Dark Matter Games

Intervista a Gregory Sholette, Kuba Szreder e Noah Fischer

Sale Docks porta

A Venezia, dall’11 al 15 maggio, al S.a.L.E. Docks, andranno in scena i Dark Matter Games, un progetto co-curato proprio da noi del S.a.L.E. e da Workspacebrussels. Artisti, attivisti e ricercatori daranno vita ad un programma di interventi nello spazio pubblico, tavole rotonde e attività che avranno come obbiettivo l’urgenza politica di riflettere sulla attuale economia politica del mondo dell’arte contemporanea, sulle linee di genere che lo attraversano (come discriminazioni, ma anche come forza contro la normatività), sugli effetti dei grandi eventi artistici sullo spazio urbano e sulla necessità di costruire modelli di produzione culturale autonomi rispetto alla logica neoliberale.

Proponiamo qui tre domande a tre dei partecipanti. Gregory Sholette e Noah Fischer sono due artisti basati a New York, il primo ha inventato l’utilizzo del termine Dark Matter come metafora del mondo dell’arte, il secondo presenterà DebtFair, un progetto sugli effetti, sulla natura e sulla funzione del debito contratto da migliaia di artisti negli Stati Uniti. Abbiamo infine interpellato Kuba Szreder, curatore e ricercatore polacco che presenterà il progetto del Dark Matter Super Collider, una call aperta per costruire una collezione permanente di espressioni di creatività attivista, queer, non convenzionale.

Marco Baravalle per Gregory Sholette: Il 12 maggio, nel contesto di Dark Matter Games, lancerai il tuo nuovo libro intitolato «Delirium and Resistance». Lì affermi che, parallelamente ad una nuova fasi politica della crisi globale, una fase segnata da una apparente rottura dell’ordine neoliberale (citi, ad esempio, la Brexit o l’elezione di Trump) emerge una nuova economia culturale che definisci «nudo mondo dell’arte» (bare Art World). Cosa intendi e in che modo questo concetto sviluppa la tua riflessione precedente sul Dark Matter?

Gregory Sholette: Nel mio libro Dark Matter (2010) mi riferivo al fascino che l’arte esercitava sulla cultura d’impresa neoliberale, sostenendo che questa attrazione non si basava interamente sul «pensiero immaginativo e non ortodosso» o sulla «inesauribile flessibilità» dei lavoratori culturali, qualità citate da molti analisti della svolta culturale del capitalismo. Tale fascino dipende anche «dal modo in cui il mondo dell’arte, inteso come un aggregato economico, è in grado di gestire il proprio surplus di forza lavoro, estraendo valore da una maggioranza ridondante di artisti falliti che accettano, di buon grado, questo tipo di dinamica».

Estrapolando, senza però aderirvi completamente, alcuni elementi della tesi sulla critica artistica di Boltanski e Chiapello (in cui il capitale assimila gli aspetti sociali ed affettivi del rifiuto bohémien dell’arte nei confronti del capitale stesso), ho sostenuto, piuttosto, che a spingere il neoliberismo verso la produzione artistica sia stata l’estrazione di valore da una larga popolazione in surplus, questo è l’elemento chiave più di ogni altro fattore sociale. Questa integrazione di arte e capitalismo va al di là di una nuova etica del lavoro. Essa invece illustra senza pudore il fondamentale bisogno del capitale di una espansione costante, un processo analogo al tasso di crescita illimitato che è inerente ad ogni forma di organizzazione economica capitalistica. Per dirla in parole povere, scrive David Harvey, il capitale richiede una produzione di lavoro sociale in continua espansione, «una economia capitalista a crescita zero è una contraddizione logica ed esclusoria. Semplicemente non può esistere. Per questo la crescita zero definisce una condizione di crisi del capitale». Ma questo processo implica anche il tentativo di integrare l’azione di quel surplus detto dark matter che è marginalizzato dal mondo dell’arte mainstream. Il concetto di creatività della dark matter prende in considerazione tre tipi di produttori che intrattengono relazioni diverse con l’ambito disciplinare delle belle arti, tra cui:

1) Studenti d’arte pre-falliti (pre-failed) formati professionalmente, una composizione la cui educazione accademica ha probabilmente enfatizzato le pratiche di avanguardia sovversive, mentre, in realtà, li preparava a fare parte di un apparato di riproduzione in cui la maggioranza degli artisti ingrassa un’industria multi milionaria funzionando da visitatori di musei, abbonati a riviste, acquirenti di materiali per l’arte, insegnati part-time, assistenti malpagati di gallerie, allestitori, operai, costruttori e così via.

