Il freno di emergenza
Walter Benjamin secondo Michael Löwy
Al cuore della visione politica di Walter Benjamin c’è l’idea di rivoluzione intesa come interruzione della continuità storica del dominio in vista di un reincantamento del mondo in grado di dare voce e forza ai vinti della storia che, attraverso l’azione dei contemporanei, possono realizzare quel riscatto capace di trasformare radicalmente i rapporti di forza sedimentati nelle moderne civiltà borghesi industrializzate. La pubblicazione della raccolta di saggi di Michael Löwy intitolata La rivoluzione è il freno di emergenza, da parte dell’editore Ombre Corte (2020), propone al lettore italiano un’interpretazione di questa lettura politica del pensiero di Benjamin.
Piuttosto che un concetto di rivoluzione come rovesciamento «naturale» degli esiti del progresso socio-economico e tecnico-scientifico, o come acme della contraddizione dei rapporti di forza e di produzione capitalistici, l’immagine che Benjamin fornisce della rivoluzione – penso in particolare alle Appendici alle Tesi sul concetto di storia, tesi che costituiscono il filo conduttore dell’analisi di Löwy e a cui ha dedicato un saggio del 2001, Avertissement d’incendie – è quella di un freno di emergenza a cui l’umanità può fare ricorso per interrompere il viaggio, apparentemente inevitabile, della locomotiva della storia universale. Il marxismo di Walter Benjamin – perché di marxismo si tratta, sia detto con chiarezza – che Löwy definisce eretico in rapporto sia a quello ortodosso degli epigoni della Seconda Internazionale e sia a quello nascente della Terza, si configura intorno a questa tesi che egli sintetizza in un decisivo passo delle suddette Appendici, là dove entra in contrasto con lo sviluppo marxiano dalla lotta di classe alla società senza classi (dalla rivoluzione alla vittoria dei vinti). Secondo la lettura benjaminiana del 1940, Marx ha concepito la società senza classi come compimento dello sviluppo storico (progresso) che si realizza attraverso una serie di lotte di classe. Questa erronea concezione – fatta propria e sviluppata, secondo Benjamin, dagli epigoni del marxismo ortodosso – è derivata da un’altrettanto erronea concezione della storia intesa come un continuum che si svolge fino a concretizzarsi in una «fatale» situazione rivoluzionaria che, come si sa, chiosa Benjamin, non volle mai giungere. Di fronte ai fallimenti dei movimenti rivoluzionari tedeschi più recenti e alla catastrofe dei fascismi, consapevole del fatto che «il capitalismo non morirà di morte naturale», Benjamin risponde con un coraggioso «balzo di tigre» che restituisce all’idea di società senza classi il volto messianico e materialistico, l’unico in grado di guardare agli interessi della politica rivoluzionaria del proletariato, dei vinti. È questo è il nucleo teorico benjaminiano al centro della riflessione che Löwy propone lungo i saggi raccolti in questo volume.
