Un Focus su Stefano Rodotà, il suo magistero e la sua eredità, tra il «terribile diritto», la materia giuridica come azione di «guerriglia» e i beni comuni.
I doveri del diritto
L'utopia concreta di Stefano Rodotà
Tante immagini si accavallano alla mente quando si pensa a Stefano Rodotà, immagini di libri, di parole, di discorsi, di aule, di istituzioni, di piazze. In ciascuna, nella sua singolarità, il timbro di un pensiero critico e «potente», di un’originalità, di un coraggio, di una cura, di una curiosità creativa ineguagliabili. Sì perché Stefano Rodotà era, come è stato giustamente osservato, un uomo di «confine»1. Al confine tra diritto privato e diritto costituzionale, al confine non solo tra discipline, ma anche tra diritto e politica, tra ricerca intellettuale e impegno altamente democratico, tra Italia ed Europa, tra istituzioni e movimenti. E dal confine, da quanto lì si «muove», l’osservazione muta prospettiva, si fa più ricca e articolata, capace di comprendere le sconnessioni, le tensioni della realtà; capace di scorgere il farsi, il prodursi delle soggettività, i nessi profondi e inestricabili tra diritti e bisogni, tra eguaglianza e libertà, tra res pubblica e res privata, tra «dentro» e «fuori», tra ordine materiale e ordine simbolico/formale.
Homo dignus è il titolo della sua lectio doctorialis tenuta a Macerata nell’ottobre del 2010 – in occasione del conferimento della laurea honoris causa in Scienza della politica – pubblicata poi in un volume dal felicissimo titolo La rivoluzione della dignità (2013). Qui Rodotà ha dato conto di quella innovazione profonda e irrinunciabile presente appunto nella «rivoluzione della dignità». Di contro ad una persona, scriveva, nuovamente «consegnata all’astrazione, disincarnata, ridotta a fantasma tecnologico», è l’antropologia dell’homo dignus «che obbliga a mantenere al centro la dimensione dell’umano, la sua ricchezza, l’imprevedibilità e la libertà». Il diritto stesso coinvolto nel compito di «difendere le categorie antropologiche fondamentali» si apre al mondo, entra «nelle pieghe del mutamento», se ne fa misura, proprio in quanto guidato dal principio di dignità (sociale). Nella indivisibilità e nei molteplici intrecci dei principi fondamentali di libertà, uguaglianza e solidarietà – affermava nelle sue parole conclusive – «questo homo riceve maggiore pienezza di vita e, quindi, più intensa dignità umana».
Una ricerca quella di Rodotà che dalla critica della proprietà, della logica dell’appropriazione e del modello antropologico dell’individualismo proprietario all’indagine senza sosta sull’umano, ha continuato a spaziare verso nuove frontiere, concentrandosi ogni volta su temi e problematiche inediti, assai poco battuti: la rete, la privacy, il bio-diritto e la bioetica, gli stessi beni comuni. Solidarietà, laicità, égaliberté, costituzionalismo democratico, costituzionalismo dei bisogni, costituzionale globale possibile, dignità, diritto d’amore sono alcuni dei concetti chiave della vastissima ricerca di Rodotà. Questi amava spesso richiamarsi a una delle lezioni più vive di Lelio Basso, al quale è stato legato e della cui Fondazione a lungo presidente, in modo sempre attivo e mai formale. Era la lezione a sua volta consegnata da Marx nel I volume del Capitale. Quella, già evocata2, della critica tanto del cosiddetto «uguale diritto borghese»; quanto dell’apparente «uguaglianza» (e libertà) che vige nella sfera della circolazione, dello scambio di merci, in quell’«Eden dei diritti innati dell’uomo» ben lontano dal «segreto laboratorio della produzione». E ancora, era la lezione racchiusa nell’efficacissima formula marxiana dell’antinomia del «diritto contro diritto», realizzantesi nella lotta – quotidiana – per la regolazione della giornata lavorativa (per i suoi limiti) «fra il capitalista collettivo, cioè la classe dei capitalisti, e l’operaio collettivo, cioè la classe operaia».
Sì perché Rodotà, richiamandosi anche a quell’interpretazione processuale della rivoluzione cara a Luxemburg e a Basso, credeva nella logica contraddittoria inscritta nel capitale, nell’antagonismo che si dà tra spinte progressive interne alla dinamica socializzante dello sviluppo delle forze produttive e tendenze regressive, controreattive; credeva nel protagonismo delle soggettività politiche capaci di inserirsi all’interno di tale logica antagonistica, utilizzandone la spinta per realizzare di volta in volta nuove conquiste. Rodotà aveva quella stessa «vocazione costituente», come scrisse di Basso, che lo portava ad una interpretazione del diritto in grado di adattare la norma giuridica alle esigenze collettive manifestatesi nel contesto sociale. Rodotà credeva nella possibilità di trasformare questo mondo in cui viviamo, non già a partire da una sola istanza etico-volontarista, bensì dalle potenzialità del conflitto, dall’agire stesso dei soggetti – delle persone – immersi nella logica dinamica del cambiamento, in un futuro che è già presente.
