Il nemico invisibile

Fase 2

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Claire Fontaine, Untitled (Open), 2012.

Seconda pelle

È singolare che potenze economiche e politiche, come si annovera essere anche l’Italia, non riescano a far avere a sufficienza dispositivi di protezione fisica come le mascherine al personale medico infermieristico, l’aiuto economico a chi non lavora o non può fare la spesa neanche per mangiare e intanto si prepari a fornire l’uso di altri dispositivi come le app per il tracciamento degli spostamenti delle persone e dei contatti con positivi o potenziali tali, le eventuali certificazioni elettroniche che accertino lo status medico degli individui anche prima che abbiano fatto il tampone e altri più sofisticati strumenti di sorveglianza a distanza. Si sta perfino rispolverando la vecchia, ma a quanto pare ancora efficiente pratica della delazione – modernizzata anche questa come app, per rendere più anonimo e deresponsabilizzato chi deciderà di usarla.

È singolare che ci sia già anche chi canta le lodi di questa sorta di «seconda pelle protettiva» fatta di app che ci sorvegliano e patenti mediche da esibire, della quale dovremmo abituarci a essere rivestiti e non ci si sia invece chi prenda in considerazione che senza salvare la prima pelle, cioè quella sotto le mascherine, la seconda di cui ci rivestiremo non ci servirà. Il primo tipo di dispositivi, come ad esempio le mascherine, serve essenzialmente a separare il virus dalle persone. Il secondo tipo di dispositivi, come le app invece, serve a separare preventivamente le persone dalle persone, presupponendo con ciò di arrivare meglio anche a separare le stesse dal contagio. Se poi sulla strada che si compie per arrivare a separarci dal virus, con questi dispositivi si ottiene anche altro, i buoni intenzionati diranno che sarà stato un caso, o che comunque è un prezzo che vale la pena pagare. Qualche spirito più audace potrebbe dire invece che dopo anni di accumulo di capitale di dati, è ora che Google e Apple – non a caso proprio adesso stanno pensando di mettersi insieme per unificare i loro sistemi operativi da offrire ai governi – passino nuovamente all’incasso.

Prevenzione

La strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni. È lastricata soprattutto dalle buone intenzioni della prevenzione che da tempo si va sempre più sostituendo alla previdenza, anche nella medicina. Dipendente dalla statistica e dalle proiezioni algoritmiche, la medicina predittiva pone a suo fondamento l’assunzione acritica per cui uno status, qual è appunto quello statistico o algoritmico, sia già anche un dato – nella situazione in cui siamo, si assume addirittura che lo status digitale sia automaticamente un dato medico. Ma status e dato hanno caratteristiche epistemologiche e ancor più ontologiche fra loro molto diverse che prima o poi, e non solo nell’ambito della medicina, si dovranno cominciare a indagare meglio e meno ideologicamente. La medicina predittiva o preventiva, grazie a elementi statistici che a-problematicamente essa utilizza come dati, è già da anni in auge. Con la pandemia in corso essa rilancia ulteriormente il suo modo di intendere e operare, minacciando definitivamente di archiviare quella medicina ippocratica sulla quale ancora oggi i medici pur giurano.

Nella prevenzione è implicita la credenza che la sua messa in atto produca esclusivamente il non verificarsi di qualcosa, in questo caso il contagio, senza che accada nient’altro. Che la prevenzione sia cioè senza effetti collaterali. E che, una volta dimessa, tutto tornerà come prima. Ma impedire che qualcosa come il contagio accada si può soltanto se facciamo accadere qualcos’altro. Impedire che qualcosa accada non vuol dire affatto che nient’altro accada. Per inciso, una precisazione: contrariamente a quanto si crede e si propaganda, il vaccino non è una misura preventiva, ma previdenziale, cautelativa. Il vaccino non è una misura preventiva, perché funziona con una logica che è opposta a quella della prevenzione. Il vaccino non previene la malattia, perché in realtà inocula quest’ultima in una misura che addestra il corpo a reagire agli effetti della stessa. La logica del vaccino è fondamentalmente posologica: l’equilibrio quantitativo, che diventa qualitativo, tra pharmakos e pharmakon. È la logica contro-intuitiva di utilizzare un po’ di contagio (che dunque entro certo limiti deve pur venire e non essere completamente prevenuto) contro se stesso.

