Lavoro d’amore

Rifare il mondo, rovesciare le narrazioni

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Claire Fontaine, Ma l'amor mio non muore (2016) - veduta dell'installazione presso l'Accademia di Francia Villa Medici a Roma. Courtesy: l'artista e T293.

Pubblichiamo qui l’introduzione al libro di Bojana Kunst «L’artista al lavoro. Prossimità tra arte e capitalismo», appena pubblicato da Luca Sossella nella collana performance+ (edita in collaborazione con il corso di laurea in Teatro e Arti performative dello IUAV di Venezia). Bojana Kunst è docente e direttrice dell’Istituto di Studi Teatrali Applicati (ATW) dell’Università Justus-Liebig di Giessen, in Germania. Il testo è stato tradotto da Laura Scarmoncin. Ringraziamo l’editore, l’autrice, la curatrice, la traduttrice per la disponibilità e per questo magnifico lavoro.

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The Artist at Work ci è arrivato tra le mani quando ancora freschissimo era il pieno politico delle mobilitazioni di artist^ e lavorat^ dello spettacolo iniziate nel 2010, nell’onda di proteste globali seguite alla crisi economica del 2008. In quel momento le politiche di austerità imponevano tagli alla spesa pubblica, all’istruzione, alla cultura, alla sanità che in Europa ricaddero con particolare violenza sui paesi del sud. Intanto, fiorivano un po’ ovunque i movimenti dei commons contro le privatizzazioni delle risorse comuni, in un’idea di autogoverno dei territori. Nascono gli #occupy, in cui l’occupazione di spazi pubblici si trasforma nella richiesta e nella sperimentazione di forme di democrazia diretta contrapposte alle governance finanziarie, il 15M in Spagna con le piazze colme di persone accampate, si solleva il nord Africa nelle Rivoluzioni dei Gelsomini e poi la Turchia con Gezi Park, le fabbriche occupate in Argentina. Il Mediterraneo è in fiamme, e nel tempo breve di quei baluginii intravediamo altre configurazioni possibili: lo spazio politico dell’Euromediterraneo contrapposto alla Fortezza Europa. Seguiranno repressioni, svolte autoritarie e i muri diventeranno più alti, ma quel baluginio l’abbiamo visto.

Come solo l’intelligenza collettiva riesce a fare, queste lotte trovano punti di comunanza e di convergenza, senza perdere niente della materialità della loro posizione specifica. Risonanze, costellazioni, riverberi. Nelle proteste dell^ lavorat^ precari^ e intermittenti dell’arte in Italia si ritrovano molti di questi fili lunghi: la resistenza ai tagli e alla privatizzazione, un aggiornamento sulle condizioni di precarietà, il tema dell’autogoverno e delle istituzioni del comune costruite dal basso, che scaturirono dalle occupazioni culturali di teatri e altri spazi1. Racconto di questo scenario ampio per restituire la distanza di tali lotte da rivendicazioni corporative e autoreferenziali. Al contrario, l’arte è colta “da dentro” nella sua materialità: viene dunque percepita e raccontata non come un’anomalia, con la sua aura di eccezionalità e di privilegio, ma come l’esempio incarnato delle trasformazioni del lavoro contemporaneo nella svolta postfordista.

In questo quadro, il testo di Bojana Kunst entrava in risonanza con le elaborazioni collettive sulle vite precarie, sull’autosfruttamento, sulla richiesta continua di performatività, sul lavoro d’amore. È dall’interno di questo laboratorio che vorrei continuare ad attraversarlo, a dieci anni di distanza, raccogliendo alcuni punti di incandescenza e riconnettendo queste analisi alle soggettività in lotta dell^ lavorat^ culturali. Perché penso che grazie a questa traduzione continuerà a essere un prezioso strumento di analisi, per immaginare sempre nuove pratiche di resistenza e istituzioni autonome dell’arte.

Mappe e genealogie

Leggendo L’artista al lavoro si rimarrà forse colpite dal fatto che il pensiero critico italiano a cui Kunst fa ampio riferimento, proprio in Italia rimane confinato all’interno di una nicchia “antagonista” e non filtra negli studi sull’arte, mentre fuori dal nostro paese viaggia liberamente, generando connessioni e intersezioni impreviste. È utile allora ricostruire una mappa dei riferimenti, e insieme i fili delle genealogie che si dipanano.

L’ossatura delle analisi teoriche di Kunst poggia sul pensiero (post)operaista italiano2: Paolo Virno, con il fondamentale testo Grammatica della moltitudine: per un’analisi delle forme di vita contemporanee (2001), Maurizio Lazzarato, Franco Berardi Bifo, e per estensione Toni Negri, Christian Marazzi, dipanandosi verso Foucault, Deleuze, Rànciere. Lazzarato in particolare ha messo a fuoco le sue analisi su precarietà e lavoro immateriale proprio a contatto con le lotte delle/degli intermittents francesi, che ha attraversato da vicino a partire dal ciclo del 2003/20073. Sono, tutti questi che nominiamo, pensatori militanti, profondamente implicati nelle lotte – a partire da quelle degli anni settanta in Italia in cui si formano. Ed è proprio l’irrisolto rapporto con i movimenti radicali e i conflitti sociali nel nostro paese che ha impedito la circolazione e la diffusione di queste riflessioni di teoria politica, toccando forme di vera e propria censura.

