Il teatro è la nostra festa

Claudia Pajewski - Short Theatre 17 settembre 2022-2115[4462]
Gisèle Vienne, Crowd - Short Theatre 2022. Foto di Claudia Pajewski.

Un paio d’anni fa Franco Cordelli, critico teatrale del Corriere della Sera da qualche decennio, cominciò una intensa opera di screditamento del lavoro di Francesca Corona, già curatrice del Festival Short Theatre e di DANSEM a Marsiglia, e all’epoca consulente del Teatro di Roma per India. Scrisse che Corona era una sconosciuta («Il teatro dei giochi di forza», 05.10.2020), che aveva trasformato il Teatro India in un centro sociale («Teatro di Roma. Il pasticcio del direttore sdoppiato», 30.05.2020) e si produsse in altre livorose esternazioni. Corona non solo aveva fatto rifiorire l’India, rendendolo un luogo di affezione per un pubblico giovane e giovanissimo, ma aveva attraversato con enorme intelligenza la fase più dura della pandemia e del lockdown, con una inventiva istituzionale unica in Italia: aveva inaugurato pratiche di sostegno e di redistribuzione di risorse per i lavoratori e le lavoratrici dello spettacolo, mitigando creativamente, con progetti come «Radio India» e «Fondamenta», lo stallo d’impiego e di salario derivato dalla chiusura dei teatri.

Tanto straordinario era stato il suo lavoro da valerle di lì a poco la nomina alla Direzione artistica del Festival d’Automne à Paris, uno dei ruoli più prestigiosi a livello internazionale cui possa aspirare una curatrice. Non pervenne, all’epoca della molto lodata nomina, né in seguito, alcuna pubblica ammenda da parte di Cordelli. La cosa sarebbe finita così, se non fosse che il critico, con ostinazione pari alla miopia culturale che aveva già dimostrato, si lancia ora a screditare la nuova direttrice di Short Theatre, Piersandra Di Matteo («Se i fantasmi della psiche diventano critica sociale» Corriere della Sera, 22 settembre). Gli strumenti sono quelli già usati contro Corona, ovvero, in buona sostanza, il fatto che Di Matteo sia a lui sconosciuta.

Ci si aspetterebbe, da un attacco sul maggior quotidiano nazionale, almeno una posizione informata e seria, che tenesse in conto quanto è risaputo, non solo in Italia, su Di Matteo: che è la dramaturg – non l’assistente, ruolo alla quale la riduce sbrigativamente Cordelli – da oltre quindici anni di Romeo Castellucci, con opere celebrate nei maggiori palcoscenici d’opera e di prosa al mondo. La collaborazione con Castellucci è poi solo una delle componenti di una pratica intellettuale e culturale ricchissima, che già nel 2014 le è valsa un Premio Ubu per la curatela del progetto «E la volpe disse al corvo», commissionato dal Comune di Bologna, e che più di recente si è articolata nella rassegna «Atlas of Transitions», all’interno di Emilia Romagna Teatro Fondazione.

Di Matteo si sta imponendo come una delle curatrici più rispettate in Europa in particolare per la capacità di articolare programmi complessi che occupano la città attraverso presidi creativi distribuiti, che coinvolgono pubblici imprevisti e comunità considerate estranee alle platee del centro, senza mai delegare al puro ruolo «sociale» il mandato estetico delle opere che ha accolto nei suoi programmi. È stata capace di mettere a valore e socializzare anni di ricerca fuori e dentro i ranghi accademici, distribuendo anche nell’occasione di Short Theatre saperi e pratiche che corrono e si ritrovano nei suoi saggi, nei libri che ha curato, negli eventi che ha diretto.