Sonnambulismo

In questa pandemia c’è chi non si è mai stancato di pungolare l’autorità pubblica, neanche durante le fasi più virulente – vedi Lombardia –, affinché non si smettesse di produrre nelle fabbriche. E anche ora, pur se le cose non sembrano cambiate molto, si continua a pungolare le stesse autorità perché si «riparta» più o meno selettivamente riaprendo quelle strutture che permetterebbero (chi potrà permetterselo?) il rispetto del distanziamento sociale a clienti, consumatori e lavoratori. È facile immaginare a quali soggetti queste strutture a misura di distanziamento sociale facciano riferimento. Da una parte, per esempio prendiamo il turismo, questi soggetti sono la fetta più abbiente di persone che possono permettersi di soggiornare in luoghi che già prima della pandemia erano esclusivi – e ora anche palesemente escludenti. (Forse si creerà la paradossale situazione nella quale ci saranno strutture ricettive turistiche con clienti adeguatamente forniti di dispositivi di protezione personale, dove sarà garantita la distanza di sicurezza gli uni dagli altri e ospedali invece dove questo non sarà mai stato fornito a sufficienza). Dall’altra parte, rispetto ai clienti, ci saranno invece soprattutto tutti quei lavoratori che già prima della pandemia non avevano alcuna forma di protezione economica, che vivevano il loro lavoro in condizioni di precarietà. Non è un caso che proprio nel settore economico rimasto aperto per ragioni di necessità, cioè quello agricolo, nel quale in Italia persino la precarietà suona come un eufemismo, alcuni politici indichino da settimane come strumento per la «ripartenza» quello dei voucher. Non facendo altro così che cercare, ancora una volta, di rendere legale ciò che dovrebbe restare illegale: la mancanza di protezione economica e sociale, alla quale ora si aggiungerebbe anche la mancanza di protezione sanitaria.

Intanto, anche nel cuore dell’occidente, mentre si progettano app per inseguire individui vivi, presunti positivi e dove i riti funebri sono aboliti, ricompaiono fosse comuni. L’occidente, che nelle riserve indiane delle sue accademie di solito si straccia le vesti per difendere le ragioni di Antigone, su questo ora tace sonnambulo. Che tutto ciò, supposto per la difesa della vita, intesa esclusivamente come sopravvivenza, non si stia risolvendo in una calibrata e noncurante diffusione di un’anestetica emozionale e intellettuale della morte, pare difficile da non ammettere. O, per usare altre parole, che la biopolitica non sia anche in questa pandemia soprattutto tanatopolitica. Se e quando l’emergenza sanitaria sarà finita, potremmo ritrovarci pieni di morti e ancora ad aspettare partite di mascherine adeguate e tamponi che non sono mai arrivate a destinazione. E intanto ci saremo riempiti di app che ci tracciano e che continuano a funzionare anche senza il contagio che le stesse non sono riuscite a arginare. Questo qui descritto non è soltanto un distopico scenario futuro. Si pensi a cosa è avvenuto a Singapore: un esempio da imitare secondo alcuni per le app del tracciamento a distanza da utilizzare per intervenire meglio sul controllo del contagio. Sembra che la piccola città stato e paradiso fiscale, per dimensioni territoriali e di popolazione imparagonabile comunque all’Italia, che è stata all’avanguardia nel dotarsi di dispositivi di controllo a distanza, sia stata attraversata da una seconda ondata di Covid 19. Segno forse che queste app per il controllo a distanza non funzionano sempre adeguatamente contro il virus.

È lecita l’impressione che questo tipo di dispositivi, quelli della «seconda pelle» alla quale ci dovremmo abituare, stiano rispondendo a una logica spettacolare portata al parossismo. L’importante sembra sia inscenare la loro efficacia securitaria per giustificare come inevitabile e accettabile la discriminazione che essi potrebbero comportare. Discriminazione che sebbene non sembri essere efficiente contro il virus, potrebbe essere efficiente per innescare conflitti e accentuare disuguaglianze già da tempo in atto. Più discriminati, ma non necessariamente dal virus come ha dimostrato già Singapore, in cambio di maggior sicurezza, ma non necessariamente la nostra e invece a profitto di chi con essa fa affari per garantire il controllo e il rispetto del «distanziamento sociale».

Ma come, il distanziamento sociale non doveva essere la condivisione consensuale del nostro «restare uniti stando separati»? Introdurre le app per verificare se ci adoperiamo a questa pratica estrema di supposto comunitarismo politico fa emergere tutta l’ideologicità di quell’assunto. Con le app per il tracciamento dei movimenti degli individui, il senso comunitario che questa pandemia dovrebbe ispirarci viene evidentemente a essere sostituito dal controllo di un’autorità. Proprio se attiviamo protocolli e dispositivi di sorveglianza a distanza diffusi, allora forse davvero perdiamo l’«occasione» di comprendere quale sia il vero significato sociale e previdenziale della solidarietà, che è essere responsabili in solido, per tutti, per tutto. Questa responsabilità non può essere sostituita da nessuna seconda pelle, da nessun dispositivo suppletivo e eccezionale che potrebbe invece soltanto contrapporre classi di individui a classi di individui.