2) Produttori di fanzine amatoriali e informali, giocatori di live action fantasy role-play (LARP), magliai e tessitori craftavists, devoti del Gotico, del Punk e delle subculture Do it Yourself (DIY), fan che riproducono i film culto che più hanno amato e cyber-geeks impegnati in pratiche creative all’insegna del piacere, della fantasia e della cyber-condivisione. Tutte categorie apparentemente in conflitto sia con il modello di artista in carriera che con l’etica capitalista dei lavoro e i suoi mercati.

3) Un numero più limitato di artisti e collettivi di artisti, sia professionisti che non, che collegano esplicitamente le proprie pratiche artistiche ad un intento di radicale trasformazione sociale e politica. Soggetti che, per questa ragione, sono stati tradizionalmente posizionati ai margini del mondo dell’arte mainstream, della sua storia, del suo discorso e soprattutto della sua economia politica.

Queste tre forze marginali assomigliano a ciò che gli astrofici chiamano la materia oscura (dark matter): una forza gravitazionale dai tratti sconosciuti che compone il 95% dell’universo conosciuto. Senza il peso di questa massa mancante il cosmo visibile si sarebbe disperso nello spazio molto tempo fa. Come per la sua omonima, si può dire che la materia oscura creativa rappresenti la maggior parte della attività artistica prodotta nelle società contemporanee. Ciononostante questo tipo di materia oscura è invisibile prima di tutto per coloro i quali pretendono di gestire e di interpretare la cultura: critici, storici dell’arte, collezionisti, mercanti, musei, curatori e manager dell’arte. Questa materia include pratiche auto-organizzate, non istituzionali, attiviste, autonome, non ufficiali, informali e amatoriali, tutto lavoro espletato e circolato all’ombra del sistema formale dell’arte, eppure – esattamente come il mondo dell’astrofisica dipende dalla propria materia oscura – allo stesso mondo il mondo dell’arte dipende dalla sua energia nascosta. Questo fenomeno è talvolta denominato come «il problema della massa mancante». La domanda che la mia tesi pone è dunque la seguente: se la materia oscura celeste è il principale freno che la rallenta l’espansione cosmica, quale funzione ricoprono allora questi produttori artistici in eccesso nella stabilizzazione del mondo dell’arte? Tutte queste domande sono aggravate dallo stato attuale della multi miliardaria industria del mondo dell’arte. Caroline Woolard, artista e membro del gruppo bfa.mfa.pphd, si domanda con incredulità: «Cos’è l’opera d’arte al tempo di diplomi artistici da 120.000 dollari?».

Sia che oggi il capitalismo post-fordista assomigli all’arte, sia che avvenga l’opposto, praticamente ogni certezza che avevamo rispetto alla cultura alta è stata spazzata via con forza sorprendente, lasciando indietro qualcosa di grezzo ed a suo modo vulnerabile. Oggi gli artisti sono semplicemente dei lavoratori tra gli altri, né più né meno. Seguendo la nozione di nuda vita di Giorgio Agamben, oggi potremmo descrivere propriamente questa messa in scena come nuda arte. È una nuova realtà culturale in cui la celebrata autonomia dell’arte e la sua eccezionalità sono svanite, in cui la produzione si è fatta pienamente coincidente con l’emergenza politica ed economica che segna il nostro presente.

