Il senso della pausa
Il virus, Vladimir Jankélévitch e John Cage
Dove cresce ciò che salva, cresce anche il pericolo. In tempi di quarantena, pare che l’elegante ellissi disegnata da Hölderlin vada aggiornata così. Il virus, in effetti, vive e si diffonde grazie agli esseri umani: l’unico modo per neutralizzarne la letalità, al momento, è che ciascuno faccia il vuoto intorno a sé. Negli spazi delle isole che in tal modo si aprono, comincia un tempo sospeso, inesorabilmente uniforme, vuoto; fiorisce la noia. La minaccia è reale: la popolazione rischia di morire per contagio, oppure di impazzire di noia. Non a caso tra gli eccezionali provvedimenti messi in atto in questa coda d’inverno, sia dalle istituzioni che a livello dei singoli, ci sono enormi misure di intrattenimento a distanza, concepite per tenere alto l’umore e per far passare il tempo: ovvero per riempire quello stesso vuoto che deve salvarci.
Non stupisce che il tempo libero sia ormai percepito come un pericolo da scongiurare, educati come siamo a un iperattivismo che ha imposto una temporalità nuova, 24/7, com’è stata chiamata, priva di interruzioni, soste, intervalli. Sulla città tardocapitalista non scende più la notte, non si dorme più; oppure si sonnecchia sempre, in una modalità che Donatella Di Cesare ha efficacemente chiamato sleep mode, né acceso né spento, ma tutt’e due insieme, in loop. D’altra parte, quando in Italia si è dovuta discutere prima e analizzare poi l’introduzione del reddito di cittadinanza, si è persa un’ottima occasione per parlare di automazione, povertà crescente, emancipazione umana, e il dibattito si è concentrato sul vero pericolo incombente: non sia mai che questi se ne stiano sul divano. Nella società postfordista l’inoperosità non ha cittadinanza, la noia sarà bandita, ogni vuoto tappato. Questa rimozione rende opachi sia il concetto di vuoto e sia l’esperienza nella noia. Quindi vale la pena di interrogarci, ben al di là di questa situazione emergenziale, su un diritto alla noia, e su cosa sia il vuoto.
Hannah Arendt sosteneva che libertà e politica cominciano nel momento in cui si è capaci di scavare una «lacuna» rispetto a determinismi di ogni tipo, biologici, economici, sociali. Sennonché proprio il contagio globale mostra tutta la difficoltà di simili separazioni: tutto si dà nel medesimo piano ed è qui, in questi incastri che tocca essere liberi. In realtà, però, la lacuna arendtiana, non è una radura. Quest’ultimo termine – di ascendenza heideggeriana – è connesso alla rarità, alla povertà di elementi, condizioni queste in cui si dà una dimensione omogenea, priva di striature; una radura fa piazza pulita di tutto, fa il vuoto. Diversamente, a leggere bene il testo arendtiano, la lacuna non è affatto un luogo di sottrazione, bensì di intensificazione della complessità: solo se mi «isolo» nel pensiero, ovvero in un dialogo interiore, appaio a me stesso come una molteplicità, così fornendomi quei solchi necessari per attecchire in un contesto. A ben vedere allora, «lacuna» è, nel lessico della filosofa, il nome di un’operazione nella quale la complessità non è rimossa, ma prodotta.
Arendt smonta un assunto fondamentale del pensiero di Heidegger e che circola ampiamente anche nel senso comune: che la capacità ricettiva sia appannaggio di ciò che è vuoto. Radura (lichtung) è, infatti, l’evento che, svuotando una regione ontologica, fa spazio a un’esperienza più pura dell’Essere autentico, precipitato nell’oblio. Autore di una raffinatissima fenomenologia della noia, Heidegger ne faceva, coerentemente, la condizione emotiva ideale per accogliere la verità in quanto nullità del tutto. La sua allieva rovescia tutto il discorso, mostrando che solo al molteplice (letteralmente, l’incremento delle pieghe) può agganciarsi il mondo.