Ma cosa vuol dire «volto messianico e materialistico della rivoluzione»? Per rispondere a questa domanda Benjamin ha bisogno di una nuova filosofia della storia che faccia piazza pulita dell’idea di accumulazione quantitativa che sta alla base sia dell’ottusa fede nel progresso che della repentina (e falsa) presa di coscienza delle masse. Bisogna spezzare la catena del continuum accumulato nel comune denominatore della cultura, dell’illuminismo e dello spirito oggettivo, scrive nel 1940, per dissolvere la sequenza degli attimi fino a cogliere la coincidenza che si manifesta nella costellazione di un unico identico attimo storico, nell’immagine dialettica definita come ricordo involontario dell’umanità redenta. Nel «sempre qui» del regno messianico – pensiero di Benjamin che Scholem riporta nei suoi Tagebücher 1917-1923 – lo Eingedenken si dispiegherebbe prosaicamente e in modo involontario al fine di scardinare il continuum della storia e per arrestarlo in una costellazione satura di tensioni: in quel punto la monade storica è riconosciuta come il segno di un arresto messianico dell’accadere (tesi XVII), ossia come la chance rivoluzionaria nella lotta a favore del passato oppresso. La rivoluzione passa attraverso questa «piccola porta», e non attraverso l’illusorio portone di una presunta necessità storica: la benjaminiana coscienza di classe potrebbe definirsi come il saper attraversare la soglia perigliosa di questa «piccola porta». Bisogna perciò conquistare la consapevolezza della discontinuità storica quale peculiarità propria delle classi rivoluzionarie nell’attimo della loro azione. La storia degli oppressori fa sua la tradizione degli oppressi riducendola all’idea di progresso; la storia degli oppressori è quella dell’adesione al vigente, della conformità allo sviluppo progressivo, del conformismo della necessità. Ma grazie all’illuminazione profana, che conquista le forze dell’ebbrezza alla rivoluzione – forze aiutate dalla preparazione disciplinare che non permette di ridurre la chance rivoluzionaria a una prestazione spontanea o attivistica – questa consapevolezza può dare corso a questa chance strappando la trasmissione del passato al conformismo dei dominatori per restituirla a quella dei dominati, riscattandoli (tesi VI).
Questa estrema sintesi introduce i temi svolti da Löwy a partire dalla sua analisi del primo momento di critica al capitalismo svolto da Benjamin nel frammento del 1921, Il capitalismo come religione. Löwy ricorda come il giovane Benjamin individui nel capitalismo una struttura essenzialmente religiosa: il capitalismo è una religione puramente cultuale che colpevolizza e indebita senza consentire alcuna espiazione della colpa (Schuld) o estinzione del debito (Schuld). La totalità creata dal capitalismo ha un carattere di culto dalla durata permanente (il capitalismo instaura un mondo eterno, continuo e sistematico direbbe Weber, che correttamente Löwy ci ricorda essere il punto di riferimento di questo scritto giovanile) che ha finito per coinvolgere interamente Dio stesso, fino alla caduta della sua trascendenza nello stato di completa disperazione del mondo in cui si arriva persino a sperare, ma senza possibilità di espiare, nella vana attesa di una salvezza che non è data in alcuna parte di questa totalità (è a partire da qui che inizia il cammino di Benjamin che lo porterà all’incontro con Kafka negli stessi anni della sua adesione al marxismo). A ciò Löwy aggiunge l’argomento della dannazione del povero e dell’oppresso: il capitalismo, quale forma naturale e necessaria dell’economia moderna, non ammette alcuna via d’uscita; esso si presenta come un destino inevitabile e intangibile la cui resistenza nei suoi confronti va a sciogliersi in una sorta di amor fati, nel nietzscheano «non voler nulla di diverso, anzi amarlo». Gli umani possono arrivare ad amare le loro catene, soprattutto se il loro Dio si è incatenato, a sua volta, alla stessa gabbia ed è coinvolto nella stessa colpa. Irreversibilità, inevitabilità, necessità «naturale», totalità senza via d’uscita, durata eterna: sono proprietà del capitalismo e del suo carattere progressivo. Nel 1921 Benjamin usa termini di chiara accezione economica per mettere in evidenza la matrice religiosa del capitalismo legata a queste proprietà e al concetto di progresso, identificato con l’intensificazione del sistema, l’espansione capitalistica, l’accumulazione di merci e capitali. Ne consegue che un’errata forma di resistenza si rovescia nel suo contrario, ossia essa aggrava la disperazione nel mettersi all’inseguimento dell’intensificazione irreversibile, nel vano tentativo di correggere o controllare la destinazione della locomotiva della storia che ha ormai perduto ogni carattere provvidenziale perché rimanda continuamente il momento escatologico a un tempo infinito che non arriva mai. A questo tempo irraggiungibile il capitalismo risponde con la promessa di godimento del valore, con la magia di un’astratta felicità che trascina con sé il senso di colpa entro un binomio inscindibile che frantuma ogni legame mantenendo intatto solo quello con il debitore1.