Claustrofobico, tautologico, il nostro nudo mondo dell’arte è il nostro nudo mondo dell’arte è il nostro nudo mondo dell’arte (come nella nota poesia di Gertrude Stein: «Una rosa, è una rosa, è una rosa»). Esso emerge attraverso una sequenza di successivi e sempre più ricorrenti eventi imprevisti e scossoni che tengono il ritmo dei sempre più frequenti scarti del capitale di crisi in crisi. Ma questo non significa che tutti gli artisti la pensino allo stesso modo, o che tutti desiderino adattarsi alle dure realtà che che la nuda arte impone alle loro pratiche e alle loro vite. Ciò che credo stia accadendo nelle attuali condizioni del nudo mondo dell’arte, sta succedendo, più in generale, anche nelle attuali crisi capitalistiche. È la compulsione del capitale ad accumulare che ha messo il turbo. Il nostro mondo – quello dell’arte come quello del nostro quotidiano – sta evolvendo in una frenetica macchina che prova ad estrarre guadagni sempre più dispersi e marginali da un insieme in espansione di attori molto diversi tra loro, tra cui studenti indebitati, lavoratori culturali sottopagati, artisti e stagisti non retribuiti e tutti gli altri innumerevoli partecipanti della rete produttiva che, con o senza credenziali, aiutano la riproduzione di un mondo dell’arte sempre più nudo.

Eppure è qui che scorgiamo il pericolo che corre il capitale con la sussunzione di questo lavoro non produttivo e creativo. Visto che l’ultima iterazione della crisi sistemica ha spogliato l’arte e non si intravede una chiara modalità per ripristinare la vecchia narrativa dell’arte come sfera autonoma di idee e creatività (non importa quanto il suo sistema sia invischiato con il mercato), allora questa rottura rivela anche una significativa negazione in atto che sta sotto gli occhi di tutti. Poiché una volta che l’improduttività mimetica dell’arte è sussunta nel capitale, è allora che la sua vera minaccia si materializza: l’arte diventa la più evidente dimostrazione del delirante raggiro del capitale.

Chiaramente un numero sempre maggiore di precedentemente invisibili produttori culturali ha iniziato a vedersi come una categoria pericolosa, in grado di operare autonomamente nel momento in cui la natura sociale dell’arte diventa visibile oltre ogni dubbio. Come una strana e ridondante forza, questa non più oscura materia può rappresentare la normalità – pensiamo all’esempio tipico di lavoratori dell’arte o allestitori la cui pratica personale rimane sempre in secondo piano – ma al tempo stesso essa ribolle di un reale potenziale di trasformazione positiva e di un imprevedibile risentimento radicato nel profondo. Perciò tanto quanto la condizione di nuda arte si presta a comportamenti predatori e al panico, così essa genera semi cattivi nella forma di boicottaggi, scioperi, occupazioni e richieste di eguali diritti. Qui, in nuce, sta il potenziale delirante della materia oscura in un mondo dell’arte messo a nudo.

Può una azione della dark matter pienamente cosciente e ultra accelerata aiutare coloro che fabbricano i progetti al servizio del cosiddetto 1% (ovvero l’élite dell’arte) a mettersi in discussione? Chi sarà disposto di buon grado a sostenere i musei, le conferenze e i giornali dell’industria culturale? Chi ci si aspetterà che educhi la prossima generazione di artisti-dark matter in surplus? Non saremo noi, risponde questa forza dall’oscurità, non sotto le presenti condizioni imposte dalle gerarchie del mondo dell’arte e dai suoi sistemi di estrazione del valore. Nel mondo in cui viviamo ciò che prima era (forse qualche volta fortunatamente) nascosto, ora diventa, nel bene e nel male, dolorosamente manifesto nel nudo mondo dell’arte.

Marco Baravalle per Kuba Szreder: ti sei recentemente concentrato sull’esistenza di diversi mondi dell’arte oltre a quello caratterizzato dal nesso galleria-mostra. Sono particolarmente interessato a capire su quali premesse si basano questi altri mondi dell’arte. Pensi che ontologicamente sia possibile individuare delle zone completamente al riparo dai dispositivi della valorizzazione neoliberale? Specialmente quando questi dispositivi si sono dimostrati assai vari e non limitati al nesso sopra menzionato.