Altrove, questo impensato è il cosiddetto “Laboratorio-Italia”, un momento storico ad alta densità conflittuale e immaginativa dove convergono nuove soggettività, pratiche, idee che danno vita a elaborazioni teoriche, case editrici, librerie, riviste, spazi sociali, controculture. Nei dipartimenti nordamericani, con la loro passione per le etichette a posteriori, tale ambito teorico assume il nome piuttosto vacuo di Italian Theory, categoria-ombrello che include prospettive molto diverse tra loro. Ancora oggi, a distanza di decenni, e dopo che molte delle accuse giuridiche su cui si incardinò la repressione dei movimenti siano cadute4, questo spazio di pensiero così generativo rimane da noi ancora innominabile, quantomeno negli ambienti più accademici5. Ecco perché, sebbene questi temi siano stati diffusamente articolati da artist^ e lavorat^ culturali in Italia, nelle lotte sulla precarietà da San Precario in poi6, nelle reti di spazi occupati o informali da cui è emersa moltissima della scena artistica di ricerca dagli anni novanta a oggi, questo libro non è stato scritto da nessun^ studios^ accademic^ che si occupa di teatro nel nostro paese.

Ma a essere interessante è l’intersezione tra saperi, perché Kunst mette a contatto la teoria politica operaista con il pensiero più avanzato sulla performance, la danza e la coreografia tra cui Bojana Cvejić, Andre Lepecki, Mark Franko, non ancora tradotti in italiano. Queste mappe interconnesse rimangono in Italia largamente inesplorate dentro l’accademia e negli studi teatrali7, se si escludono alcuni progetti di ricerca e corsi di laurea8, mentre fermentano nei “margini” dove i saperi si producono: nel lavoro della rivista OperaViva Magazine, nei laboratori teorici degli spazi culturali occupati del Valle Occupato, Macao, Asilo, Teatro Rossi, Sale Docks e molti altri, negli ambienti di produzione artistica. È qui, in questi interstizi, che anche da un punto di vista teorico questa saldatura si è operata9.

Lavoro d’amore

Il lavoro artistico non è di per sé lavoro liberato, pura attività creativa. Sempre meno anomalo ed “eccezionale”, diventa al contrario una lente per leggere le trasformazioni del lavoro contemporaneo: è infatti proprio l’attività senza opera, improduttiva, performativa, il modo della produzione nell’economia post-fordista, come messo in luce da Paolo Virno10. E dunque, propone Kunst, l’analisi critica delle arti live ci dota di un punto di osservazione privilegiato: «a essere oggetto delle speculazioni del capitale non è l’arte in sé, ma innanzitutto la vita artistica»11, intesa come peculiare forma di vita che può essere messa interamente al lavoro, che produce senza sosta del valore eccedente – sociale, relazionale, affettivo – da essere consumato.

Dalle pagine di Kunst emerge limpidamente la questione dell’autosfruttamento, così l’abbiamo chiamata nelle lotte. Sempre più chi svolge il lavoro culturale è impegnata in tutta una serie di attività disparate che vanno dalla scrittura di progetti alla stesura di bandi, alla promozione, alla costruzione di relazioni, alla ricerca di produzioni o residenze, all’autonarrazione, alla presenza sulle piattaforme digitali, alla scrittura di mail, alla documentazione e all’archivio, e così via. Raramente (mai in Italia) tali attività sono retribuite, ed è praticamente impossibile quantificarle. A queste si aggiungano il lavoro preparatorio di ricerca (teorica, drammaturgica ecc.) e la formazione costante – la maggior parte del tempo e delle energie sono dunque impiegate in queste attività “parallele” alla fase propriamente produttiva (e contrattualizzata).

Questa frammentazione ha due conseguenze. Innanzitutto, che questo tipo di attività non è inquadrabile in una modalità sindacale classica. Per chi lavoro? Sono io la datrice di lavoro di me stessa? Se coinvolgo altre nel mio lavoro, che tipo di relazione è? Nella società della performance, all’artista è richiesto di essere l’imprenditore di se stesso (e al tempo stesso il proprio lavoratore dipendente), sempre più performativo, in grado di tradurre la creatività in skills manageriali del sé. Gentili e Nicoli definiscono questa figura “intellettuali di sé stessi”, un’espressione volutamente carica di ambiguità che indica la condizione del lavoro intellettuale segnato da competizione, autodisciplina, disponibilità al lavoro gratuito12.