A ciò, scrive Löwy, il capitalismo replica con una disperazione che investe i «dannati della terra», mantenendoli in vita al suo servizio e promettendogli un paradiso alla fine del continuum che non giungerà mai. Si tratta di una falsa promessa: come ha scritto bene Moroncini2, il capitalismo non economizza il plusvalore, ma lo reinveste integralmente spacciando così l’intensificazione come progresso da condividere tutti insieme. Il capitalismo dice: «Il progresso è bello! Facciamo tutti parte del motore del progresso e viaggiamo tutti con la stessa locomotiva! Si tratta solo di seguirla fino in fondo correggendo qua e là (riformando) dove possibile le condizioni vigenti». Questo tragico e disperante errore non è compiuto, secondo Benjamin, solo dalle forze reazionarie del capitalismo, ma anche da quelle socialdemocratiche progressiste e riformiste e dal marxismo ortodosso della Seconda e Terza Internazionale che condividono gli aspetti positivi ed evolutivi del divenire storico in attesa della sua necessità.
Tornando alle pagine benjaminiane lette da Löwy ci si chiede: può bastare il socialismo libertario del Landauer di Aufruf zum Sozialismus (1919, all’epoca riferimento di Benjamin) per opporsi alla modernità capitalistica grazie a una sorta di Umkehr a una vita comunitaria più legata alla natura? O la soluzione di Unger, ossia la Wanderung di Politik und Metaphysik (1921) che, come scrive Löwy, propone la fuoriuscita dalla sfera d’azione del capitalismo in regioni in cui esso non è vigente? Ma sappiamo che non vi sono regioni libere dal capitalismo, così come sappiamo che l’economia capitalistica è globale e che anche le formule «glocali» e «naturalistiche» sono soggette alla stessa economia. Sappiamo anche che è difficilissimo trovare strade di sviluppo socio-economico che mettano insieme sostenibilità ecologica, livelli di benessere diffuso e giustizia sociale. Infine, non riteniamo che i due concetti di Umkehr e Wanderung rispondano efficacemente agli orizzonti che Benjamin stava esplorando: né una natura esoterica e primitiva, né una migrazione oltreconfine sono risposte adeguate alle analisi del presente e al superamento del vigente. A modo suo, il percorso benjaminiano di critica del capitalismo che a breve incontrerà il marxismo non ortodosso si presenta come una lotta per la trasformazione della società e dei rapporti sociali di produzione.
E allora? Si tratta di uscire dalla totalità del capitalismo, ma come? Come perdere la fede nel capitalismo come religione e «laicizzare» la felicità emancipandola dalla promessa di un mero benessere economico soddisfatto al costo di un debito inestinguibile? Come dare voce ai vinti e agli oppressi ristabilendo una filosofia della storia che risponda efficacemente all’etica della disperazione? E soprattutto, come interrompere l’intensificazione arrestando la linea del progresso fino a fermarla, storicizzando e secolarizzando il capitalismo per rompere il suo modello di sviluppo e mettere in campo quelle «forze dell’ebbrezza» in grado di agire politicamente in un «tempo che resta» che è tutto da cercare3? C’è un passaggio che Benjamin compie e che Löwy segue lungo questi saggi: il passaggio dal 1921 al 1924, ossia il momento in cui l’anarchismo libertario della prima ora (uso il termine di Löwy) incontra il marxismo non ortodosso di Lukács e Korsch. Gli anni di stesura dell’Origine del dramma barocco tedesco sono quelli di uscita di Storia e coscienza di classe di Lukács e Marxismo e filosofia di Korsch (1923). Löwy sottolinea più volte che l’incontro di Benjamin