I filosofi sanno ridere?
Il nuovo libro di Michele Martelli
Dei filosofi sicuramente si ride (ogni storia della filosofia comincia con la derisione della servetta trace nei confronti del meditabondo e distratto Talete), ma i filosofi, a loro volta, sanno ridere e amano ridere? Non tutti, ma solo chi sa relativizzare la conoscenza. E per Michele Martelli (Il riso dei filosofi, Castelvecchi, 2024) prototipo positivo è l’ironia socratica in cui il comico lavora a favore del ragionamento, sia rappresentando il meccanismo dialogico-razionale con disincanto e spregiudicatezza sia usandolo per paralizzare e confutare gli avversari. «Si instaura così il legame essenziale del comico col relativismo critico, scettico o agnostico, che ritiene principi, idee, verità e valori non dogmi assoluti e sovrastorici, incriticabili e indubitabili, ma prodotti culturali storicamente e socialmente condizionati e situazionati, suscettibili di essere messi in dubbio, criticati, integrati, modificati o sostituiti» (p. 10).
All’opposto il comico non lega con filosofie dogmatiche e soprattutto con il pensiero teologico. Gli dei olimpici sanno ridere, ma non quelli solitari e assoluti delle religioni monoteistiche. Quel Dio non ride mai. È agélastos, cioè non solo è incapace di ridere, ma odia che ride, è nemico del riso. Il riso, più che nemico dei filosofi, lo è dei monoteismi, e quindi dei teologi, degli assolutisti, dei dogmatici, dei detentori di un potere che si presume non sottoposto a discussione. L’opposizione classica, bergsoniana, fra meccanismo rigido e flessibilità della vita, ripetizione e unicità del gesto e il ruolo correttivo e socializzante del riso vengono trasposti sul piano dei contenuti di pensiero in funzione antimetafisica.
In realtà l’aneddoto di Talete e della servetta presenta non uno ma due «personaggi filosofici», per usare una terminologia deleuziana, il filosofo trascendente con la testa nell’iperuranio e la servetta con i piedi ben piantati in terra, che è poi la difesa che ne fa Platone e che viene ripresa autorevolmente da Hegel e Heidegger e che viene raddoppiata con l’utilitarismo di chi ricorda che quel sognatore sapeva calcolare le eclissi e gli eventi metereologici al punto da speculare sui raccolti delle olive immagazzinandole per conferirle più care ai frantoi.
Tra i filosofi antichi Martelli crea quindi una triade che in modi diversi usano il riso. L’atomista Democrito, il philosophus ridens della tradizione, stimava degna di riso ogni cosa umana denunciando l’attaccamento a beni e istituzioni la cui vanità dipende dal moto vorticosa degli atomi e, in ultima istanza, da determinazioni casuali e fuggevoli. Per un filosofo – secondo l’icastico verso dantesco – «che il mondo a caso pone» neppure gli dei hanno uno statuto più elevato e qui siamo molto prossimi al relativismo critico e agnostico di Protagora. Democrito non si abbandona tuttavia alla dispersione, ma invita a godere di quel che si ha.
Con Diogene il relativismo sta nei comportamenti personali più che in un sistema scientifico e teorico. Il «suo motto era l’autosufficienza, il bastare a se stessi; il suo ideale l’autarchia. Si direbbe che il riso cinico di Diogene smonti ante litteram la filosofia della storia di Hegel, il quale non a caso condannava il ridicolo come inanità e degradava il comico e la satira a prodotti di un io ipertrofico o dilaniato dall’opposizione tra essere e dover essere, ossia tra l’astrazione dei propri ideali e la realtà oggettiva esistente» (p. 28). Similmente al suo maestro cinico Antistene critica le astrazioni platoniche, contrappone il cavallo singolo all’equinità, negando non solo la trascendenza ma la stessa consistenza delle Idee, che satireggia non con formule argomentate ma con un’ostentazione gestuale, come quando, per ridicolizzare la definizione diairetica dell’uomo come bipede implume senza ali, spennò un gallo e lo portò in aula all’Accademia esclamando: «Ecco l’uomo di Platone»!