Kuba Szreder: Risponderò con una domanda: come collocheresti le attività di gruppi quali S.a.L.E. Docks, Macao, Isola o dei molti altri centri d’arte indipendenti in relazione alle istituzioni che compongono il mercato dell’arte con i loro modelli di business? La teoria dei mondi dell’arte (art worlds), che dobbiamo al sociologo americano Howard Becker (1984) e recentemente ripresa dal progetto di ricerca Plausible Art World (Basekamp&Friends), fornisce una utile cornice intellettuale per comprendere le operazioni concrete di questi sistemi artistici alternativi. Per dirla con il linguaggio dell’Operaismo, ci si può rifare a Toni Negri e al suo concetto di arte delle moltitudini come una forma di azione/immaginazione rivolta alla ricostruzione del nostro mondo sociale e alla creazione di nuovi e diversi mondi. Un altro concetto utile è quello della auto-valorizzazione del lavoro artistico, la questione è la seguente: c’è davvero bisogno di apparati di valutazione inseriti in circuiti fieristici o biennalistici sempre più vuoti di senso, per sentirsi positivamente valorizzato come lavoratore creativo? Senza dimenticare che, ovviamente, questi apparati hanno la loro attrattiva e sono per natura basati sullo sfruttamento.

Torniamo alla tua domanda, il termine mondo, specialmente al plurale, suona controverso. Si tende a deridere il termine come se alludesse ad una teoria universalistica di universi paralleli, presumibilmente localizzati fuori dal capitalismo e separati dai settori dominanti dell’industria dell’arte (che è troppo spesso assimilata al capitalismo neoliberale tout court). Ma i mondi dell’arte, dal punto di vista sociologico, si definiscono come network di cooperazione sociale, con la loro divisione del lavoro e i loro sistemi di valori che permettono la creazione e la distribuzione di ciò che la gente chiama arte. Così, per esempio, quando il S.a.L.E. organizza una protesta in cui si fa uso di creatività radicale, con uno status misto tra arte e azione, lo fa mobilitando lavoro, attenzione e risorse in un modo diverso rispetto a quanto accade con il nesso galleria-arte. Se queste attività non sono eventi isolati, S.a.L.E., Isola o Macao costituiscono ciò che Stephen Wright definisce un «art sustaining environment». Sostanzialmente questi mondi dell’arte non sono separati tra loro e isolati, invece si intrecciano sul piano globale con affinità e alleanze. Essi costruiscono sistemi di valore con concetti estetici distintivi e perfino con delle ontologie proprie, alternative e conflittuali con i sistemi di valore utilizzati dal nesso galleria-mostra. Pensaci, si tende a usare la parola arte intendendo cose assai diverse: da una parte chiamiamo arte una scultura pseudo bronzea di venti metri che assomiglia al set di un b-movie pacchiano, come l’ultima linea dei prodotti a marchio Hirst, dall’altra abbiamo azioni tipo la Precarious Workers Pageant che guarda alle estetiche politicizzate delle avanguardie. Il problema è che troppo spesso giudichiamo alcune delle attività ibride (che avvengono parimenti sul piano della performance artistica e della pratica sociale) come solo arte, usando così una piatta definizione che richiama all’arte ufficiale, quella di grande valore economico, come unica arte possibile e immaginabile.

La teoria degli art sustaining environments (mondi dell’arte) si confronta con questo slittamento di significato. Ripetiamo, qui stiamo parlando di modi di autovalorizzazione immaginati come una espressione di lavoro vivo, come arte delle moltitudini, come un surplus creativo che eccede esponenzialmente la definizione dell’opera-merce nel mondo dell’arte legato al mercato. Curiosamente sono le stesse tendenze speculative e autoreferenziali del nesso galleria-mostra a minare i suoi sistemi di valorizzazione. In ciò che Gregory Sholette chiama il «nudo mondo dell’arte» (bare art world), non si finge che l’arte differisca da un’altra merce di lusso. Non stupisce che l’arte, così definita e spacciata, sia ripetitiva e totalmente degradata. Bisogna ricordare che i mercati marchiano le cose che vengono vendute attraverso di essi, come piace dire a Neil Cummings. In altre parole, i mondi dell’arte hanno alcuni effetti sull’ontologia. Cose prodotte come arte all’interno di sistemi economici differenti, assumono i caratteri dei sistemi da cui vengono prodotte e distribuite. Possono essere segnate da intenzioni politiche ed economiche radicali come quelle del S.a.L.E. e di Macao, oppure appiattite da targhette con il prezzo che gli vengono appiccicate nei circuiti dell’arte finaziarizzata.