con il marxismo avviene tramite la lettura del testo di Lukács e l’incontro con l’artista bolscevica Asja Lacis. Senz’altro ciò è vero: come scrive ancora nel 1929 in Libri che sono rimasti attuali, Storia e coscienza di classe «è un libro unico per la sicurezza con cui ha visto come la situazione critica della filosofia esprima la situazione critica della lotta di classe, e come l’ormai matura rivoluzione concreta sia l’assoluta premessa, anzi l’assoluta esecuzione e l’ultima parola della conoscenza teoretica». Il 1929 è anche l’anno del saggio sul surrealismo e delle note su Piscator e la Russia. Così come è vero che Lacis aiutò Benjamin a conoscere la realtà politico-culturale sovietica – come dimostrano i diversi scritti del 1927, dal Diario moscovita ai saggi sulla letteratura russa e alla replica a Oskar Schmitz – va però detto che lo scambio culturale tra i due non era focalizzato tanto sulla filosofia politica, quanto piuttosto sul confronto tra la situazione culturale sovietica e quella europea, con particolare riferimento al teatro e alla letteratura. Lacis ricorda che Benjamin le disse a Capri che stava leggendo Lukács e che aveva iniziato a interessarsi all’estetica materialistica4: questo vuol dire che Lacis è stata senza dubbio importante per far conoscere a Benjamin alcune realtà della cultura marxista sovietica (compresa la conoscenza di Brecht e del mondo intellettuale marxista berlinese), ma che non è stata lei a introdurre per prima Benjamin al marxismo né ad aiutarlo a darsi una base teorica adeguata alla ricezione del materialismo storico. Benjamin aveva già iniziato a percorrere questa strada prima dell’arrivo di Asja Lacis nella sua vita e, da questo punto di vista, va detto che i fatti e le circostanze più interessanti tra Benjamin e Lacis accaddero dopo l’incontro di Capri, dal 1927 in poi tra Berlino e Mosca, e riguardarono la consapevolezza da parte di Benjamin del nesso indissolubile tra gli aspetti estetici dell’opera (la sua qualità) e la sua posizione socio-politica (la sua tendenza).
Löwy non si sofferma più di tanto sui contenuti lukácsiani che avrebbero influenzato Benjamin; qualche accenno in più lo fa nei confronti di Korsch, ma per mettere in evidenza un elemento utile alla sua lettura di Benjamin: la presenza di un anticapitalismo romantico e di una critica della Kultur di matrice romantica lungo tutto lo sviluppo del suo pensiero politico. L’impressione è che a questo punto del libro Löwy sia più interessato a dimostrare una delle sue tesi di fondo piuttosto che verificare le reali posizioni di Benjamin, e cioè che alla base della critica al capitalismo vi sia una matrice romantica antiborghese che egli ritiene presente anche nel tracciato benjaminiano. D’altra parte la bibliografia di Löwy mostra bene quali siano le sue idee in merito al ruolo del romanticismo nelle trasformazioni sociali: a partire da Pour une sociologie des intellectuels révolutionnaires del 1976 fino alle recenti pagine sul romanticismo libertario e sul romanticismo marxista, nel capitolo 2 di Révolte et mélancolie. Le romantisme à contre-courant de la modernité del 1992, questa tesi è ribadita costantemente. Sembra, perciò, che le schegge romantiche presenti in Benjamin siano utilizzate da Löwy per accendere un «fuoco rivoluzionario» alimentato dalla sua lettura del romanticismo. Correttamente Löwy ricorda che Benjamin cita Korsch in molti appunti del Passagenwerk, segnatamente negli appunti intitolati «Marx», insieme a passi dei Manoscritti del 1844, del Capitale e della Critica al programma di Gotha.
