Gianni Vattimo e la danza del filosofo
Gianni Vattimo ci ha lasciati ieri. Con lui va via un pezzo fondamentale della filosofia italiana e internazionale, ma anche un pensiero in grado di descrivere un nuovo paradigma, dialogando con tutti gli ambiti del sapere. Vattimo è stato un filosofo vero, che non si è limitato allo studio dei classici, ma ha sfidato i suoi tempi, delineando una nuova proposta teorica. Prendendo le mosse dalle opere di Heidegger, Nietzsche e Gadamer, ha fatto giocare le categorie dei suoi maestri all’interno di una prospettiva inedita.
Alla base, c’è l’attacco feroce alla pretesa di afferrare il vero nelle cose: per Vattimo, quella postura è destinata ad annegare nella superbia. In questo gesto riecheggia la pretesa umana di immedesimarsi nello sguardo di Dio. L’attacco di Vattimo a questa visione è radicale: non c’è un mondo «oggettivo» fuori di noi, siamo implicati, sin nel profondo, in una rete di relazioni, segnata dal tempo, entro la quale le cose, gli altri e anche noi stessi assumiamo colori sempre cangianti. Non c’è verità, solo interpretazione.
Ma non è questa un’ulteriore teoria da contrapporre a chi sbandiera il drappo del vero: la proposta di Vattimo diventa davvero rivoluzionaria solo laddove si traduca in una postura, in un modo di stare al mondo. Vattimo è stato il più grande «testimonial» del suo pensiero, opponendo, a chi pretende di dire come si vive e come stanno le cose, un altro atteggiamento, solo apparentemente superficiale. La sua ironia brillante era l’arma più efficace con cui neutralizzava chi pretendeva di sapere – e di dire agli altri – come stanno le cose, come si vive, come si ama.
Vattimo ha saputo affiancare al rigore metodologico dello studioso l’audacia teorica di chi sfida l’esistente spingendosi oltre i confini dell’ovvio. L’aver condiviso con lui un rapporto di amicizia sincera, per diversi anni, oltre che un privilegio, è stato l’evento grazie a cui ho sperimentato la possibilità di un altro modo di stare al mondo. Vattimo fluttuava sull’essere: l’assunzione della relatività e della pluralità come cifra della nostra condizione gli permetteva di danzare nella vita, come da giovane aveva danzato nelle grandi aule universitarie. Quella danza elegante faceva sembrare tutti goffi e inetti, anche quando lui, ormai anziano, faticava a spostare il proprio corpo.
La dimensione della danza, in cui riecheggiano motivi nietzscheani, credo si intoni molto con la personalità di Vattimo che, in una bella intervista di qualche anno fa, quando gli veniva chiesto che ne fosse del giovane brillante, il primo della classe che stupiva i professori, rispondeva che era in un angolino del passato che ogni tanto gli piaceva rievocare: c’è sempre un tempo in cui il pugile ha danzato sul ring. Vattimo è stato un pugile danzante, che ha saputo mostrare la pateticità dei dogmi e del potere, con l’eleganza del filosofo e la brillantezza della sua insubordinazione. È questo connubio che aveva fatto innamorare la grande borghesia torinese, affascinata dal canto delle sue lezioni a Palazzo Nuovo, ma anche i grandi rivoluzionari del mondo nuovo, come gli piaceva chiamare l’America Latina. Era lì che Vattimo, soprattutto negli ultimi anni, aveva affinato l’idea che il pensiero debole fosse il pensiero dei deboli, ovvero un pensiero che dava voce a chi, con la scusa della verità, era stato sempre piegato dal potere.
Il pensiero di Vattimo è già da decenni oggetto di studio e riflessione da parte di studiosi in tutto il mondo, e vivrà su traiettorie imprevedibili, che omaggeranno la grandezza del suo autore. Quello che conserverò invece per sempre, con grande cura, è il ricordo dei momenti passati insieme, in cui ho potuto percepire, anche con un po’ di devozione, oltre i bordi della pagina scritta, cosa significasse praticare una filosofia, farla diventare una forma di vita, accogliendo la dimensione dell’altro come cifra del proprio essere.
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