Nell’estremo scetticismo di Pirrone, invece, l’atarassia, ovvero l’indifferenza paradossale (e comica) agli accadimenti esterni, deriva dal dubbio radicale intorno alla verità, che porta a una totale sospensione di giudizio su vero e falso, come attestano numerosi aneddoti che amplificano e sistematizzano la distrazione taletiana come una sorta di epoché..
Lo stesso Socrate, peraltro, nelle testimonianze diverse da Platone (e a tratti nei suoi Dialoghi giovanili), non appare tanto lontano dalla giocosità sofistica e della successiva generazione scettica. «Un Socrate amante del riso è confermato anche nei Memorabili di Senofonte, dove sapeva mostrarsi «utile a chi lo frequentava sia quando scherzava sia quando parlava seriamente. Avendo poi messo alle strette col suo metodo confutatorio il sofista Ippia di Elide a proposito della definizione del giusto, fu rabbiosamente redarguito dal suo interlocutore: Basta con il tuo prenderti gioco degli altri, interrogando e confutando tutti, senza essere disposto tu stesso a rendere conto a nessuno né a esprimere la tua opinione su nessun argomento. Parole che sono un segno premonitore del futuro processo e condanna a morte del filosofo: una critica radicale, che tutto e tutti interroga, relativizza, mette in dubbio e spesso in ridicolo, non può essere ben vista dal potere».
Non a caso, il suo allievo e parziale interprete Platone, man mano che gli mette in bocca il proprio nuovo sistema, smorza i toni ironici e spiritualizza seriosamente vita e pensiero del Maestro, fino a sopprimere radicalmente l’elemento comico quando il Filosofo ambisce a farsi Re e Legislatore, nella complessa architettura della Repubblica e delle Leggi, dove il riso è censurato nei cittadini quasi come un crimine e lasciato agli schiavi e agli stranieri Un divieto che, come la parallela condanna delle arti rappresentative, ricalca la severità biblica iconoclastica e avrà successo nella nascente cultura islamica , compresa la falsafa (neo)platonizzante.
Nel periodo ellenistico si diffonde una sottospecie di letteratura filosofica (la cosiddetta seconda sofistica) che si dedica specificamente alla satira e alla demolizione della filosofia o almeno di essa in quanto sistema: ne sono autorevole testimonianza i Dialoghi di Luciano di Samosata (II secolo d. C.), che utilizzano largamente anche le anteriori Satire menippee del III secolo a.C. In complesso, per i Greci «il riso, con tutto ciò che a esso attiene, era una dimensione insopprimibile, e protetta dalla divinità, dell’esistenza umana. Persino un potere regale che pretendesse sopprimerlo era destinato a perire miseramente. Nella mitologia greca il dio del riso, del vino e del teatro è Dioniso, il temibile e vendicativo patrono delle feste orgiastiche collettive in cui ogni trasgressione era permessa: feste rurali con cortei e processioni oscene e canti stravaganti»; Nelle Baccanti di Euripide il dio spinge l’incredulo Penteo, re di Tebe, ad assistere, travestito da donna, a quelle feste sul monte Citerone, dove è scambiato per un leone e fatto a pezzi dalle baccanti invasate, compresa sua madre Agave. «Chi non crede al dio del riso diventa preda della sua terribile vendetta. Ossia: la dimensione esistenziale del riso non può essere da nessuno negata o soppressa. Pena la sua autocondanna a una morte orribile» (pp. 36-37).
La negazione del riso, fallita al Platone più metafisico e autoritario, riesce invece a un passaggio storico collettivo, la distruzione del paganesimo operato dalla nuova religione cristiana, i cui Padri fondatori si distinguono per la loro avversione al riso; Pacomio lo esclude dalle regole cenobitiche, Clemente Alessandrino lo dichiara incompatibile con la fede autentica, Tertulliano denuncia la presenza corruttiva del diavolo negli spettacoli buffoneschi e gladiatori. Con maggiore finezza Agostino, sulle orme di Platone, condannò sia l’improprietà del riso davanti alla perfezione del Creatore e del creato, sia il suo luogo pubblico, il teatro. Esso è una fiera delle apparenze e del dubbio, dove si scherniscono gli dei o i nuovi dogmi cristiani o gli uomini onorati e dominano istrioni e attori, che andrebbero invece messi al margine della città terrena e privati di lavoro con la chiusura dei teatri. Programma che in effetti fu gradualmente realizzato fra Costantino e Teodosio. Senza soffermarci su altre, magari meglio argomentate condanne, quali quella tomistica, abbiamo capito che il Medioevo non è buon periodo per la legittimazione teoretica del riso (che ovviamente continuerà a essere praticato nella vita extra-filosofica) e che per un cambiamento di paradigma dovremo aspettare il Rinascimento. Gli esponenti più significativi della demolizione della Scolastica medievale sono Rabelais ed Erasmo.