La seconda è che ogni distinzione tra vita e lavoro si dissolve: ma se questo scioglimento dei confini, ci ricorda Kunst, era rivendicato dalle prime avanguardie come forma di autodeterminazione, adesso indica la pervasività dello sfruttamento e la messa al lavoro del tempo di vita nella sua interezza. Salta dunque l’unità di misura classica di orario/salario: vale per il lavoro culturale intermittente, autonomo e/o precario, ma anche per chi lavora per le piattaforme, o fa lavoro cognitivo, o svolge lavoro di cura. I tratti peculiari che caratterizzavano il lavoro artistico e la sua “eccezionalità” – flessibilità, discontinuità, autorganizzazione dei tempi e dei modi di lavoro – diventano dunque qualità del lavoro nel suo complesso. Quel che mi interessa sottolineare qui è che lo sconfinamento vita/lavoro è reso possibile e amplificato da una dimensione affettiva, dal coinvolgimento passionale. Lavoro a tutte le ore, senza limiti, rispondo alle mail di sera, non ho un giorno libero, metto tutte le mie relazioni al servizio della dimensione professionale e viceversa, non mi risparmio, nel lavoro in scena porto il mio corpo al limite, tutta la mia cura, concentrazione e dedizione è dedicata al lavoro, senza resti. Senza resti, senza limiti: è una descrizione realistica di come funziona il lavoro artistico, ma anche quello creativo e cognitivo in generale. La messa a disposizione di tutte le capacità affettive, intellettuali, creative, linguistiche, relazionali quasi a costo zero è il sogno realizzato del capitale. E il sogno si compie non grazie a dispositivi coercitivi, ma anzi lasciando “liberi” i corpi e i desideri.

È il rovesciamento radicale prodotto dai femminismi che mette a fuoco la dimensione ambigua del lavoro d’amore, trappola scivolosa e appiccicosa, e asse portante della divisione sessuale del lavoro.

Se l’attività di cura e di riproduzione del vivente, affettiva e relazionale, tradizionalmente svolta dalle donne in casa è stata naturalizzata e trasformata in una risorsa disponibile gratuitamente13 è stato grazie anche al suo sconfinamento con l’amore. Fare figli*, prendersi cura delle persone care, prendersi in carico il nutrimento, la cura dei corpi non indipendenti (bambin^, anzian^), mantenere i corpi in vita, tutta la quantità di lavoro domestico, ma anche il lavoro affettivo e di cura delle relazioni di prossimità: attività non retribuite organizzate nell’economia binaria eterosessuale, a cui le donne sarebbero “per natura” predisposte. Ci sono voluti dispositivi di narrazione estremamente potenti e pervasivi perché questa privazione della vita venisse percepita come naturale e addirittura desiderabile. Voi lo chiamate amore, noi lo chiamiamo lavoro non pagato, dicevano le femministe già nei Settanta. Il concetto di cura e riproduzione, che scardina la centralità della produzione di merci nell’economia capitalista, è straordinariamente fertile per leggere le forme sempre nuove e sfuggenti di autosfruttamento che ritroviamo nel lavoro artistico e culturale14. Io amo ciò che faccio, dunque lo faccio sempre, comunque, a tutte le ore. Kunst riarticola le teorie operaiste sul lavoro contemporaneo nel settore artistico e della performance, e accenna solo di passaggio all’intersezione possibile con le analisi femministe15. Ma ritengo sia una risonanza potente da sviluppare, soprattutto dopo la marea transnazionale dei movimenti di Ni Una Menos / Non Una Di Meno di questi ultimi anni, che proprio su questo terreno, e con particolare efficacia in Latino America, hanno messo a punto il formidabile strumento dello sciopero femminista dei/dai generi, come sottrazione (e dunque visibilizzazione) del lavoro altrimenti invisibile di cura e di riproduzione16.

Disidentificazione: riscrivere il curriculum della vita

Un nodo cruciale del testo di Kunst è che smonta l’idea dell’eccezionalismo del lavoro artistico. Un mito radicato, dalle molte ramificazioni, che confina l’arte nel terreno delle elite. Oltre a riconfigurare lo statuto delle pratiche artistiche, questo spostamento ha immediate implicazioni politiche, necessarie a progettare alleanze e intersezioni. Si tratta dunque di iniziare a considerare il lavoro culturale come un lavoro, e coloro che lo svolgono lavoratrici/lavoratori. Significa smontare il mito modernista – tutto maschile e patriarcale – dell’Artista-creatore, isolato, separato dal mondo. Ma anche sottoporre a critica il dispositivo stesso dell’autorialità. Le produzioni delle arti performative sono sempre infatti creazioni d’ensemble, che coinvolgono non solo artist^ ma anche tecnic^, scenograf^, operat^, etc., anche se a firmare la regia o la coreografia è una persona sola. Riconoscere questa condizione materiale è una prima strategia di alleanza.

