Alatiel o della verità strapazzata

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Alfredo Jaar, M'illumino d'immenso (2013).

Nel fosco fin del secolo morente, insieme a Paolo Virno e al caro Benedetto Vecchi, tenevamo una rubrichetta sul «manifesto» con pezzi di varia natura. Mi è tornato in mente questo, che ripubblico, dal momento che, oltre a essermi rotto le palle, come tutti, con le esequie di Ratzinger e i velenosi commenti di padre Georg, ho avvertito, da filosofo, vibrazioni negative al leggere certe pensose riflessioni sul rapporto del Grande Inquisitore con la modernità e con la verità – anzi, la alétheia, per dirla con Cacciari, che ci ammannisce una lunga divagazione para-teologica sul rapporto tra fede e logos ellenistico. Un problema che Paolo aveva radicalmente fatto fuori insieme al letteralismo e al localismo dell’Antica Legge a favore dell’evento della Resurrezione e al primato dell’amore, dell’agape. Fu invece proprio quella la strada che prese la Chiesa (di cui Paolo, evangelizzatore dei Gentili, aveva piantato le radici organizzative ma non abbastanza quelle spirituali) ispirando buona parte della sua teologia semi-razionale, di cui Ratzinger fu non eccelso epigono.

Meglio invero sarebbe rivolgersi a una teologia alternativa ed è quanto fece, sotto il velame di una metafora, Boccaccio, sulla scia del suo amato Averroè. Certo, il novelliere credeva nella resurrezione della carne e nell’amore con qualche sfumatura diversa da Paolo ma il suo atteggiamento verso il logos era più spigliato dell’aristotelismo ufficiale e ancor più dal platonismo che va da Agostino e Bonaventura fino al «pastore tedesco». Non si tratta di «relativismo» woke ma di presa d’atto delle difficoltà di dire la verità e della produttività del tradirla per tradurla. Sottaccio i riflessi politici della vicenda – sappiamo tutti come conservatori e underdog rosiconi ma pure vecchi e nobili cani di razza si aggrappino a una gestione identitaria e autoritaria della alétheia esecrando la verità sessuata e volubile di Alatiel, migrante imperterrita del piacere e dell’autodeterminazione, che non disdegna trasbordi e salvataggi plurimi, come una Ong indocile.

La novella di Boccaccio non è un manifesto libertino (lo è anche, non c’è nulla di male, neppure troppo machista) ma, in primo luogo, è un’allegoria della translatio philosophiae attraverso il Mediterraneo mediata dal romanzo di formazione di un personaggio. Molto apprezzabile che la sua eroina, a differenza da Justine, gestisca gaiamente le sue avventure sulle sponde islamica e cristiana e pervenga a lieto fine. E così tocchi a noi.

Alatiel o gli infortuni della verità

Boccaccio, Decamerone, II giornata, novella settima. La bella vergine saracina Alatiel, va per nave verso il regno del Garbo (il Marocco), promessa sposa da suo padre, il sultano di Babilonia, al re che lo ha molto aiutato in battaglia. Ma il bastimento, salpato da Alessandria, all’altezza della Sardegna incappa in una tempesta, è abbandonato dall’equipaggio e fa naufragio sulle spiagge di Maiorca. Qui la stravolta Alatiel con tre cameriere rimaste vive è soccorsa dal cristiano Pericone, che la conforta e invano la corteggia. Malgrado l’impegno della ragazza a conservare la castità e, una sera ella è coinvolta in una festa con vino, canti e balli, perde la testa, si spoglia senza ritegno e si corica accanto a Pericone, che non perde l’occasione di trastullarsi amorosamente con l’agognata preda. Il fratello di Pericone, Marato, si innamora della cognata e fa uccidere il rivale nel sonno per rapire la donna. Costei piange a dirotto, ma il bel Marato, col santo Cresci-in-man che Dio gli dié, la consolò in tal modo che ella rapidamente si avvezzò alla nuova condizione. Ben presto le cose precipitano: i due giovani padroni della nave con cui era stato eseguito il rapimento si innamorano a loro volta della rapita, buttano a mare Marato e stabiliscono di spartirsi la donna, di nuovo lacrimosa. Ma non si mettono d’accordo su chi deve essere il primo dei due. Rissa a coltellate, uno muore, l’altro resta gravemente ferito. Alatiel cura il ferito e sbarca con lui a Clarenza (Kilini), in Morea.