Ma all’ineffabile Cordelli tutto ciò sfugge, preso com’è in un attacco talmente spuntato da aver bisogno di convocare in suo soccorso un’assemblea di autorevoli fantasmi, a partire dal pretesto che gli fornisce l’unico spettacolo che ammette di aver seguito in una programmazione di decine di eventi, L’Etang di Gisèle Vienne. Il lavoro infatti è ispirato a un microdramma di Robert Walser, e il critico usa questo elemento per prodursi in un’invettiva in difesa dell’autore primonovecentesco e di suoi estimatori noti come Canetti, Sebald e Benjamin, tramite il più noioso e trito degli espedienti retorici, ovvero quello riassumibile in un: «Cosa ne avrebbe detto Benjamin, signora mia?». Come ci fosse un diritto proprietario all’esegesi di autori scomparsi che – ironia della sorte – sono presenti e operanti e vivi nelle genealogie che muovono il pensiero di Di Matteo e di Vienne.

Il problema centrale però non è Cordelli, né il suo distinguersi ormai solo per articoli che stillano conformismo e conservazione, oltre a un senso molto franco di rigetto per esperienze che evidentemente non ha neppure la curiosità di comprendere, ma il fatto che il suo pronunciarsi cada in un terreno culturale e istituzionale che gli è completamente consustanziale. In Italia abbiamo 7 Teatri Nazionali la cui direzione è così distribuita:

Associazione Teatro Stabile della Città di Napoli – direttore Roberto Andò, 63 anni.
Fondazione Emilia Romagna Teatro – direttore Valter Malosti, 61 anni.
Fondazione Piccolo Teatro Di Milano / Teatro D’Europa – direttore Claudio Longhi, 56 anni.
Fondazione Teatro Stabile Di Torino – direttore Valerio Binasco, 58 anni.
Teatro Della Toscana – direttore Marco Giorgetti, 62 anni.
Teatro Stabile Del Veneto / Carlo Goldoni – direttore Giorgio Ferrara, 75 anni.
Associazione Teatro di Roma, commissariato.

Se si guarda alle scene di rango appena inferiore, la situazione non è più confortante, con una delle uniche direttrici donne di uno Stabile, Laura Sicignano, recentemente sostituita – nonostante un sostegno pieno e trasversale che vedeva concorde il personale del teatro e gli abbonati a chiederne il rinnovo –, alla guida dello Stabile di Catania dall’intramontabile Luca De Fusco (65 anni). Cordelli dunque avrebbe un’ampia scelta sul dove trascorrere le proprie serate, per uscire riconfortato, in termini anagrafici e di genere, rispetto alle scelte artistiche e alle opere in cartellone.

Per contro, i Festival in Italia sono stati e restano un luogo di articolazione di pensiero, poetiche e futuri praticabili. E, soprattutto, un luogo in cui le sperimentazioni vengono portate avanti da quelle donne che sono platealmente assenti nei ruoli istituzionali sopra citati: Silvia Bottiroli ad esempio, passata dalla direzione del Festival di Santarcangelo a quella del prestigiosissimo DASS Theatre di Amsterdam, la già citata Corona, adesso Di Matteo, solo per tenerci su pochissimi casi.

Sono figure attorno cui si sono infittite alleanze culturali, trasmissioni generazionali, pratiche artistiche nuove e resistenti anche nei momenti più duri della pandemia. Il pubblico che affolla Short Theatre è principalmente composto da ragazzi e ragazze, e il teatro, al di là delle inutili palettature disciplinari che Cordelli convoca, ma che la scena viva ha abbattuto da mezzo secolo, è per loro e per noi una festa, una forma che pensa, un luogo in cui vale la pena tornare una sera dopo l’altra.

Gli intellettuali come Cordelli invece sono soggetti culturalmente celibi. Non producono strumenti di pensiero, non creano alleanze e genealogie e filiazioni seppur minime. Lo spazio che occupa sul Corriere della Sera è un retaggio del secolo scorso, non perché il teatro non sia rilevante per la società che viviamo, ma perché ciò che di nuovo, ciò che di imprevisto sorge come una promessa e un segno per il nostro futuro insieme, non viene preso in quelle pagine.

*Questo testo è stato contestualmente inviato al Direttore del Corriere della Sera per la rubrica «Lettere al Direttore», e se ne attende la pubblicazione.

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