Vi è un altro aspetto da considerare: definirsi “artista” è un’identità ambita, luccicante. Ma le identità – sia sessuali che sociali – sono tutt’altro che pure. Basta guardare alla materialità delle nostre vite, il lavoro culturale è estremamente frammentato, e il reddito di ciascuna è ricavato da economie composite: lavorare al bar o al ristorante, fare formazione (a scuola, o in laboratori informali), lavorare come tecnicx, rider o dj, lavorare nei club e nelle economie della notte, dare ripetizioni, tradurre, insegnare joga, coniugare con diversi lavori di ricerca, e così via. Un bacino di manodopera a basso costo che per sopravvivere è costretta a sommare un’infinita quantità di lavoretti di merda, come li chiama Graeber17, tutti precari. Chi può dedicarsi interamente al lavoro culturale e vivere di questo lo fa spesso grazie a circostanze fortunate o per privilegio di classe. Definirsi “artista” è il frutto dell’occultamento di queste identità spurie che attraversiamo. Nelle lotte degli ultimi anni, all’incrocio con i movimenti transfemministi, si è cercato di tradurre questi sistemi di co-dipendenza materiale su un piano politico e insieme fare uno sforzo di disidentificazione18 da ogni identità professionale “pura”, che rende invisibili i meccanismi di autosfruttamento e ricatto. Mi riferisco in particolare ai percorsi fatti con Il Campo Innocente, un collettivo informale, assemblaggio di artistx e lavorat della cultura frocie, non binarix, lesbiche, queer, *donne nato nel 2019: il processo attraverso cui ci si fa soggettività è anche, da un posizionamento femminista e queer, un processo di disidentificazione, di scardinamento dell’identità date come pure e desiderabili.

Neutralizzare il conflitto, estetizzazione delle lotte

Negli ultimi decenni, le grandi istituzioni artistiche, le biennali, i festival hanno messo al centro dei loro programmi la politica radicale. Il mercato dell’arte tenta di estrarre valore dal comune19, dalle soggettività subalterne, dal conflitto. Kunst si sofferma su questa convocazione “su commissione” della collettività, capace di intercettare bisogni che non trovano soddisfacimento altrove: bisogno di partecipazione, di essere parte di comunità di senso, di presa di parola, di sovversione. Osserva Kunst: «la produzione di socialità indica che oggi l’arte è strettamente intrecciata ai processi di scomparsa della socialità e dell’articolazione politica del pubblico»20. Come lx attivistx del mondo dell’arte hanno segnalato da varie angolature21, questo interesse finisce per produrre un surrogato, un gesto mimetico – deconflittualizzato, pacificato, neutralizzato – dell’azione politica. Quasi mai infatti le istituzioni cambiano i loro modi di produzione, né mettono a disposizione concrete infrastrutture di solidarietà e supporto.

In questo processo di estetizzazione il conflitto non solo è rimesso in scena come tema e come rappresentazione, ma anche evocato come spettro per potenziare l’evento. Un surplus affettivo, di intensità. La quasi indistinguibilità tra artista e attivista, coltivata dalle istituzioni artistiche del contemporaneo, crea una figura che è anch’essa ambivalente. Il rischio è che finisca per essere una “pseudo-attività”, così la definisce Kunst, che svolge funzione compensativa sia per l^artist^ che per il pubblico coinvolto. Comunità fittizie, evocate, spettralizzate. L’effetto è politico, ma non innesca alcuna trasformazione, nessun agonismo.

Riprendendo Laurent Berlant, Kunst evidenzia quanto le istituzioni mobilitino affetti, intimità, fantasie, desideri e amicizia, senza cui non riuscirebbero a sopravvivere22. Questo tipo di investimento alimenta la sensazione di precarietà e di instabilità di chi ci lavora, una precarietà più che economica. È questo il motivo per cui non è facile, per chi di noi lavora dentro il sistema delle arti, me compresa, riuscire a riconoscere i livelli di sovrapposizione e di coinvolgimento, e può essere anche doloroso. Servono, ancora, processi di disidentificazione. Il punto è che il “valore in più” prodotto non è socializzato come nelle esperienze della politica autorganizzata, ma capitalizzato dalle istituzioni o dalle figure individualizzate di singol^ artista o curatrice/curatore.

Nel Capitolo 3 Kunst critica le estetiche relazionali, tema su cui vi è stato già ampio dibattito. Ma un punto sollevato da Kunst mi sembra particolarmente fertile, ossia la disamina del paradigma collaborativo che scioglie la distanza, osservato però proprio a partire dallo specifico delle pratiche performative. Una «feticizzazione delle procedure aperte»23 che porta alla luce alcuni nodi. Il primo è che la collaborazione, la cooperazione, e persino l’autorganizzazione non sono modalità liberatorie in sé: «si suppone che ogni forma collettiva di collaborazione sia già politica e legata alle questioni etiche dell’essere insieme, del riferire, dell’instaurare atmosfere comunitarie, del condividere, dello scambiare e così via»24. La governamentalità neoliberista le ha fatte proprie, basti pensare alla sharing economy, alle piattaforme digitali, al consumo collaborativo – tutte tecnologie di partecipazione che estraggono valore dai sistemi relazionali e cooperativi, svuotandoli di ogni capacità conflittuale e trasformativa.