Quando la fama della sua bellezza giunge alle orecchie del principe locale, questi se la prende in casa, trattandola da moglie più che da amante. Il duca d’Atene, sedotto dalle voci correnti, si reca in Morea, contempla la meravigliosa creatura e decide immantinente di strapparla al fortunato concorrente, che fa assassinare a tradimento da un servitore infedele (poi prontamente liquidato). Nella gran fretta si unisce subito ad Alatiel, che lì per lì neanche si accorge di fare l’amore con un estraneo e si abitua ben presto al nuovo compagno, che l’insedia in segreto a casa sua. I parenti del principe ucciso però non si rassegnano e mettono su un grande esercito per vendicarsi. Il duca d’Atene, a sua volta, ricorre all’aiuto dell’Imperatore di Costantinopoli, che invia in soccorso il figlio Costanzo. La stessa moglie del duca, figlia dell’Imperatore, si lamenta però della rivale, causa oltre tutto della guerra. Costanzo, un po’ per venire incontro alla sorella, un po’ perché incapricciato di Alatiel, delibera di sottrarla al duca e la trasferisce a Egina. Sollazzo consensuale fra i due, quindi partenza per Chios.

La vita beata ha presto termine: il re dei Turchi, Osbech, saputo della presenza del figlio dell’Imperatore con cui è in guerra, organizza una spedizione nell’isola, fa uccidere Costanzo e ne sequestra la compagna. In Smirne ne fa sua moglie e ancora una volta Alatiel piacevolmente si adatta. Ma l’Imperatore è alleato con Basano, re di Cappadocia, con cui conta di stringere Osbech in una morsa mortale. Il condottiero turco sceglie allora di attaccare per primo il più debole dei nemici, ma è sconfitto e ucciso. Prima di partire agli aveva affidato la bella donna a un attempato consigliere, Antioco, che oltre tutto sapeva parlare la lingua di Alatiel, finora comunicante con il solo linguaggio del corpo. Costui se ne innamora e, senza riguardo al suo re impegnato in guerra, prende (ricambiato) con lei meraviglioso piacere sotto le lenzuola. Alla notizia della sconfitta di Osbech i due non restano ad aspettare il vincitore, ma veleggiano per Rodi. Qui Antioco si ammala e poco dopo muore, affidando la donna a un amico mercante cipriota. Con grandi sospiri la vedova gli si affida come una sorella, ma ben prima dello sbarco a Baffa (Paphos, a Cipro) il buio e il caldo del comune lettuccio li inducono ad altri rapporti.

Nell’isola incontrano Antigono di Famagosta, che riconosce in Alatiel la figlia del sultano, al cui servizio era stato per qualche tempo ad Alessandria. Commozione della donna, che desidera essere aiutata da lui a raggiungere la mèta iniziale, il regno del Garbo. Antigono la riconduce innanzi tutto al padre, raccomandandole di non raccontare la storia vera, ma una alternativa. In breve, ella avrebbe fatto naufragio, poco dopo la partenza, in Provenza, a Aigues-Mortes e, sfuggita a vari violentatori, avrebbe trovato rifugio in un monastero cristiano, le cui suore erano molto devote a san Cresci-in-Valcava, assai amato, of course, dalle femmine locali. Qui ella ne aveva adottato i costumi per salvare vita e onore, finché la badessa l’aveva affidata a degli onorati pellegrini che si recavano a Gerusalemme, al sepolcro di quel Cristo che essi considerano figlio di Dio. Tappa a Cipro, incontro con Antigono, che da parte sua conferma citando le lodi degli accompagnatori cristiani all’irreprensibile castità di Alatiel. Sia il sultano che il re del Garbo, cui va sposa, abboccano ed ella, che con otto uomini forse diecimila volte giaciuta era, allato a lui si coricò facendosi credere pulzella e visse felice. Bocca baciata non perde ventura, anzi rinnova come fa la luna.