Spettacolo dell’emergenza

Questa pandemia dimostra ogni giorno che passa sempre di più che l’eccezione e con essa l’emergenza non hanno più lo stato come esclusivo soggetto politico che le attui. Sempre più, lo stato può essere ormai soltanto uno dei soggetti fra gli altri, un attore o una comparsa nello spettacolo dell’eccezione e dell’emergenza. La vicenda italiana del virus evidenzia proprio quanto sia sempre più forte il legame fra eccezione e spettacolo. L’Italia ha dichiarato lo stato di emergenza sanitaria sin dalla fine di gennaio senza essere per questo conseguente con ciò che tale stato comportava. Solo dall’inizio di marzo infatti sono cominciate le restrizioni – spesso solo ancora dichiarate e non attuate. A che pro è stata allora dichiarata l’emergenza? La risposta non può essere che questa: l’emergenza è stata posta in stato al fine di essere dichiarata. In Italia lo stato di emergenza è stato dichiarato per controbattere alle pressioni dell’opposizione che chiedeva misure restrittive. Tuttavia sia dal governo sia dall’opposizione, le misure restrittive non sono state in realtà volute per essere applicate, ma solo per dichiarare di volerle applicare. Di questa situazione di eccezione dichiarata e non attuata è stata purtroppo vittima soprattutto la popolazione della Lombardia.

Ufficialmente qui si è continuato a chiedere regole eccezionali sempre più stringenti che però in pratica sono state non attuate, a parte alcuni casi che mediaticamente hanno attirato l’attenzione, come quelli delle zone rosse. Le regole più stringenti richieste non sono state rese operative soprattutto nei luoghi dove questo serviva. E quei luoghi non sono certo le abitazioni private da dove dovrebbe operare il «distanziamento sociale». Al contrario, i luoghi dove le misure emergenziali dichiarate non sono state applicate sono proprio quelli dove il «distanziamento sociale» basato sullo «state a casa» non può ovviamente aver luogo: ospedali, cliniche, case di riposo per anziani, luoghi di lavoro. Cioè i luoghi dove servono i dispositivi di protezione fisica. In una certa misura, si può addirittura dire che la dichiarazione dello stato di emergenza ha permesso che venissero disattese, dal punto di vista sanitario, anche molte regole normali. «Mettete via le mascherine! Altrimenti create allarme», è stato raccomandato sotto minaccia di ritorsioni al personale sanitario. Il monito contraddittorio di non creare allarme in una situazione ufficialmente in allarme non fa altro che riprodurre il modo dell’«esclusione includente» su cui si basa lo stato d’eccezione e d’emergenza in una «società dello spettacolo».

Il dispositivo dell’«esclusione includente» su cui si basa lo «stato d’eccezione» ha fatto da catalizzatore a se stesso, dispiegandosi così in un’ottimizzazione che gli ha permesso di situarsi in modo calibrato dal lato dell’eccezione quando la regola sarebbe dovuta essere la norma, e dal lato della norma quando la regola sarebbe dovuta essere l’eccezione. Tutto questo ha fatto venire sempre più alla luce, se ancora ce ne fosse bisogno, che tipo di processualità è quello dell’eccezione e dell’emergenza. Una processualità che non si arresta al primo giro di «esclusione includente», riassumibile nel vecchio adagio secondo cui l’eccezione stessa confermerebbe la regola. Ma, attraverso questo primo stadio, il processo ha permesso senza limite che inclusione e esclusione continuassero il loro walzer, a seconda dell’occorrenza e della convenienza. Un gioco delle parti che ovviamente ha incluso nel gioco anche i soggetti politici coinvolti. Ed è in tal senso che tale processo che si è nutrito del suo stesso procedere è definibile come «spettacolare». Il fatto che l’«esclusione includente» che caratterizza tale processo appaia contraddittoria è sintomo che il processo stesso si è dispiegato in tutta la sua potenzialità. Una delle sue contraddizioni e potenzialità più eclatanti è quella di aver fatto coesistere l’assoluta presenza con l’assenza dello stato. Specie in Lombardia, lo stato emergenziale di necessità è venuto paradossalmente a coincidere con una maggiore necessità (non soddisfatta) dello Stato.