C’è un ulteriore elemento nella tua domanda che riguarda la cornice totalizzante del capitalismo neoliberale. Diciamolo chiaramente. Ogni mondo sociale, incluso ogni mondo dell’arte è oggi localizzato dentro e contenuto all’interno del sistema-mondo capitalistico. I mondi dell’arte dominanti lo sono perché veicolano flussi di capitale e strutturano gerarchie sociali basate su grandi disparità di censo e status. Ecco perché sono dominanti. I membri dei mondi dell’arte radicali e politicizzati si battono esattamente contro queste tendenze che integrano anche il nesso galleria-mostra. I lavoratori che popolano questi mondi dell’arte possono essere sfruttati in diversi settori dell’economia capitalistica (quelli del mercato immobiliare, del lavoro e della formazione) a seconda della loro posizione nel sistema globale (ad esempio, per gli studenti dell’Europa continentale, il debito non rappresenta un problema tanto grave quanto lo è per i loro colleghi del Nord America). Bisogna anche tenere in considerazione le differenze di ricchezza e la disparità tra nord e sud. È molto più semplice mobilitare lavoro gratuito e risorse vivendo a Bruxelles piuttosto che a Kinshasa, oppure vivendo a New York piuttosto che a Kabul, e questa disparità è un elemento importante nell’emergere dei mondi dell’arte. Concetti come il nudo mondo dell’arte, art incorporated o fabbrica dell’arte sono ben costruiti per enfatizzare i legami tra i mondi dell’arte e il capitalismo globale. Il problema è che, secondo me, tendono ad essere troppo generalisti e rischiano di assimilare una particolare e localizzata versione di uno dei mondi dell’arte dominanti con il mondo dell’arte in generale. Io non penso che i nostri mondi dell’arte appaiano, operino o sfruttino nello stesso modo a Londra, New York o Varsavia. Anche a Venezia ci sono grandi differenze tra ciò che accade ai Giardini, nella mostra di Hirst, oppure al S.a.L.E. Ciò non significa che non ci sia sfruttamento, ineguaglianza o lotta per il dominio. Al contrario, ma abbiamo bisogno di molta più teoria degli apparati e dei meccanismi di sfruttamento per affrontarli in modo appropriato. Questi apparati e nessi sono trasversali, attraversano differenti mondi sociali, rendendo possibile lo sfruttamento di molti ad opera di pochi. Abbiamo bisogno di una specie di teoria delle stringhe del discorso artistico che aiuterebbe sia la nostra comprensione, sia le nostre lotte contro il dominio del capitale in economia, politica e arte. E il Dark Matter Collider è proprio un esercizio nella lotta per l’autovalorizzazione del lavoro vivo artistico, dell’arte delle moltitudini che sempre fluisce e scorre al di sotto, attraverso e oltre il white box che chiamiamo arte.

Marco Baravalle per Noah Fischer: insieme al collettivo Occupy Museums avete recentemente presentato il progetto DebtFair alla Biennale del Whitney, a New York City. Puoi spiegare brevemente che cosa è DebtFair, come valuti il suo impatto all’interno di tale istituzione, nell’ambito di un importante evento artistico? Seconda questione: l’impressione era che come conseguenza dell’elezione di Trump anche alcune parti molto istituzionali del mondo dell’arte si fossero mobilitate, prendendo parte a manifestazioni e proteste. Dopo 100 giorni, qual è la situazione? Al di là dello shock iniziale, che ne è stato di questioni importanti come il debito, la razza e il genere? Stanno guadagnando visibilità nel dibattito sull’arte? Si vedono casi di auto-organizzazione?