Con il primo, «ci imbattiamo: a) in una concezione del riso come dispensatore di gioia e rigeneratore delle energie vitali, che valorizza il principio del basso materiale e corporeo, condannando tutto ciò che è alto, spirituale, ideale e astratto (la Ragione speculativa, l’aldilà cristiano, l’Iperuranio platonico o il Logos stoico); b) l’immaginazione gioiosa e utopica di un mondo alla rovescia, un secondo Mondo antitetico al nostro, raffigurato nell’Abbazia di Thélème, una microsocietà libera, solidale ed egualitaria, fondata da Gargantua, erede per via paterna del regno di Utopia, e regolata dal principio libertario Fa ciò che vuoi» (p. 72).
Erasmo, che adotta invece la forma tradizionale del saggio, nel suo Elogio della follia ne distingue due specie – una cattiva e negativa, un’altra buona e positiva. «La prima, è quella di chi idolatra il potere, gli onori e il danaro, di chi pretende di possedere la Verità assoluta, di avere Dio dalla propria parte, identificando i propri nemici con Satana, e perciò accumula ricchezze, perpetra soprusi, affama, anatemizza, tortura, manda al rogo, causa guerre, uccide e stermina nel pretestuoso nome di Dio». In questa sezione Erasmo fa salire sul proscenio un’interminabile ridicola folla di personaggi tipici della teologia medievale e contemporanea e della filosofia antica greco-romana (Realisti, Nominalisti, Tomisti, Albertisti, Occamisti, Scotisti», gli uni contro gli altri armati e con le più bizzarre pretese di spiegare ogni mistero della Sacra Scrittura e della Metafisica) nonché i filosofi stoici che si fingono uomini perfetti. La critica e la messa in ridicolo rimandano a un punto di vista relativistico moderato proprio di Arcesilao e Carneade piuttosto che a un nichilismo alla Pirrone.
«La follia positiva è invece: a) quella del saggio-folle (morosofos), folle in apparenza, ma in realtà saggio», sul modello di Democrito, Menippo o Demonatte quali presentati nei Dialoghi lucianei. «Da questa doppia influenza, rabelaisiana e lucianesca, deriva l’immagine della vita umana come teatro, mascherata» (pp. 77-78), in quei termini di materialismo carnevalesco che saranno cari a Bachtin.
L’aspra polemica condotta da Giordano Bruno e coronata dal martirio del protagonista mescola infine la radicalità antimetafisica e l’abile derisione dei creduli seguaci confessionali. Questo schema del riso versus la cieca fede nei dogmi religiosi e filosofici accompagna anche le tappe successive della storia della filosofia, la cui schematizzazione non è sempre convincente come in queste prime parti, ma ne mantiene con coerenza l’originale approccio, con punte di eccellenza nella trattazione di Diderot e Voltaire, per quanto concerne l’Illuminismo, del Marx della Sacra Famiglia, qualche omissione (Spinoza) e un certo riduttivismo nei confronti di Nietzsche, che solo in parte rientra nella duplice caratterizzazione della satira, che dileggia il potere restituendo dignità agli oppressi o si muove dall’alto verso il basso con l’irrisione del carnefice verso la vittima. Non che questo secondo tratto sia assente, ma non cancella il gioco cosmico del fanciullo eracliteo e il taglio illuministico della Gaia scienza. Che segna poi l’irriducibilità di Nietzsche alle ontologie di Heidegger e Severino, quelle sì assertive e impenetrabili al riso.
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