La pecora nera

Se nell’eccezione spettacolare lo stato diventa un soggetto politico simultaneamente presente e assente, in questa stessa situazione viene anche a trovarsi il supposto nemico dello Stato. Chi è qui il nemico? Il virus, si risponde. Ma il virus non è semplicemente il nemico. È un «nemico invisibile», si dice. La ripetuta qualifica del virus come «nemico invisibile» e l’altrettanto ripetuta qualifica della pandemia come «guerra», pur non cogliendo niente della natura di ciò che ci sta accadendo, nella loro pervasiva presenza nel discorso pubblico e privato, costituiscono un «sintomo» che non si può ignorare. Il nemico è invisibile come appunto ora si dice, fingendo di riferirsi al virus, solo perché il vero nemico a cui si fa riferimento non è neanche più degno di essere considerato tale (qui Schmitt è stato profetico più di quanto immaginasse). Il nemico è invisibile soprattutto perché si pretende implicitamente liquidato dal suo stesso non essere degno di apparire sulla scena dello spettacolo. Va direttamente nell’osceno delle fosse comuni o incenerito senza funerali, o preventivamente messo in conto nei numeri mortali dal discorso politico, come si sono affrettati a fare Johnson e Trump, avendo in mente come obiettivo che l’«immunità di gregge» (dal «gregge» deriva anche l’ex-capere dell’eccezione, come ci ha insegnato Agamben) si sarebbe potuta raggiungere solo grazie alla morte di chi nella società non conta, di chi è fardello, di chi è nemico. Un fardello o nemico, già da prima della pandemia, «invisibile».

Oggi più che mai, senza più bisogno neanche del terrorismo, si dimostra che si può fingere una guerra finta per ottenere effetti realissimi. Quelli di una ristrutturazione (parola eufemismo utilizzata per i tagli sociali e i licenziamenti) che chiede agli stessi soggetti economici, mettendoli con le spalle al muro, che se si vuole che le cose rimangano le stesse occorre spettacolarmente dare a intendere che tutto provvidenzialmente cambi. Il cosiddetto «nemico invisibile» sembra qui fare il paio con la «mano invisibile», supposta amica e provvidente, di cui sarebbe dotato questo nostro sistema economico.

Estrazione e nudità

Dal virus dovremmo proteggere gli esseri umani e non la «vita» che supponiamo sia sotto o sopra di essi. Al pari della nuda vita non esiste, propriamente parlando, neanche una sopravvivenza pura che possa essere separata dalla forma-di-vita. La nuda vita è il tentativo di cogliere allo stato originario la vita, di individuarne l’essenza e, soprattutto di separare questa da qualsiasi forma, qualifica, contingenza. Questo grado zero della vita, che sarebbe dunque la «nuda vita», in realtà non esiste. Anche il cosiddetto «materiale biologico» non è qualcosa da cui si possa completamente epurare la provenienza specifica. Ora, pur non esistendo la pura essenza di una «nuda vita», ciò non elimina che esistano i tentativi messi in atto per isolarla. Questi non troveranno mai «la nuda vita», ma nel loro ricercarla (nella loro volontà di saperla, direbbe Foucault) produrranno effetti realissimi. E, prima di tutto, ne produrranno su quella vita-umana dalla quale credono tenacemente di separare la sola «vita».

Alle buone intenzioni di cui è lastricata la via dell’inferno non occorre che l’inferno esista davvero per produrre effetti. Anzi, potremmo dire che forse produrrebbero più potentemente i loro effetti proprio nell’eventualità che l’inferno non esistesse. L’impossibilità di estrarre dalla vita-umana, la sola vita (questo vuol dire l’aggettivo «nuda») è ciò che costituisce la «nuda vita». L’estrazione, che è dire astrazione (come quella del «capitalismo delle piattaforme») non perverrà a nessun risultato oggettivamente inteso, ma vigerà nel suo stesso processo estrattivo. Astrazione non vuol dire infatti tanto rarefazione concettuale di qualcosa che esiste altrimenti in concreto. Nel cosiddetto «capitalismo delle piattaforme» (la prima piattaforma a essere trattata come tale è il corpo intelligente) viene sempre più alla luce che l’astrazione è un processo estrattivo che capitalizza quanto viene estratto senza necessariamente coagulare ciò che è estratto in un oggetto. Analogamente, la nuda vita indica il processo estrattivo della forma dalla forma-di-vita e non il risultato del processo. E tuttavia, il fatto che non si giunga a un risultato oggettivo nel quale identificare qualcosa come una «nuda vita», non vuol dire affatto che non esista il processo o meglio le procedure e i dispositivi messi in atto per arrivare a ciò che è impossibile.

Nuda vita non è propriamente, come si è tentato di dire per criticare le prese di posizione di Agamben, la «mera esistenza», non è una mera «vita biologica» contrapposta a una altrettanto fantomatica «piena vita», ma è il processo messo in atto a partire dall’astrazione-estrazione che tenta di separare la vita dalla forma e di manipolare ciò che già in essa è dato, al fine di rendere disponibile la stessa forma-di-vita a essere soggetta continuamente a ridefinizione e manipolazione. Se la nuda vita non è altro che un processo messo in atto da un obiettivo che non può essere raggiunto, che non si può oggettivare, ma che anzi serve proprio a che il processo stesso si ponga e si mantenga in essere, allora possiamo definire anche la nuda vita come un elemento spettacolare – lo stesso che è al cuore dei dispositivi securitari di sorveglianza di cui dovremmo dotarci per inaugurare, come se fosse la puntata di uno show, la «Fase 2».

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