Bella storia, istruttiva e in sé del tutto conclusa. Ma c’è qualcosa di più? Forse qualche dettaglio nel precisissimo itinerario nautico induce in sospetto. Tanto rapidamente si arriva in Sardegna (storia vera) o in Provenza (storia fasulla) che si potrebbe opinare che il luogo di partenza non sia Alessandria, ma le bocche del Rodano e che il sultano di Babilonia sia (come da polemiche apocalittiche) il Papa di Avignone. Ma chi è in realtà la nostra protagonista, cristiana o saracina che fosse? Azzardando un’etimologia alla Heidegger, Alatiel è il nome arabizzato della verità, alétheia, come filosofia era diventata falsafa. Secondo questa ipotesi, discutibile ma suggestiva (che devo ad A. Gagliardi), il viaggio è un’allegoria delle vicissitudini della verità cristiana mescolata con la filosofia araba. Contesa fra molti, riuscirà ad arrivare vergine a destinazione? Sin dal primo naufragio Alatiel tace il proprio nome e condizione e anche in seguito, per ignoranza delle lingue straniere, si esprime con i suoi amanti mediante i fatti, non le parole.

Quando infine trova qualcuno che parla la sua stessa lingua (e non cerca di possederla fisicamente), impara a dissimulare e a spacciare per castità la propria obbedienza al desiderio e alla legge naturale, che è quella del corpo. Non difende la verginità a prezzo del martirio, ma sceglie la vita. Si salva, anzi, abbandonandosi alla propria natura di donna, gestendo mediante la doppiezza della parola (e non più con il silenzio), la verità dei fatti. La verginità, garanzia del potere del Papa-Padre-Sultano, è aggirata dalla menzogna (come allegramente praticato dalle religiose, senza però implicazioni veritative). La doppiezza, perenne scudo dell’intellettuale critico secondo le ben note tesi di Leo Strauss, garantisce alla verità il ritorno come figlia della Chiesa e sposa del re arabo, la doppia legittimazione medievale della filosofia-falsafa nella Scolastica e nel dibattito islamico. Naturalmente non arriva vergine ma ben calata nella realtà desiderante.

Boccaccio, buon conoscitore ed estimatore di Averroè e che risolveva in termini ben diversi da quello del suo amatissimo Dante il rapporto tra fede e ragione naturale, si fa carico della dissimulazione filosofica e dell’ineluttabilità della «doppia verità» in contesti dominati da ideologie trascendenti e moralistiche, cogliendoci un’occasione per aprire un varco all’immanenza e a uno stile di vita virtuoso ispirato all’Etica Nicomachea di Aristotele. L’occultarsi della verità sta in un «darsi» assai carnale, per un verso, nel velamento attraverso i pregiudizi delle due religioni per l’altro. La beffa chiacchierata distrugge requisiti e pratiche confessionali, mentre il desiderio si manifesta nella nudità dei soli atti strutturando una singolarità liberata e felice. L’invadenza del significante (il Cresci-in-man) è svincolata da qualsiasi gerarchia di dominio grazie al nascondimento linguistico, non disinveste la soggettività del corpo femminile a favore dell’obbedienza al padre e al marito ingannati. Non c’è donna-oggetto, ma gli amanti sono i pretesti intercambiabili del suo erratico piacere (ovvero: non si può «possedere» la verità e ridurre l’Essere a ente, il fondo a presenza).

A differenza dell’apologo di Cavalcanti (nona novella della VI giornata), in cui sono i personaggi beffati dal detto enigmatico del poeta averroista ateo e maledetto («Fra le arche tombali, signori, siete a casa vostra») a svelare il senso recondito (che gli ignoranti sono spiritualmente morti), qui è solo il narratore a padroneggiare il gioco dei fatti e dei travestimenti e può sorridere e far sorridere dei trucchi e dell’autoinganno dei protagonisti.

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