Löwy li utilizza per dimostrare come il materialismo storico benjaminiano sia la forza che annichilisce l’idea di progresso. Diversi appunti korschiani sono presi dal Karl Marx pubblicato in Inghilterra nel 1938, ma di cui Benjamin cita il manoscritto evidentemente venuto in suo possesso anche prima di quella data. Molto del Marx di Benjamin si deve al Karl Marx di Korsch e da questa influenza Löwy trae conseguenze in grado di adattarsi alle sue riflessioni forzando le stesse istanze benjaminiane. Vediamo perché. L’incontro di Benjamin con il marxismo di Korsch si può datare anch’esso nel 1924 con la lettura di Marxismo e filosofia (1923) e con il successivo interesse nei suoi confronti promosso da Brecht: questi presentò personalmente Korsch a Benjamin nel giugno del 1929. Nel novembre del 1930 Benjamin inserì Korsch nella lista di coloro che sarebbero dovuti diventare collaboratori della rivista Krisis und Kritik, ma il progetto della rivista, come si sa, naufragò senza mai vedere la luce. Ma un passaggio decisivo nella formazione marxista di Benjamin riguarda le cosiddette conversazioni di Königstein avvenute all’inizio dell’autunno 1929. Queste conversazioni furono l’occasione per Benjamin di intensificare i rapporti con Adorno e con l’Istituto francofortese e ai quali parteciparono anche Lacis, Horkheimer e Gretel Karplus. A noi interessano perché in una famosa lettera a Adorno del 31 maggio 1935 Benjamin ricorda che quelle conversazioni sono state per lui molto importanti in quanto gli permisero di prendere le distanze dalla forma romantica «di un filosofare spensierato, arcaico e legato alla natura» oramai superato. Di fatto sentiva di dover proseguire con l’orientamento avviato con Einbahnstrasse del 1928, ossia con un lento e costante avvicinamento al materialismo storico, passando per l’antropologia micrologica e avviando un confronto radicale con le istanze di trasformazione rivoluzionaria del tempo.
Dire come fa Löwy che Benjamin raccoglie alcune istanze romantiche presenti in Korsch e le fa proprie per minare il concetto di progresso borghese vuol dire fermarsi un passo prima della posizione di entrambi. Quando cita il passo del Passagenwerk in cui Benjamin riprende una citazione del Karl Marx in cui si dice che «nella teoria materialistica marxista del moderno movimento operaio… è entrata, sin dall’inizio, una parte anche di quella più generale «prosaicità» che era stata proclamata dai teorici francesi della controrivoluzione subito dopo la grande Rivoluzione francese e in seguito dai romantici tedeschi, e che specialmente attraverso Hegel aveva fortemente influenzato Marx»5, Löwy sottolinea la presenza di questa tendenza romantica sopravvissuta nel materialismo marxista, ma omette quell’ultima frase che è il vero obbiettivo dell’analisi di Korsch, ovvero «che specialmente attraverso Hegel aveva fortemente influenzato Marx». Le finalità del Korsch citato da Benjamin sono quelle di comprendere in che termini il materialismo marxista porti ancora «contenutisticamente, metodicamente e terminologicamente il marchio della vecchia filosofia idealistica hegeliana», per poi prenderne le distanze dopo averne riconosciuto le istanze ancora valide. Facendo sua una frase di Lenin del 1915 in cui si dice: «l’idealismo intelligente è più vicino al materialismo intelligente di quanto non lo sia il materialismo sciocco (borghese)»6, Korsch intendeva cogliere nella filosofia di Hegel, nonostante il carattere in tutto e per tutto idealistico, quegli «elementi utilizzabili per il nuovo materialismo storico in più gran numero e in forma più sviluppata che non il vecchio materialismo borghese, già per il fatto di corrispondere a uno stadio progredito dello sviluppo sociale»7. Anch’egli, engelsianamente, accoglieva la dialettica e rifiutava il sistema. Dunque, oltre al fatto che a Korsch interessi più un confronto con l’idealismo hegeliano (questione chiara fin da Marxismo e filosofia) che non quello con l’anticapitalismo romantico, il punto di convergenza più significativo tra Benjamin e Korsch è la comune condanna dell’ortodossia materialistica della Seconda Internazionale basata su una concezione materialistica naturalistica e non più dialettica (a partire dalla concezione materialistica della storia di Kautsky fino ai programmi revisionisti di Gotha e Erfurt, vd. tesi XI), e dei programmi di bolscevizzazione della Terza Internazionale che, a partire dal VI Congresso del 1928, definivano il materialismo dialettico non più una filosofia materialistica, ma solo un metodo rivoluzionario della conoscenza della realtà ai fini della sua trasformazione rivoluzionaria8. È in questo che Korsch fu utile a Benjamin nell’operare la sua radicale correzione del concetto di rivoluzione e per procedere alla determinazione di un materialismo storico in grado di «spazzolare la storia contropelo».