Il secondo riguarda il dispositivo stesso della scena: «a causa del problematico dissolversi del confine tra spettatori e lavoro artistico e della coincidenza tra gli spettatori e il pubblico, avviene una cancellazione della capacità di giudicare»25. Si crea cioè l’illusione di una comune esperienza dell’arte, che sul piano politico ha un corrispettivo nell’illusione di democraticità. In realtà, ci dice Kunst, ciò che avviene è la cancellazione di un luogo terzo, uno spazio di mezzo di intermediazione. Questo spazio-terzo è anche lo spazio proprio delle istituzioni, intese non come strutture governative e statuali già costituite, ma – con Deleuze – come «modello positivo di azione», pratiche autoregolative attraverso cui il sociale riesce a organizzarsi e a rispondere ai propri bisogni in autonomia26. Kunst qui delinea il paradigma immersivo e empatico a partire dalle strutture formali della scena: la pseudo-democraticità dell’opera d’arte, in quanto aperta e partecipata, può essere letta in parallelo all’enfasi sulla partecipazione e all’uso dell’empatia da parte dei populismi. Piazza-agorà e platea ancora una volta, oltre a condividere la stessa radice, si co-costituiscono reciprocamente, come già Hannah Arendt ha mostrato.

Consumo senza limiti, violenza e sfinimento

Tornando agli affetti, Kunst dà un resoconto dettagliato anche della temperatura emotiva del lavoro artistico. La temporalità del progetto lega a doppio nodo il lavoro alla sua realizzazione nel futuro, consumando il presente: residenze, processualità aperte, work in progress, studi, fasi intermedie. Ci prendiamo intensamente cura del tempo a venire, mentre l’ora è frantumato. Scrive Kunst, «c’è qualcosa di distruttivo nella temporalità proiettiva»27, una dilazione che ci sposta, ci proietta sempre altrove. Il progetto non è una fase di passaggio, ma una condizione in sé.

Economia del debito basata su una promessa di futuro che non arriva mai: è così che si presenta il capitalismo come religione28. Ne deriva l’essere in difetto, il sentirsi in colpa perché tutto sembra dipendere da noi – l’impressione di non avere tempo (“non posso, oggi devo lavorare”), di non lavorare abbastanza genera uno stato di ansia permanente, che amplifica la sensazione di essere esposte al ricatto e la rende più vera. In realtà, lavoriamo sempre, ma non abbiamo un reddito stabile mai. Una descrizione molto diversa da quella del lavoro artistico come privilegio.

Già dalla crisi del 2008, e prima ancora dagli anni Zero in cui si inizia a mettere a fuoco la dimensione del precariato culturale, parliamo di furto di futuro per l^ lavorat^ culturali in Italia, nell’editoria, nell’università estromess^ dal patto sociale. È una fotografia transgenerazionale, che diventa sistemica in assenza di welfare e di tutele specifiche del lavoro precario, intermittente, discontinuo, autonomo29 (cognitivo e non solo).

All’interno del collettivo Il Campo Innocente si è molto riflettuto su questa piegatura emotiva e sulle sue implicazioni da un posizionamento transfemminista. Come fare meno? Quali possono essere le strategie di rifiuto e sottrazione alla richiesta di performatività continua? Ci siamo interrogate su come renderci collettivamente capaci di dire dei no: «Posso rifiutare un lavoro se il contesto è tossico? Se c’è una richiesta di eccessiva performatività? Se mi viene chiesto di portare il mio corpo al limite, di lavorare sempre? L’abuso è legittimato in nome dell’arte? La violenza è sempre evidente? Per ché devo sempre stare sul piede di guerra? Quanta energia e fatica mi costa? Quali sono i confini del luogo del lavoro? Ti è capitato di sentirti (o sentirti dire che sei): troppo “femminile” troppo poco “femminile”? Puoi toccarmi il culo in nome della libertà artistica o della contact improvisation?». Sono alcune delle domande emerse nel corso di mesi e che hanno composto campagne, prese di parola, momenti di scambio, autoinchieste. Emerge il nesso tra precarietà ed esposizione alla violenza. Nonostante il mondo artistico goda della reputazione di essere uno spazio aperto e inclusivo, è tutt’altro che safe: lavorando con il corpo, l’emotività, l’intimità è molto difficile stabilire dei confini, e facilmente si generano situazione tossiche, ambigue, vischiose. La richiesta di prestazione continua sul lavoro ha un suo correlato speculare del mito prometeico (e molto maschile) che non ci debbano essere limiti al processo di creazione.

Non mettere limiti al tempo di lavoro, all’energia impiegata, alla disponibilità, al coinvolgimento affettivo e creativo, ma anche all’uso del corpo. Di più: l’Artista-creatore, il regista/coreografo non deve avere limiti. Una brava performer/attrice/danzatrice deve essere disposta “a tutto”. In questa zona vischiosa che si nutre delle retoriche sulla libertà artistica e d’espressione, crescono le molte forme di violenza, psichica, emotiva, sessuale. Kunst ne parla nei termini di un “consumo radicale” della soggettività30 o della presenza, ma negli ultimi anni in corrispondenza dei movimenti femministi è venuta a galla una dimensione sistemica di sessismo, violenze, abusi, discriminazioni nel mondo dell’arte31. Non a caso, è stato il terreno primo di emersione del #MeToo.