Partendo da questo presupposto ci chiediamo: può darsi una produttività della noia, un tedio che non ci porti fuori dal mondo? O altrimenti, è possibile trovare il pieno anche nel vuoto? Durante questa tragica quarantena, ci si può isolare in una sorta di comunità negativa per fare salva la vita, senza però impazzire di noia? Poiché qui si rivendica un diritto alla noia, si starà lontano da quei discorsi un po’ brontoloni che rimandano alla capacità di sopportazione, al governo di sé, e cose del genere. Qui si intende restituire alla noia dignità e, soprattutto, una certa bellezza. Per questo, tralasciando la miriade di autori che si sono confrontati col tema (sacrificando le potentissime analisi, particolarmente sintoniche con quelle che si esploreranno, di Ernesto de Martino e di Walter Benjamin), leggeremo Vladimir Jankélévitch. Il quale, in un bellissimo libro intitolato L’avventura, la noia, la serietà (Einaudi, 2018), non solo riconosce legittimità alla noia, ma, piuttosto che suggerire rimedi, propone di esporsi a essa. La sua stessa scrittura, barocca e ridondante, sembra volerci rassicurare: non troverete mai davvero il vuoto, nessun abisso si spalancherà per la mortificazione del soggetto.
La noia, infatti, non è la percezione di un tempo realmente vuoto o insostenibilmente omogeneo. Bensì è lo scarto tra la rapidità e agilità della coscienza, che gode dell’istante infinitamente piccolo e fugace, del dettaglio volatile e inafferrabile, e il tempo del corpo, regolato sul ritmo lento delle nostre trasformazioni organiche. A causa di questa latenza, la coscienza, privata delle innumerevoli differenze che punteggiano e scandiscono il ritmo della sua storia quotidiana, paventa l’esperienza di una durata spoglia, piatta, vuota. La noia è quindi «la malattia dell’uomo crepato e sdoppiato. […] Non c’è niente di peggio che essere senza esistere, essere, come i minerali, nel tempo ontologico dei pianeti, delle stelle, delle galassie, avendo una coscienza adatta a vivere e apprezzare le ragioni di vivere» (p. 101).
La noia è questo «vago timore di tornare a essere sostanza» (p. 98), paura che la nostra esperienza del tempo si spogli di quelle scansioni ritmiche che sono la «carne» della nostra durata, e venga a essere un puro tempo astratto. Di fatto, però, questo non potrebbe mai accadere, giacché la durata (come dimensione costitutiva della nostra esistenza, e distinta dalla omogeneità statica della cronologia), non costituisce un tempo vuoto dentro il quale possono accadere più o meno cose. Essa è invece la ricchezza densa del molteplice in divenire. La noia è possibile perché il divenire è il nostro modo di esistere, ovvero continuo avvento del non essere all’essere; nel divenire il non essere – il tempo astratto e vuoto – è continuamente in agguato. Ma, e questo è il punto, tale vuoto resta sospeso, ma non si compie.
Già anche nella noia siamo dentro una pienezza densa. E quando ci si sporge su quel quasi-niente che attraversa il tempo, non si sperimenta alcuna derelizione: semmai l’individuo è restituito alla sua pienezza. Sente, infatti, di essere più veloce di se stesso: come il bambino che non può correre perché il nonno stenta a tenergli il passo. Ma questa seccatura è immediatamente l’esperienza di una potenza, di un eccesso non di un difetto; è inoltre la produzione, interna al sé, di una molteplicità. È, insomma, una florescenza ontologica. Non c’è bisogno, dunque, di un rimedio alla noia, né di estendere il divertimento; quello di «riempire di alluvioni la durata» (p. 121) è un atteggiamento legittimo, dal momento che siamo abituati ad apprezzare cose solide che hanno parvenza di stabilità. Ma è altresì possibile provare a passare il tempo: non sperperalo, ma attraversarne quella densità che non è possibile togliere né scavalcare. Vivere questa densità significa «radicarsi nel proprio divenire, scoprirne il fervore» (p. 133). Sì, perché il mondo c’è sempre, prima e dopo di noi, intorno a noi e all’altro capo del pianeta, e ferve, con ritmi diversi e reciprocamente incommensurabili. C’è un ardore del mondo da scoprire anche nella noia, nella camera da cui adesso non possiamo uscire. Nel discorso sulla noia è in gioco, dunque, un ethos, un modo di abitare il mondo. A una teoria – e poi a una politica – che concentra il valore in circostanze rare, nelle eccezioni, Jenkélévitch oppone «una filosofia degli intervalli, che rivaluta le transizioni e distribuisce il valore con più umiltà, più equità e giustizia lungo tutto l’arco della continuazione temporale» (p. 133). Si tratta di attivare una «biografia dell’infinitesimale che ci svela il brulichio, l’animazione estrema dell’esistenza e l’appassionante polizoismo della durata» (ibidem).