L’ipotesi di fondo dei testi di Löwy, lo ripetiamo, è che il marxismo di Benjamin sia eretico nella misura in cui, partendo da un vago anarchismo, avanza sui binari del libertarismo fino a incontrare il marxismo non ortodosso degli anni venti/trenta. Anche il saggio sul surrealismo viene definito il documento marxista-libertario più importante di Benjamin. Il capitolo a esso dedicato lo affronta alla luce del successivo scritto su Bachofen del 1935: per Löwy conquistare le forze dell’ebbrezza alla rivoluzione – movimento giudicato in base a un principio anarchico – equivarrebbe alla riscoperta di un’esperienza preistorica con la quale riaprire la strada a una sorta di comunismo primitivo (una comunità senza classi) in armonia con la natura, e della quale il matriarcato ne sarebbe la matrice. È evidente che su questa base le critiche mosse da Habermas nel 1972 in Critica che rende coscienti o critica che salva. L’attualità di W. Benjamin hanno buon gioco. Tuttavia non è su questo terreno che andrebbe valutato il contributo del surrealismo, quanto su quello del suo «spazio radicalmente immaginativo» dove il materialismo antropologico opera concretamente a organizzare il pessimismo quale punto di contatto tra surrealismo e comunismo. Non mi pare che sia il saggio su Bachofen il controcanto a quello sul surrealismo (che lascerei più sul versante del batailleano Collège de Sociologie che su quello della Parigi di Baudelaire su cui Benjamin ha lavorato a contatto con l’Institut für Sozialforschung), quanto piuttosto quello sull’Opera d’arte. E questo non tanto perché, come scrive Löwy, nel periodo 1933-1935 Benjamin fosse attratto dal produttivismo sovietico (anche se in buona parte è vero, ma non certo per ragioni di ottimismo legate al mito dello sviluppo e dell’innovazione), quanto piuttosto perché il saggio sull’opera d’arte costituisce una proposta di attuazione di quello sul surrealismo. Le forze dell’ebbrezza che aprono alla dimensione immaginifica sono indirizzate verso la giusta tendenza grazie all’operazione dell’autore come produttore che, in questo modo, politicizza l’arte non attraverso l’incremento innovativo dei mezzi tecnici che genera una società costantemente immatura rispetto a essi, ma grazie al gioco armonico tra la natura e l’umanità proprio della «seconda tecnica». Solo quando questa «seconda tecnica» avrà dischiuso all’umanità le nuove forze produttive ingenerando nuovi rapporti, la funzione sociale dell’arte esercitata con l’uso della tecnica potrà rivelarsi liberatoria, non perché incrementi la produzione, ma perché libera l’uomo dal giogo dell’automazione e della meccanizzazione, in una parola della razionalizzazione del lavoro. Come scrive nella nota al capitolo VI de L’opera d’arte: «Lo scopo delle rivoluzioni è accelerare questo adattamento. Le rivoluzioni sono innervazioni del collettivo: più precisamente, tentativi d’innervazione del nuovo collettivo, storicamente inedito, che ha nella seconda tecnica i suoi organi. Questa seconda tecnica è un sistema in cui padroneggiare le forze elementari della società e rappresenta il presupposto per il gioco con quelle naturali»9. Non siamo certo nel territorio di una comunità primitiva e anarchica, quanto sulla soglia di un «nuovo» (somigliante al vero stato di eccezione, tesi VIII) non più dominato dal progresso, né da una dimensione auratica ormai in mano al fascismo.