Linee di fuga, esercizi di resistenza

Le analisi di Kunst sono puntualissime e lucide, e segnalano i dispositivi di cattura, l’ambiguità delle forme di sfruttamento. Come attivista, sento che il rischio di una lettura critica così stringente possa essere di raffigurare il capitalismo come una sorta di Leviatano vischioso e pervasivo, in grado di saturare tutto, di divorare tutto. Quali sono allora i punti di resistenza, le possibili linee di fuga? Può esistere una potenza emancipatoria dell’arte, o è inevitabilmente esposta all’appropriazione del mercato? Il pensiero critico deve essere anche strumento per elaborare e immaginare forme di resistenza e di sottrazione efficaci, processi di soggettivazione del lavoro culturale, nuove istituzioni autonome dell’arte create dal basso. Sono questi i nodi che i movimenti dell^ lavorat^ dell’arte e della cultura in Italia hanno affrontato in diverse ondate. In particolare, l’avanzamento prodotto nelle lotte degli anni Dieci sull’idea di istituenza, di altre-istituzioni, di commons culturali e produttivi, di statuti innovativi basati sull’autogoverno diretto di artist^ e lavorat^ della cultura dall’esperienza del Teatro Valle Occupato a Roma, a Macao a Milano, all’Asilo Filangieri a Napoli, al Sale Docks di Venezia e moltissimi altri è un archivio di pensieri e di pratiche tutte da sperimentare.

Dall’archivio vivo e corporeo di quelle lotte compongo un piccolo breviario di esercizi di resistenza.

(a) Creare nuove istituzioni dal basso, per sperimentare altri modi di produzione e di gestione e distribuzione delle risorse, immaginare assemblee di artist^ e lavorat^ culturali che progettano statuti e autogovernano teatri, spazi, network produttivi.

(b) Esplorare i modi in cui il lavoro artistico è prodotto, nelle pieghe della materialità della produzione, dei finanziamenti, delle economie. Non basta mettere a tema le questioni politiche, o negoziare circa un singolo progetto, spettacolo o opera, per quanto impegnato o politicizzato possa essere. L’autonomia dell’estetico non è sufficiente.

(c) «Occupare» e utilizzare le infrastrutture logistiche ed economiche delle grandi istituzioni culturali internazionali così interessate alle soggettività in lotta e rimetterle a disposizione del fare comune, per sostenere network e istituzioni indipendenti, per radunare artiste/i, attiviste/i, agitatrici di idee. Collettivizzare e non privatizzare le relazioni con le istituzioni, in modo allargato e non competitivo, per non essere confinate posizioni e discorsi subalterni.

(d) Tenere insieme violenza e precarietà: le lotte sul reddito non possono che essere lotte transfemministe, e viceversa. Solo l’esistenza di un reddito incondizionato ci toglie dal ricatto, dall’esposizione a contesti tossici e violenti, e ci dà la possibilità di dire dei no. Il reddito, come elaborato dal movimento Non Una Di Meno, è uno strumento di uscita dalla violenza e di autodeterminazione. Su questo punto, rimando alla scrittura collettiva del Manifesto Art for UBI32.

(e) Rompere l’eccezionalità del lavoro artistico: è la precondizione per progettare alleanze, come insegnano i/le rider “non per noi ma per tuttx”. Non privilegi di corporazione, statuti separati, albi professionali, ma diritti al lavoro culturale precario espandibili a tutt^.

L’arte non è uno spazio separato, è parte di questo mondo. Per farne altri, di mondi.

