Verso l’arcobaleno

Tra i molti nella Jungle di Calais

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Gian Maria Tosatti, New Man’s Land (2016).

Pubblichiamo un estratto da New Men’s Land. Storia e destino della Jungle di Calais (con una Prefazione di Nicolas Martino e una Appendice di Marco Trulli), in uscita nei prossimi giorni per DeriveApprodi nella collana OperaViva. In questo libro Gian Maria Tosatti racconta la storia della prima città fondata nel XXI secolo: la Jungle di Calais. Una città nata all’inizio degli anni Duemila e distrutta nel 2016, perché al centro di una guerra di civiltà tra un’Europa delle nazioni che lotta per non morire e una nuova idea di mondo senza confini ancora troppo giovane per riuscire a difendersi. E racconta di un arcobaleno, un’opera d’arte, che avrebbe dovuto siglare, in quella apitale d’Europa, un nuovo patto fondato sull’«amicizia stellare» tra i molti. Di Tosatti è inoltre visitabile al Museo Madre di Napoli, fino al 17 aprile, la mostra Sette Stagioni dello Spirito a cura di Eugenio Viola.

Della mia prima visita alla Jungle di Calais ho voluto lasciare impresso un ricordo di parole. A volte lo rileggo e non è mai capace nemmeno di avvicinarsi alle sensazioni provate quel giorno di dicembre. Ricordo il grigio ovunque, piombo in cielo, a terra, nelle pozze d’acqua stagnante, nell’aria che portava il ruggito della Manica. Grigia la città di Calais, svuotata della sua storia, della sua identità, da una crisi mondiale raccontata molto, ma raccontata sempre male. Il grigio nord della Francia, che lentamente si lascia tentare dal delirio del fascismo, la risposta degli ignoranti alla crisi della democrazia. Ricordo che fu un lampo. Allora e come sempre, non lo compresi, ma lo seguii. E vidi un arcobaleno. Avevo appena costruito un sole di ferro venti metri sotto terra, nelle segrete di una fortezza carceraria che aveva sepolto nei secoli migliaia di uomini. Era un sole costruito dall’uomo, dalla forza dell’uomo. Di metallo e bulloni. Perché avevo imparato da persone come Antonio Gramsci, come Nelson Mandela, come Rubin Carter, che il cuore degli esseri umani può illuminare qualunque abisso. E così, mi pareva di vedere, in quella cappa di piombo calata attorno a me, piena di grigi poliziotti, di grigi cittadini, di grigi capannoni portuali, qualcosa che infrangeva quell’ordine.

Calais (2016).

Ho visto l’arcobaleno il primo giorno che sono arrivato a Calais, mentre attraversavo il dedalo di strade della Jungle, schiacciato dal foglio di piombo del cielo e dal mercurio delle mille pozzanghere di acqua stagnante nel fango. L’arcobaleno non c’era, ma ci doveva (!) essere. Enorme. Per rompere quello spazio di pressione e oppressione, per sfondare il cielo. Immaginai che avrebbe dovuto attraversare l’intera città, perché la città stessa era l’arcobaleno. Venti metri di altezza, cinquanta di larghezza. E alla sua base – come nella leggenda – il tesoro, la vita nuova dell’Europa.

È cominciato così il mio coinvolgimento, con questa visione. Due giorni dopo aver lasciato quella frontiera, con in mente un pensiero fisso, ero già tornato indietro e stavo seduto in un bar, con Maya Konforti e con alcuni rifugiati. Non sapevo nemmeno come convincerli a costruire con me questo enorme monumento al futuro. Non sapevo nemmeno come spiegare loro quella visione. Ma ci provai. Animato dall’energia di chi vede una strada. Parlai loro di due cose molto semplici. Molte altre le avrei capite successivamente. L’arcobaleno, dissi, è un simbolo semplice, è il simbolo della rigenerazione. Ed è questo, mi pareva, che quella città fondata da sopravvissuti, testimoniasse ed offrisse all’occidente. Gli dissi anche che costruire un grande arcobaleno significava non poter più permettere a nessuna fotografia di mostrare solo il fango, solo il freddo, solo gli stracci. Bisognava invadere la narrazione di quel luogo con l’unica verità che solo chi era entrato nel campo conosceva e che, invece, era il messaggio che sarebbe dovuto arrivare a tutto il mondo che osservava. Quel luogo era davvero l’arcobaleno nella grigia Europa di Bruxelles, senza costituzione, senza popolo, senza valori e senza futuro. Ma non mi fecero nemmeno finire. Mi interruppero. «Questo – mi dissero – è quello di cui abbiamo bisogno». Questa parola usarono, loro che non avevano acqua corrente, elettricità, muri dietro cui ripararsi dal freddo, diritti: bisogno. L’arcobaleno era un loro bisogno. E mi lasciarono comprendere una volta in più che l’unica legge che tiene in gioco un artista, nel suo funambolare tra la ragione e l’emozione, è quella della necessità.