La modalità romantica di reincantamento del mondo, che Löwy considera una forma di protesta contro la moderna Kultur borghese e lo spirito religioso del capitalismo, serve secondo l’Autore a correggere il materialismo dialettico con il materialismo antropologico, e viceversa. Serve poi come critica radicale all’ideologia del progresso, tanto nella cultura borghese quanto in quella progressista di sinistra. Infine, nella sua forma libertaria-marxista, dischiude una teoria della storia con connotati messianici. Il riconoscimento della dimensione teologica integrata con il materialismo storico consente a Löwy di riprendere il tema benjaminiano del superamento del materialismo meccanico e delle leggi storiche dello sviluppo progressivo delle forze produttive. Richiamandosi all’allegoria dell’automa della tesi I, Löwy ci ricorda l’importanza del «nano teologico» portatore dell’Eingedenken e della Erlösung. La teologia è al servizio del materialismo, scrive Löwy, e in questo senso è al servizio della lotta degli oppressi in quanto ristabilisce la forza messianica rivoluzionaria nel motore del materialismo storico ridotto a un miserabile automa dai suoi epigoni. Il carattere attivo di questa forza messianica si rovescia nel compito rivoluzionario presente, nell’«adesso» di un’autoredenzione di uomini capaci di fare la storia e non più subirla. La possibilità di uno spazio utopico dell’azione in Löwy poggia sulla forza messianica che rintraccia in Benjamin: non si accontenta della restituzione, ma auspica un agire concreto. Non è un caso, per concludere l’excursus su questo libro stimolante, che Löwy lo chiuda con un capitolo sulla teologia della liberazione e sui movimenti di liberazione latino-americani quali esempi concreti di attivazione della liberazione a livello teologico-materialistico.
C’è spazio per una sintesi conclusiva di ciò che Benjamin è per Löwy: lo descrive proprio nell’ultimo capitolo del libro: «È un critico rivoluzionario della filosofia del progresso, un avversario romantico del conservatorismo, un nostalgico del passato che sogna l’avvenire, un materialista attratto dalla teologia». Sappiamo che c’è qualcosa vero in questa descrizione, così come sappiamo che c’è anche dell’altro: su questa come sull’altro c’è ancora molto da pensare.
Note
↩1 | D. Gentili, Vie d’uscita dal capitalismo, in Il culto del capitale. Walter Benjamin: capitalismo e religione, a cura di D. Gentili, M. Ponzi, E. Stimilli, Quodlibet, 2014, p. 62. |
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↩2 | B. Moroncini, La religione nei limiti della sola disperazione, in Il culto del capitale, cit. p. 85. |
↩3 | M. Ponzi, L’ospite inquietante, in Il culto del capitale, cit. p. 41. |
↩4 | Asja Lacis, Professione: rivoluzionaria, trad. it. a cura di E. Casini-Ropa e F. Cruciani, Feltrinelli, 1976, p. 101. |
↩5 | K. Korsch, Karl Marx, trad. it. A cura di G. Bedeschi, Laterza 1970, p. 106. |
↩6 | V.I. Lenin, Quaderni filosofici, trad. it. a cura di L. Colletti, Feltrinelli, 1958, p. 276. |
↩7 | K. Korsch, Karl Marx, cit., pp. 260-261 |
↩8 | K. Korsch, Anticritica del 1930, in Marxismo e filosofia, trad. it. a cura di M. Spinella, SugarCo, 1970, p. 32. |
↩9 | W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, terza versione, trad. it. a cura di F. Desideri e M. Montanelli, Donzelli, 2019, p. 83. |
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