Noah Fischer: Nel 2011 e nei mesi successivi le azioni dirette di Occupy Museums, da una posizione interna ai movimenti, continuavano a scontrarsi con i musei, considerati come punti su cui fare leva per attaccare un più vasto sistema non-democratico governato dal capitale. Questo sistema doveva essere sfidato, ed i suoi spazi democratizzati e rivoluzionati. I musei, rispetto a Goldman Sachs, sembravano gli spazi dell’1% [oligarchia finanziaria, N.d.R.] più facilmente penetrabili. Da anni noi operiamo da una posizione critica, dall’esterno più che dall’interno del mondo dell’arte. Tuttavia, quando la spinta del movimento è venuta meno, sia la nostra comunità che la nostra pratica si sono più strettamente concentrate sull’arte. Il nostro progetto Debtfair, presentato alla Whitney Biennial, è un risultato di questa trasformazione che ha riguardato sia il nostro gruppo che la nostra storia. Inizia anche ad affrontare la questione di come politicizzare la comunità atomizzata degli artisti, piuttosto che concentrarsi semplicemente sulla necessità di colpire le grandi istituzioni d’arte. DebtFair è stato anche un progetto molto personale per me. Negli anni in cui pianificavamo le azioni e gli interventi di Occupy Museums, ritornavo poi sempre nel mio studio. Questo è il paradosso. Sapevo che la pratica artistica nello studio e gli oggetti d’arte avevano un valore, ma gli interventi contro le istituzioni artistiche avevano completamente alterato il mio modo di intendere l’economia.

Da un lato c’è il valore terapeutico ed intuitivo della pratica artistica, un’attività in cui il risultato finale – l’opera d’arte – può incorporare una visione personale (compresa una concezione politica personale) in un modo che altri formati non permettono, e chiaramente questo rappresenta un valore. Come conciliare però questo con un sistema pienamente transazionale? Sembrava che gli oggetti, una volta installati all’interno della maggior parte degli spazi in stile white box, venissero completamente catturati nel gioco del capitale. La maggior parte delle persone lo sa e pensa che sia un fenomeno circoscritto al mercato dell’arte: il potenziale speculativo funzionale alle vendite e la creazione di una classe di beni artistici come misura comune del successo (o più propriamente come misura del fallimento). La cattura dell’arte all’interno del sistema finanziario però arriva più in profondità. Il tempo della maggior parte degli artisti subisce letteralmente un controllo finanziario attraverso meccanismi di debito individuale, contratto come prezzo di entrata nel mondo dell’arte.

Occupy Museums ha condotto uno studio presentato in occasione della Whitney Biennial di quest’anno. Ad esempio, per quanto ne sappiamo, il 100% degli artisti è andato al college e la maggior parte ha poi frequentato un master. Una gran parte ha frequentato le migliori scuole d’arte. La maggior parte delle migliori scuole d’arte ha le rette più alte di tutti i college degli Stati Uniti. Tutta questa formazione si traduce quindi in debito. Gli artisti però non riescono a rientrare dei prestiti, rimanendo perciò indebitati in modo permanente. Questo è un altro modo in cui l’arte diventa oggetto di controllo finanziario. Si tratta di un dilemma non facilmente risolvibile. Non si risolve scappando dallo studio. Ho sempre pensato che, per la Sinistra, lasciare l’idea stessa della creazione dell’oggetto d’arte agli iper-capitalisti per rivolgersi piuttosto ad azioni politiche dirette o progetti comunitari, avrebbe significato una vera sconfitta; come se noi non avessimo alcun diritto al valore della creazione (e del godimento) dell’opera d’arte.