Note

Note
1Dal 2010 al 2014 vengono occupati spazi culturali, teatri, musei, cinema da artist^ eù lavorat^ della cultura, in maniera provvisoria o permanente, una mappa incandescente tra cui: Cinema Metropolitan (Roma), Nuovo Cinema Palazzo (Roma), PAC (Milano), Museo Madre (Napoli), Academia di Brera (Milano), MACAO (Milano), Asilo Filangieri (Napoli), Teatro Rossi Aperto (Pisa), Teatro Garibaldi (Palermo), Teatro La Cavallerizza (Torino), Teatro Coppola (Catania). Per una ricognizione, vedi Silvia Jop (a cura di), Com’è bella l’imprudenza. Arti e teatri in rete: una cartografia dell’Italia che torna in scena, “Il Lavoro Culturale”, 21 dicembre 2012 (online); AA.VV., Teatro Valle Occupato. La rivolta culturale dei beni comuni, DeriveApprodi, Roma 2012.
2Vi è discussione sui termini; per molti tra i protagonisti di questa (Negri tra questi) non vi è alcuna cesura tra l’operaismo degli anni Cinquanta/Sessanta che si radunava attorno alle riviste “Quaderni Rossi” e “Classe Operaia”, poi discusso nelle lotte dei settanta e fin nelle carceri, nella repressione che seguì, e la sua diffusione internazionale. Per avere una panoramica del dibattito vedi Toni Negri, Postoperaismo? No, operaismo, “EuroNomade”, 29 aprile 2017, disponibile online: www.euronomade.info/postoperaismo-no-operaismo/; Andrea Fumagalli, Operaismo, post-operaismo? Meglio neo-operaismo, “Effimera”, 7 maggio 2017, disponibile online: https://effimera.org/operaismo-post-operaismo-meglio-neo-operaismo-andrea-fumagalli/. Le riviste di riferimento per quest’area di pensiero sono “EuroNomade”, “Effimera”, “Commonware”, “Global Project”.
3Antonella Corsani, Maurizio Lazzarato, Intermittents et précaires, Éditions Amsterdam, Paris 2008. In italiano, si possono trovare diversi interventi di Lazzarato sul sito di EuroNomade, tra cui Miseria della sociologia, “EuroNomade”, 14 luglio 2014, disponibile online: www.euronomade.info/miseria-della-sociologia/.
4Mi riferisco in particolare al processo del 7 aprile 1979, che tentò di sigillare le lotte arrestando (con provvedimenti di arresto preventivo) decine di militanti di Autonomia Operaia (che diventeranno migliaia nel corso dell’inchiesta) attraverso il cosiddetto “Teorema Calogero” che ipotizzava una continuità diretta tra i movimenti sociali e la costituzione di bande armate come le BR e l’organizzazione di 19 omicidi, per mezzo di un’organizzazione segreta che ne avrebbe costituito il vertice e la regia unitaria. In conseguenza di questo processo vennero chiuse nei mesi e anni successivi case editrici, librerie, cooperative. Il “Teorema Calogero” fu sostenuto dal Partito Comunista Italiano e si rivelò – dopo aver interrotto vite e lotte – del tutto infondato. Tra gli arrestati o costretti alla latitanza – Toni Negri, Paolo Virno, Alisa Del Re, Oreste Scalzone, Luciano Ferrari Bravo, Franco Piperno, Nanni Balestrini e altri – si ritrovano moltissimi di coloro che animano il pensiero operaista e le riviste a esso connesse come “Rosso”, “Controinformazione”, “Autonomia”. La latitanza e l’esilio fuori dall’Italia, spesso in Francia grazie alla dottrina Mitterand che tutelava il diritto d’asilo per reati d’opinione, ha costituito come sempre accade in questi casi, la diffusione internazionale di questo pensiero e di questa storia. Alla conclusione del processo alla fine degli anni ottanta tutti gli imputati verranno assolti o condannati per pene minori. Per i numeri enormi legati alle repressioni connesse al caso del 7 aprile, vedi Maria Rita Prette (a cura di), Gli organismi legali – 7 aprile (inchiesta giudiziaria contro l’Autonomia), in La mappa perduta, 1 (Progetto Memoria), Sensibili alle foglie, Roma 2007; Sergio Bianchi e Lanfranco Caminiti (a cura di), Gli autonomi. Le storie, le lotte, le teorie, DeriveApprodi, Roma 2007. La letteratura storica di ricostruzione di questa vicenda è ovviamente vastissima.
5In controtendenza, segnalo il progetto ERC Grants “InCommon. In praise of community: shared creativity in arts and politics in Italy (1959-1979)” diretto da Annalisa Sacchi e a cui ho collaborato, dedicato proprio alla relazione tra sperimentazione artistica e sperimentazione delle lotte nel Laboratorio Italia. Il progetto ha generato un volume-archivio: Ilenia Caleo, Piersandra Di Matteo e Annalisa Sacchi (a cura di), In fiamme. La performance nello spazio delle lotte (1967-1979), bruno editore, Venezia 2021.
6San Precario è l’icona che rappresenta il patrono dei precari e delle precarie e la loro intelligenza. Nasce nel 2004 come nome collettivo delle manifestazioni del MayDay e dell’autorganizzazione del precariato.
7Sul piano editoriale, vorrei segnalare un’eccezione: è del 2009 il volume a più voci curato da Marco Baravalle L’arte della sovversione, Manifestolibri, Roma 2009, che anticipa molti dei temi affrontati qui da Kunst, convocando artist^, critic^ e attivist^ a interrogarsi sulle nuove forme del lavoro creativo in una ricognizione delle soggettività che danno corpo alla “fabbrica della cultura”. Una capacità anticipatoria anche qui che poco deve all’accademia, e molto alla prossimità con le mobilitazioni accadute nell’interstizio tra mondo del lavoro culturale e movimenti sociali.