Il diritto e il terreno costituzionale allora si sono fatti nel suo pensiero e percorso «laboratori» e strumenti irrinunciabili, vitali. Un diritto a contatto con la realtà, con il sostrato materiale, con i soggetti in carne e ossa, immerso nella processualità della storia. Un diritto più vicino allo ius, ai mores, al lato materiale della vita, alla dimensione del nómos di Antigone. Il diritto letto nei suoi scarti e nelle sue eccedenze, nella sua potenza simbolica, performativa e trasformativa; il diritto che vive della prassi, dell’esperienza e dell’interpretazione.
Rodotà coglieva da tempo i rischi presenti nei processi di deregolamentazione e di privatizzazione della produzione del diritto; e al contempo del diritto coglieva il ruolo fondamentale e strategico, a partire dai suoi dispositivi, dalle sue pratiche e in relazione a una dimensione di agita conflittualità da parte dei soggetti, in ordine a condizioni e situazioni concrete. Se il diritto non era mai disgiunto, nelle sue parole e nella sua pratica di vita, dalla politica e dalle istanze della società, i diritti fondamentali nella loro fondazione sociale erano sempre collegati a soggetti plurali e alla materialità delle loro vite, oltre qualsiasi dicotomia del passato (in primis tra sfera pubblica e sfera privata).
Nei suoi inviti continui a una ricostituzionalizzazione dell’Europa (così come ad una «costituzionalizzione» della persona), nei suoi appelli alla necessità di una politica costituzionale, volta a rafforzare il sistema delle tutele e delle garanzie, volta a dare attuazione a diritti costituzionalmente garantiti, protagonismo della giurisdizione e protagonismo della politica andavano di pari passo (con un forte monito, anzi, a che a questa ultima proprio non si rinunciasse). La politica intesa in senso arendtiano, come ambito in cui si realizza la natura umana, come attività relazionale dell’agire: vita activa.
Rodotà ha incarnato quel continuo anelito – proprio anche del costituzionalismo democratico – volto a funzionalizzare il potere ai bisogni della società e alle istanze degli individui, prime tra tutte quelle dell’égaliberté, in un percorso espressosi entro il fondamento materiale della «lotta per i diritti», esito e orizzonte, ideale e normativo, di conflitti incessanti agiti in nome di tali aspirazioni («anche quando – scriveva in Il diritto di avere diritti – i tempi e le contingenze sembrano più avversi»). L’anelito alla realizzazione dell’uguaglianza sostanziale ha accompagnato quello teso a una ««egualizzazione» della libertà» e ad una liberazione dell’eguaglianza (per usare una efficace espressione)3, senza mai perdere il profondo nesso costitutivo fra l’una e l’altra (fra libertà ed uguaglianza).
La sua è stata anche una grande lezione per gli storici: si pensi soltanto all’interpretazione della storia d’Italia – consegnata nelle pagine di un saggio originalissimo (Le libertà e i diritti, 1995) – attraverso il paradigma delle libertà e dei diritti, capace di cogliere gli aspetti qualificanti delle vicende nazionali dall’Unità sino agli anni Novanta del Novecento. Una lettura imperniata sulle mancanze e il particolarismo dello Stato unitario e della sua classe dirigente, sulla pervasività della logica privatistica e del diritto proprietario; sul carattere totalitario del regime fascista; sull’innovazione costituzionale della Repubblica; sul campo di tensione successivo (tra «la logica della «cittadella assediata»» e l’apertura di nuovi spazi di libertà); su quell’«addensamento di atti riformatori» senza paragoni degli anni Settanta sino alle preoccupazioni della fine del secolo relative al palesarsi di «una frettolosa cultura maggioritaria» lesiva dell’idea stessa di costituzione e quindi del «fondamento moderno del sistema dei diritti». Una lettura che nel suo afflato civile, nel suo rigore intellettuale e nel suo intreccio di saperi resta un prezioso punto di riferimento anche rispetto ad un gesto di riattivazione del passato connesso alla trasformazione del presente, nella prospettiva di un futuro capace di orientarci.
«È come se determinate persone si trovassero nella propria vita (…) talmente esposte da poter essere paragonate nello stesso tempo a punti d’incrocio e a oggettivazioni concrete «della vita»4. È quanto qui racchiuso, in questa frase di Hannah Arendt, che a me sembra rievocare il percorso scientifico, umano e politico di Stefano Rodotà, la sua peculiarissima attitudine «profetica»5.
Note
↩1 | G. Azzariti, Per Stefano Rodotà, «Costituzionalismo.it», 1/ 2017. |
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↩2 | G. Amendola, Smontare la logica proprietaria. Uno spirito critico tra regole e autonomia, OperaViva Magazine, 6 luglio 2017. |
↩3 | Così É. Balibar, È ancora possibile una critica marxista dei diritti umani?, in «Parolechiave», 57, 2017. |
↩4 | H. Arendt, lettera n. 15 del 24 marzo 1930 a Karl Jaspers in J. Kristeva, Hanna Arendt. La vita, le parole, Donzelli, Roma 2005, p. 19. |
↩5 | M.R. Marella, Stefano Rodotà. L’urgenza del conflitto, Il Manifesto, 7 luglio 2017. |
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