DebtFair deriva dunque da questa sorta di dilemma personale, io sono un artista che ha ampiamente lasciato lo studio per il parco [Zuccotti Park, il luogo simbolo di Occupy Wall Street, N.d.R.]. Ho cercato di modellizzare un sistema che permettesse agli artisti di trasformare il valore potenziale dell’arte da speculativo in sostenibile, proponendo una specie di moneta artistica che permettesse di scambiare oggetti d’arte direttamente contro i debiti personali. Ho poi realizzato che questo sarebbe dovuto essere un progetto collettivo, e ho dunque presentato l’idea ai membri di Occupy Museums. Abbiamo così deciso di creare insieme un sistema che raggruppasse gli artisti, esattamente come i debiti stessi, una volta analizzati, appaiono raggruppati tra loro. Poco prima, un gruppo di OWS (Occupy Wall Street), Strike Debt, aveva avviato un progetto intitolato Rolling Jubilee, che sembrava creare una mini economia di salvataggio dal debito.

Abbiamo sviluppato il sistema di scambio della DebtFair per alcuni anni – all’inizio era basato sul cercare di ripensare il funzionamento della vendita di un’opera d’arte. Abbiamo però realizzato che dovevamo prima creare un nuovo modo di vedere l’opera d’arte. Come si può rendere visibile il debito invisibile dietro l’opera? Abbiamo dunque diffuso una call aperta, indirizzata agli artisti indebitati, in modo da poterli successivamente organizzare in base alle banche e agli istituti a cui si erano rivolti. In questo modo, ad esempio, si ha un gruppo di artisti JP Morgan Chase con un debito di dieci milioni, e così via. Abbiamo quindi deciso di installare le opere di questo gruppo incastonandole direttamente all’interno dei muri della galleria o delle pareti del museo, piuttosto appendendoli sulla superficie.

Siamo inizialmente stati invitati a presentare una mostra di DebtFair nell’Art League Houston e questo ha generato una serie di dibattiti pubblici sul debito e la responsabilità. Ciò ci è sembrato un primo livello di coscienza necessario per organizzare la resistenza al debito nel mondo dell’arte. Poi, in tarda primavera del 2016, il Whitney Museum si è interessato a DebtFair. Generalmente, negli Stati Uniti, Occupy Museums preferisce lavorare con i musei non figurando tra gli invitati – è il nostro modo per mantenere la piena responsabilità delle nostre azioni e spingere in avanti le campagne quando è necessario. D’altra parte, per noi non era un problema esporre in un museo come il Whitney, intimamente legato ad hedge funds e a grandi compagnie immobiliari attraverso i suoi trustees e gli sponsor aziendali. Avevamo infatti concepito DebtFair come una sorta di cavallo di Troia – una macchina che approfittasse del sistema di visibilità del museo stesso. La DebtFair ha significato portare gli artisti della Dark Matter all’interno di uno spazio illuminato, come una lente utile a mostrare e a fare riflettere sul sistema di selezione e valorizzazione. Il Museo ha deciso di ospitare il nostro progetto e noi pensiamo l’abbiano capito.

Mentre stavamo lavorando al progetto per il Whitney, Trump è stato eletto. Forse ultima delle molte e dolorose conseguenze, questo ha ridefinito il calcolo politico di DebtFair. Infatti pensavamo che il progetto si sarebbe confrontato con la presidenza Clinton, in cui il neoliberismo sarebbe apparso più chiaro, anche come bersaglio. Avevamo individuato un target specifico: una società denominata BlackRock, che gestisce asset per circa 5,1 trilioni di dollari. Molto più grande di qualsiasi banca, BlackRock è come la stella della morte che collega tra loro tutte le situazioni di debito. Gli artisti americani avrebbero potuto ritrovarsi al suo interno: dai debiti coloniali di Puerto Rico a debiti studenteschi, medici, o relativi a carte di credito. Tutto questo debito viene commerciato dalla BlackRock e il suo CEO Larry Fink (amministratore fiduciario del MoMA) era ritenuto il possibile segretario del tesoro della Clinton. Poi però la bomba Trump è esplosa e, improvvisamente, i neoliberali sono diventati i protettori delle città rifugio piuttosto che i nostri nemici delle corporation, come era nel 2011.

