In prigione senza passare dal via
Reddito di inclusione e leggi sui poveri nel workfare italiano
Lo chiamano reddito di inclusione. È nominalmente contenuto nel Disegno di legge AS 2494 approvato definitivamente al Senato il 9 marzo con il pomposo titolo Delega recante norme relative al contrasto della povertà, al riordino delle prestazioni e al sistema degli interventi e dei servizi sociali. In realtà è l’estensione ed integrazione all’intero territorio nazionale di una misura già sperimentata in dodici grandi città e chiamata «sussidio di inclusione attiva» (SIA), che poi è la Carta prepagata SIA, che a sua volta si inserisce nel solco della Social Card introdotta dal Ministro Tremonti al tempo del Governo Berlusconi IV, 2008.
Un decennale gioco dell’oca nel quale l’intera classe dirigente nazionale, coadiuvata da indefessi sforzi del variegato mondo del Terzo Settore, continua a scherzare pericolosamente con i quasi cinque milioni di persone che vivono in condizioni di povertà assoluta, deprivazione materiale, esclusione sociale, senza prospettare alternative alla carità della parrocchia, all’eventuale, faticosa, solidarietà intra-familiare, all’informale rete di relazioni sociali e agli odiosi ricatti di vite indebitate e malavita organizzata.
Così il legislatore provvede a saldare la vita del povero ad un «progetto personalizzato di attivazione e di inclusione sociale e lavorativa», nel quale interverranno tutti gli istituti e le procedure di controllo di un inadeguato apparato pubblico, coadiuvato dal sussidiario e parassitario privato sociale. Si parte dal Comune di appartenenza, alle Asl territoriali, passando per il Centro per l’Impiego, l’ufficio territoriale dell’Inps, i fondi regionali ed europei, le diverse burocrazie multi-livello e quindi le équipe interdisciplinari che monitoreranno il percorso rieducativo del povero capofamiglia.
Non bisogna essere particolarmente arguti per intuire che si tratta di una piccola legge sui poveri fondata su un odioso ricatto: chi è in condizioni di esclusione sociale e povertà assoluta deve dimostrare di meritarsi il sostegno economico, dichiarandosi disponibile a percorsi di reinserimento sociale e lavorativo e a comportamenti di buona condotta partoriti dalla mente di un burocrate ottocentesco in vena di redimere moltitudini di poveri ritenute poco senzienti. È un meccanismo di governance pubblico-privata dei poveri, fondato su una miscela di paternalismo e Workfare, al posto di emancipazione e Welfare. L’inclusione passa per il ricatto del lavoro, giocando su quel «doppio legame vizioso», descritto dal talento che ha deciso di abbandonarci troppo presto di Mark Fisher (Buono a nulla, Good for Nothing), imposto ai disoccupati di lunga durata nel Regno Unito: essere considerati per tutta la vita e senza appello dei buoni a nulla, eppure dimostrare di essere sempre pronti e disponibili a fare qualsiasi cosa per meritare i sussidi.
La povertà sembra una condanna inappellabile e inemendabile, da espiare passando per austere istituzioni, vessatorie, mortificanti, paternalistiche e coercitive, in un circuito chiuso fatto di lavoro povero, buona condotta e questua burocratica. E allora da una parte verrebbe da reagire con tutto il virulento sarcasmo del nostro amato, ozioso, Paul Lafargue de Le droit à la paresse (1883): «E proprio quando l’uomo restringe il proprio stomaco e la macchina dilata la sua produttività, è a questo punto che gli economisti ci vengono a predicare la teoria malthusiana, la religione dell’astinenza e il dogma del lavoro? Bisognerebbe proprio strappar loro la lingua e darla in pasto ai cani».
Dall’altra torna in mente l’irriducibile parlantina di quel Padre Ubu partorito dall’esplosiva mente di Alfred Jarry inventore della patafisica che sarebbe servita anche a provare a spiegare l’universo supplementare al nostro, un universo che già nei decenni finali dell’Ottocento lasciava intravedere il delirio lavoristico e carcerario dal quale fuggire, prima che fosse troppo tardi. Con l’accortezza segnalataci dal Papa André Breton, nella sua oscuramente splendente, e troppo dimenticata, Anthologie de l’humour noir (1966), proprio a proposito di Jarry: «l’humour, inteso come processo che permette di eludere gli aspetti più penosi della realtà, si esercita qui quasi esclusivamente a spese degli altri». De te fabula narratur:
Padre Ubu (al suo Difensore): […] Ecco perché chiediamo ai signor giudici di condannarci alla pena più grave che son capaci di immaginare, affinché essa sia alla nostra altezza; tuttavia non a morte… Ci vedremmo bene come forzati, con il berretto verde, nutriti e pasciuti dallo Stato e occupati durante i nostri ozi in qualche piccolo lavoretto. Madre Ubu…
Madre Ubu: Ma…
Padre Ubu: Taci, mia dolce fanciulla – Madre Ubu farà ricami su babbucce di cimosa. E dato che a noi piace poco preoccuparci del futuro, ci augureremmo che questa condanna fosse a vita, e la nostra villeggiatura vicina al mare, in un qualche clima salubre» (Alfred Jarry, Ubu incatenato, 1899).
Sotto con i berretti verdi, Merdre!
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