d’aria ci costringe a respirare, o meglio co-spirare, tutti insieme. Questa mi pare che sia una delle tesi della Sacchi: che ci sia sempre qualcosa di cui il sistema dell’industria culturale non riesce ad appropriarsi, perché eccessivamente radicale, sfuggente, disobbediente, non addomesticabile e quindi «inappropriabile» nella sua capacità di continuare a fare attrito. Se guardiamo agli anni a cavallo tra il decennio Settanta e Ottanta ci rendiamo conto che qualcosa della scena più radicale è stato «recuperato» (proprio nel senso «situazionista» del termine) dentro il lungo inverno della controrivoluzione perché in qualche modo era un qualcosa che si poteva «acclimatare» meglio e quindi continuare a sopravvivere, se non proprio essere messo a valore come pure è successo per qualcuno, ma molto è stato rimosso, dimenticato, sradicato completamente dalla memoria artistica e culturale perché ancora pericoloso e potenzialmente sempre sovversivo rispetto alle forme di vita tardo-capitalistiche.

E qui è possibile ri-scoprire lo spinoziano Aldo Braibanti, già antropologo ante-litteram delle nuove alleanze ibride e intra-specie, il cui processo rimanda direttamente alla crisi dello Stato-sovrano dei partiti e quindi alle forme di vita borghesi nate dalla Rivoluzione francese e ormai fatte esplodere dal Sessantotto, ma che cercano di sopravvivere a sé stesse come degli zombie, o il «renitente» Alberto Grifi che non ha mai smesso di far esplodere il dispositivo industrial-cinematografico, da Verifica incerta (1964, in alleanza con Gianfranco Baruchello, altro corpo piuttosto estraneo rispetto alla scena artistica più mainstream) che anticipa Blob, ad Anna (1975) e, ancora, Parco Lambro (1976), film «impossibili» rispetto a una realtà che spodesta il ruolo patriarcale della regia ed eccede ruoli e limiti predefiniti, all’oralità che in Patrizia Vicinelli forza l’egemonia della civiltà della scrittura, alle azioni radicali del duo de Berardinis-Peragallo che a Marigliano, nella periferia di Napoli, finiscono per mettere in discussione la radice stessa della civiltà occidentale, ovvero il teatro come origine del patto estetico-politico dal quale ha origine la polis – e qui sarebbe molto interessante una lettura parallela di un libro tanto snello quanto importante di Gianni Carchia ‒ probabilmente un altro «inappropriabile» che non a caso a Torino aveva avuto frequentazioni operaiste, “Quaderni Rossi”, e poi nell’area della cosiddetta “Critica radicale”, Jacques Camatte ‒, Orfismo e tragedia che nel 1979 ribaltava il percorso del tragico contrapponendo alla città un’alternativa selvatica. Passando ancora per Giuliano Scabia e il suo impegno nelle scuole, nei quartieri e nei manicomi (do you remember Marco Cavallo?), stretto nella contraddizione tra esigenze riformiste dell’istituzione e trasformazione istituente delle forme di vita – e qui molto si potrebbe riflettere sulla cosiddetta arte relazionale e partecipata contemporanea – e per l’avventura di Luigi Nono – ad esempio con La fabbrica illuminata – e la contraddizione tra romanticismo autoriale e inchiesta operaia, o meglio conricerca, come metodo conoscitivo.

Ciò che emerge prepotentemente da queste pagine è come l’arte sia costitutivamente politica, nelle forme prima di tutto e non solo nei contenuti – e come l’opera sia sempre il risultato della cooperazione dell’intelligenza collettiva e mai il risultato del lavoro ispirato di un genio ‒ invenzione moderna che rimanda irrimediabilmente alle radici patriarcali della nostra cultura ‒, e come oggi le arti performative e le arti in genere – fuori e al di là di ogni confine disciplinare del tutto obsoleto – siano pratiche politico-pedagogiche indispensabili a costruire forme di vita che aumentino la nostra potenza di essere, la nostra gioia e la nostra capacità di respirare. Come diceva Aldo Braibanti, «ogni operazione artistica», oggi più che mai e «prima ancora che un rafforzamento alla vita», è «un contributo importante allo sforzo più grande di sopravvivenza». Ora che il mondo nato dalla Rivoluzione francese è alle nostre spalle ma non finisce di finire, ora che il vecchio muore ma il nuovo non può nascere, epperò avvertiamo l’esigenza di non accontentarci solo del tramonto, che pure ha il suo fascino, non possiamo che ri-partire dall’arte e dalle sue straordinarie capacità allo stesso tempo pedagogiche ed estetico-politiche.

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Il libro di Annalisa Sacchi «Inappropriabili. Relazioni, opere e lotte nelle arti performative in Italia (1959-1979)» , Marsilio (2024), verrà presentato oggi 6 Settembre nell’ambito di Short Theatre. L’appuntamento è alle ore 18.00 al Mattatoio

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