Mentre l’inaugurazione della presidenza Trump si avvicinava in una forma che appariva sempre più fascista, sembrava politicamente strategico creare una grande coalizione delle arti – un mix di tutti i gruppi di sinistra e di alcune istituzioni neoliberali. Molti musei di New York, come il MoMA e il Met, erano ufficialmente silenziosi, altri, come il Queens Museum (che si rivolge ad una grande popolazione di immigrati), si stavano invece mobilitando direttamente per proteggere la loro forza lavoro e assumere un ruolo di resistenza. Ho chiamato i curatori del Whitney e ho discusso la possibilità di ospitare come Occupy Museums una contro-inaugurazione presso il museo, centrata sulle voci della comunità degli artisti-attivisti radicali. Questo è ciò che è stato rapidamente organizzato, come azione nel contesto dello sciopero dell’arte #J20 e degli eventi di resistenza programmati in tutto il paese. Il successo della mobilitazione complessiva contro l’inaugurazione, così come le proteste all’aeroporto che hanno respinto la legislazione anti-immigrazione di Trump, hanno creato la sensazione che il mondo della cultura stesse passando ad una resistenza permanente. Oggi siamo invece in un periodo di stasi e in ogni caso abbiamo un problema a lungo termine che necessita di soluzioni a lungo termine.

Una volta eletto Trump, alcune reti cominciarono a formarsi. Al momento ci sono reti tra istituzioni che creano e supportano i cosiddetti spazi rifugio. Ci sono reti di accademici come Art Professors of America che si preparano a difendere sia i loro studenti che se stessi dagli attacchi della destra. Gran parte del lavoro che ho portato avanti negli ultimi anni – a New York ed in Europa (ad esempio l’occupazione del Guggenheim di Venezia nel 2015), è stato il risultato delle reti nate nel 2011 dentro i movimenti di Occupy, delle Primavere Arabe, del 15M. La resistenza reale dipende completamente da loro.

Le reti online forniscono la struttura, non il contenuto, e questa è la sfida della Sinistra. L’esperienza di Occupy Museums che ha cercato di mettere in luce le politiche del debito alla Whitney Biennial, ha mostrato finora che l’organizzazione intorno alla classe e al debito è molto più difficile nel mondo dell’arte nell’era di Trump. O almeno, è più difficile rendere queste politiche virali. Come tutti sanno, il dibattito razziale su Open Casket [Fischer si riferisce al dipinto di Dana Schutz che è diventato il grande «caso» della biennale newyorkese di quest’anno N.d.R.] ha raggiunto livelli storici di popolarità. Prima di questo, l’evento organizzato per il J20 sembrava avere ottenuto un buon risultato, le persone organizzavano e prendevano parte a proteste contro alcune delle politiche più violente di Trump. Attualmente non sembriamo avere il linguaggio, l’attenzione, e le riserve di energia adeguate per rispondere alla conquista del potere, su ogni livello, esercitata da gruppo di miliardari e per opporsi ad un sistema che continua a concentrare il capitale in poche mani.

Penso però che parte del problema abbia a che fare con il modo in cui l’attivismo artistico si sia allineato ai meccanismi di feedback dei nuovi media, altamente influenzati dagli algoritmi di Facebook e Twitter, un problema messo a nudo dalle elezioni americane. Questo rende incredibilmente difficile discernere che tipo di organizzazione è veramente efficace nel lungo termine da ciò che invece semplicemente accende o sfrutta il bisogno di indignazione momentanea delle persone. Con DebtFair cerchiamo di attuare una visione si lungo periodo. Occupy Museums prova a costituire una piattaforma per mettere in luce le trasfigurazioni dell’arte attuate dal potere finanziario, in un momento in cui la presa di quest’ultimo si fa più stretta. Vediamo debiti in forte crescita e nelle città rifugio assistiamo al boom dei beni immobiliari di lusso e dei prezzi degli affitti. Ciò significa che tali spazi saranno sempre meno sicuri, non c’è via di fuga. Ora e in futuro dobbiamo organizzarci e combattere.

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