Gian Maria Tosatti, Progetto per l’Arcobaleno (2016).

Cominciò così New Men’s Land, il mio progetto per la Jungle di Calais, che in molte occasioni mi avrebbe riportato in quella città mitica oggi scomparsa per cercare di costruire un’iperbole, o forse, una vera e propria lingua che avesse sette colori e dialogasse tra due mondi e due tempi, aiutando gli uni ad autorappresentarsi e gli altri a comprendere il corso della Storia.  Tornato a Napoli, con amici e collaboratori, ci mettemmo al lavoro per immaginare una struttura titanica da erigere contro i venti della Manica. Venti tonnellate d’acciaio e cento di cemento armato. E poi il legno. Sette tonnellate di legno di seconda mano da dipingere assieme, da imbullonare. Perché il nostro arcobaleno non era il frutto di una circostanza naturale, ma doveva visibilmente essere opera della volontà dell’uomo. Sul lato superiore pannelli fotovoltaici avrebbero garantito l’illuminazione dell’opera anche di notte, ma soprattutto dato elettricità (pulita!) alla città. Non riuscimmo neanche ad arrivarci in Francia per trovare i soldi. Li avevamo già quasi tutti prima di allontanarci da Napoli, prima di arrivare a Roma. E mentre li organizzavo iniziavo la mia trafila burocratica con le istituzioni francesi sempre cordiali, mai collaborative. In oltre un anno non sono mai riuscito ad incontrare alcun rappresentante dello Stato francese a dispetto delle decine di email scambiate. Andavo e venivo da Calais. A volte anche per appuntamenti che poi, una volta atterrato a Parigi, venivano puntualmente cancellati, con tante scuse. E nel frattempo la Jungle veniva dimezzata, fino alla sua definitiva distruzione nell’autunno del 2016. Così il grande arcobaleno rimase senza una città su cui levarsi.

Ma i mesi che ho impiegato a pensare e a progettare questo intento, sono stati tra i più straordinari della mia vita. Affondare nelle pieghe multicolore di quel simbolo tanto potente, ha aiutato me a comprendere molto di quella città miracolosa che l’Europa ha saputo solo combattere. Nella Bibbia, infatti, l’arcobaleno è il simbolo della nuova alleanza tra il cielo e la terra, dopo il fallimento della precedente. È il dono che Dio da a Noè alla fine del diluvio. E così, leggendo, tornavano come in una formula matematica, come in una verifica, elementi la cui esattezza lasciava turbati. L’acqua, l’arca, la lunga traversata. Sembrava di scrivere una storia già scritta. E poi l’alleanza appunto. La prima fallita nel mito antidiluviano come oggi. Il mondo divenuto un luogo grigio, dominato dalla ferocia, dalla violenza. E poi l’acqua, la rottura dell’ordine, e una nuova alleanza. Era di questo che quel simbolo parlava. Era questo che quella città era venuta a portare col suo piantarsi al centro dell’Europa, fra le tre grandi capitali del colonialismo di ieri e di oggi, Londra, Parigi e Bruxelles. Ecco il popolo che noi abbiamo creato. Il popolo dei poveri in terre che prima di noi non conoscevano il significato della parola povertà. Ecco il popolo affamato che abbiamo depredato, risalire le antiche rotte coloniali, fino al centro della vertigine e sedersi, con la pazienza radicale delle loro culture antiche, per attendere il momento in cui noi saremmo stati disposti a rinegoziare un’alleanza il cui vero nome è sempre stato schiavitù e che oggi doveva e deve diventare fratellanza. Eccoli tutti lì, ottomila uomini che stanno per otto milioni, otto miliardi. Alla base dell’arcobaleno. Senegalesi, eritrei, sudanesi, somali, afghani, curdi, tutti assieme, «prima di giungere a Parigi per insegnare la gioia di vivere, prima di giungere a Londra per insegnare a essere liberi, prima di giungere a New York, per insegnare come si è fratelli», lì a Calais, dove l’Europa è stata già una volta strappata all’abisso del nazismo, ad attendere di essere ascoltati, di essere compresi.

Calais (2016).

Ecco, il popolo che ha ricevuto il dono della vita per la seconda volta, venirci ad insegnare sulla terra di Francia, ancora una volta dei principi rivoluzionari di libertà, uguaglianza e fraternità. Eccoli i figli bastardi della Francia, i figli negri, fatti con le schiave, ma pur sempre figli, venuti con la giungla a ripristinare il diritto naturale che non conosce classi, non conosce razze. Seduti sulla terra che gli spetta. Perché non c’è terra su cui anche l’ultimo degli uomini non abbia il diritto di sedere e di vivere. Ecco i figli dell’Europa, ecco i fratelli, ecco i padri fondatori di un atto mitico, la fondazione di una città. Eccoli dare corpo all’unico punto della terra in cui possa nascere un arcobaleno.

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