Virginia Woolf ha esposto più di altri la sua prosa allo «scroscio incessante di innumerevoli atomi» (Voltando pagina, Il Saggiatore 2011) che ovunque e continuamente ricrea la vita; il bighellonare dei suoi personaggi, le increspature delle sue onde, in effetti, non hanno spazi e tempi elettivi, bensì sono disseminati in una dimensione quotidiana, comune che, lungi dall’essere vuota o monotona, «nasconde» sulla sua superficie una insospettata densità di possibilità. È però senz’altro John Cage l’artista che ha lavorato più radicalmente in questa direzione. Obiettivo della sua ricerca, infatti, è quello di indurre il pubblico – sebbene le sue performance azzerassero il dualismo autore-pubblico – non a percepire e a prestare attenzione all’opera d’arte che veniva proposta. A Cage interessava, bensì, accendere i sensi e l’attenzione delle persone affinché esercitassero questa percezione allargata in tutte le direzioni possibili. È con questa «intenzionale mancanza di intenti» (Silenzio, Shake 2010, p. 21) che si può spiegare la sua opera più celebre 4.33, una suite per orchestra costituita da un’unica lunga pausa della durata di 4 minuti e 33 secondi. In questo tempo in cui l’orchestra non suona neanche una singola nota, quello che resta non è il vuoto. Perché il vuoto non esiste. Nei 4.33 minuti ci sono mille cose da ascoltare e da sentire, basta farci caso.
Cage racconta che all’inizio degli anni Quaranta, più o meno trentenne, vide in un’esposizione a New York un dipinto di Mark Tobey, noto soprattutto per le sue tele «astratte» per lo più monocromatiche. Cage racconta questa esperienza come una visione che suscitò in lui un cambiamento. Uscito dalla galleria, aspettando l’autobus e guardandosi intorno provò la stessa sensazione sperimentata dinanzi al quadro di Tobey, lo stesso «piacere estetico»: «proprio questa è stata, a mio parere», commenta anni più tardi, «una delle funzioni svolte dall’arte del XX secolo: aprirci gli occhi» (Lettera a uno sconosciuto, Socrates, 1996, pp. 244-245.).
«Aprire gli occhi» non ha il significato messianico di accedere a una visione ultima e finalmente nitida delle cose che ora vediamo attraverso il velo dell’ideologia o delle spoglie mortali. Si tratta semplicemente di vedere quello che c’è da vedere, di sentire i suoni che ci sono. È possibile ascoltare la vita stessa, a patto di modificare ciò che intendiamo per ascoltare, a patto cioè che siamo disposti ad ascoltare non solo cose, suoni organizzati e attraversati da trame significanti. Ma ascoltare semplicemente tutto. Ed essere disposti, così, anche ad annoiarsi per 4.33 minuti, o anche per tutto il tempo in cui si va per funghi – l’attività preferita di Cage – ma non se ne trovano. Assenti i funghi, c’è un’infinità di cose da vivere, compresa la propria stanchezza o frustrazione. L’inoperosità di questa estetica non è una forma di aprassia, al contrario è immersione nella ricchezza del mondo.
Durante questa emergenza è necessario ripensare il senso delle pause, degli intervalli, dell’inoperosità, della noia. Perché persino in un momento così delicato, il dibattito pubblico insiste sulla «resilienza degli italiani»: l’invito è a rimbalzare ancor prima di cadere. Laddove la congiuntura che stiamo attraversando insegna prima di tutto la fragilità, la vulnerabilità dei nostri corpi e delle nostre menti, il bisogno di trovare tempi di elaborazione e di pausa. Abbiamo il diritto di annoiarci e anche di essere tristi, e di sapere che andrà tutto bene perché, direbbe John Cage, il vuoto non esiste.
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