8Segnalo il corso di laurea magistrale in Teatro e arti performative dell’Università Iuav di Venezia, con un doppio curriculum del tutto inedito in Italia (Studi teatrali e coreografici, Studi performativi e di genere).
9Rimando al lavoro di Emanuele Braga, Marco Baravalle, Maddalena Fragnito, Nicolas Martino, Ilaria Bussoni, Claire Fontaine, Valeria Graziano (e tra questi il mio), ricercatrici/tori militanti, artist^/curat^ o a vario modo implicat^ nelle pratiche. Le nostre ricerche si sono spesso intrecciate e influenzate a vicenda.
10Paolo Virno, Grammatica della moltitudine. Per un’analisi delle forme di vita contemporanee. DeriveApprodi, Roma 2001.
11Infra, p. 11.
12Dario Gentili, Massimiliano Nicoli (a cura di), Intellettuali di se stessi. Lavoro intellettuale in epoca neoliberale, “aut aut”, 365/2015.
13Cfr. Silvia Federici, Calibano e la strega. Le donne, il corpo e l’accumulazione originaria (2004), Mimesis, Milano 2015.
14Cfr. Cristina Morini, Per amore o per forza. Femminilizzazione del lavoro e biopolitiche del corpo, Ombre Corte, Verona 2010.
15Vedi Infra il paragrafo 5.2 L’artista donna tra lavoro e vita. Sulle lotte nate attorno al lavoro domestico, si seguano i contributi dei Comitati per il Salario al Lavoro domestico, e di Silvia Federici, Alisa Del Re, Mariarosa Dalla Costa e, per una panoramica più aggiornata, a Beatrice Busi (a cura di), Separate in casa. Lavoratrici domestiche, femministe e sindacaliste: una mancata alleanza, EDS, Roma 2020. Sul concetto femminista di riproduzione, come orientamento: Federica Giardini e Gea Piccardi (a cura di) Produzione e riproduzione. Genealogie e teorie, Quaderno di appunti di filosofia politica, Pigreco Edizioni, Sesto San Giovanni (MI) 2015. Nell’amplissimo dibattito sul lavoro rimando a The Care Collective, Manifesto della cura. Per una politica dell’interdipendenza, Alegre Edizioni, Roma 2021; Maddalena Fragnito, Miriam Tola (a cura di), Ecologie della cura. Prospettive transfemministe, Orthotes, Napoli 2022 che offrono mappe aggiornate.
16Verónica Gago, La potenza femminista. O il desiderio di cambiare tutto, Capovolte 2022.
17La definizione è data da David Graeber, Bullshit Jobs, Garzanti, Milano 2018. Vedi anche Gregory Sholette, Dark Matter. Art and Politics in the Age of Enterprise Culture, Pluto Press, New York 2011.
18Sul concetto di disidentificazione che arriva dal pensiero queer, vedi J.E. Muñoz, Disidentifications. Queers of Color and the Performance of Politics, University of Minnesota Press, Minneapolis 1999.
19Marco Baravalle, Curare e governare. Bourriaud e Obrist: la svolta relazionale della curatela, “OperaViva Magazine”, 19 dicembre 2016, disponibile online: http://operavivamagazine.org/curare-e-governare/.
20Infra, p. 59.
21Basti pensare alle contestazioni da parte di artist^ e attivist^ greci a documenta 14, che nel 2017 si è svolta eccezionalmente ad Atene con un programma fittissimo di approfondimenti politici curato da Paul Preciado, proprio nel momento dello scontro tra Grecia e Germania sulle politiche finanziarie. Niente di più simbolico…
22Infra, p. 147.
23Infra, p. 66.
24Infra, p. 62.
25Infra, p. 77.
26Gilles Deleuze, Istinti e istituzioni (1955), Mimesis, Milano 2014.
27Infra, p. 163.
28Ancora Maurizio Lazzarato, La fabbrica dell’uomo indebitato. Saggio sulla condizione neoliberista, DerivApprodi, Roma 2011; ma anche Elettra Stimilli, Il debito del vivente. Ascesi e capitalismo, Quodlibet, Macerata 2011.
29Giuseppe Allegri, Roberto Ciccarelli, La furia dei cervelli, Manifestolibri, Roma 2011, e ancora degli stessi autori Il Quinto Stato. Perché il lavoro indipendente è il nostro futuro – Precari, Autonomi, Free Lance per una nuova società, Ponte alle Grazie, Milano 2013.
30Infra, pp. 45-49.
31Il Campo Innocente nasce in Italia per prendere parola il caso Fabre, dopo che in Belgio nel 2018 molte danzatrici e danzatori della compagnia Troubleyn hanno denunciato collettivamente il coreografo di fama internazionale Jan Fabre, in una miscela estremamente tossica di mobbing, molestie, richieste appunto di “spingersi oltre il limite” In questa luce, le sue performance basate sull’estenuazione dell^ performer in scena spesso per molte ore assumono adesso un senso più inquietante. In seguito a queste denunce, in Belgio furono sospesi finanziamenti e produzioni; in Italia, se ne è approfittato per invitare Fabre praticamente ovunque. L’arte non è un campo innocente.
32Art for UBI (Manifesto) è una campagna per il reddito di base universale e incondizionato per il settore artistico e culturale. Promosso da Institute for the Radical Imagination (IRI), un gruppo transnazionale di artist^, curat^, ricercat^, militanti interessate alla co-produzione di saperi nel campo artistico, è il risultato di un percorso polifonico e collettivo. È disponibile online: https://instituteofradicalimagination.org/2021/01/01/art-for-ubi-manifesto-campagna-online/.

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