Tempo di camminare sulla testa dei re

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Viviamo tempi eccezionali e drammatici. Il dramma sono le morti quotidiane, in Italia e ormai nel mondo, imposte da un virus sconosciuto, contro il quale, al momento, nulla può la ricerca medico-scientifica. L’eccezione senz’altro si è fatta regola di governo: dalla Cina all’Italia, dalla Francia agli Stati Uniti, miliardi di donne e di uomini vivono in casa reclusi, nel tentativo di contenere il contagio. La privacy viene messa in soffitta e nuovi dispositivi di controllo compenetrano la società del distanziamento: la quarantena di massa non finirà in tempi brevi, le riaperture saranno diversificate – rispetto ai settori produttivi – e temporanee. Un lungo periodo di stop and go ci attende. Eccezionale la crisi economica che già coincide col ritmo della pandemia.

Intendiamoci, però: il neoliberalismo è in crisi da un decennio, della crisi ha fatto tecnica di governo. Che quello neoliberale sia un capitalismo della sorveglianza, poi, è vero da quando piattaforme, app e social network hanno cominciato a innervare la nostra esistenza tutta. L’eccezione si è fatta regola da tempo, ma ripetendo sicuri la formuletta non facciamo troppa strada. E certo questa eccezione ha poco in comune con quella in cui troverebbe fondamento la sovranità.

Viviamo un tempo eccezionale perché il mondo non sarà più come prima. Saranno decine di milioni i posti di lavoro perduti, con la prospettiva di un impoverimento di massa. Ciò perché la crisi, a differenza del 2008, segna da subito l’economia reale e si riflette poi sui mercati finanziari. Nel giro di poche settimane, le catene globali del valore si sono frammentate. La disconnessione è logistica e della mobilità della forza-lavoro. A differenza della crisi del debito di un decennio fa, la cura neoliberale fatta di liquidità alle banche e alle imprese non basterà. Lo «sgocciolamento» verso il basso è una balla, lo sanno Trump quanto Merkel, Draghi quanto Rogoff. Dire che siamo in guerra contro il virus, come piace ai leader politici in cerca di unità nazionale, significa avere a mente il dopoguerra catastrofico. Senza soldi lanciati dall’elicottero, riprendendo una ricetta nota che si tratta di forzare andando oltre il suo originario conio neoliberale, né le banche centrali né gli Stati potranno contenere il crollo. Anche se ancora troppe sono le fabbriche aperte, pensiamo al caso lombardo in Italia, padroni e padroncini forzeranno per la fine del lockdown, e nessuno può escludere epidemie di ritorno (al centro della preoccupazione in Cina).

Nella durezza delle giornate senza abbracci, della vita e del lavoro che mai sono stati così coincidenti, partiamo in primo luogo da un’esigenza appassionata: pensare assieme il mondo nuovo. Non ci manca la parola, di comunicazione ne abbiamo fin troppa – disintossicarsi dalla chiacchiera informatica, sarà obiettivo fondamentale. Semmai si tratta di rimettere in movimento l’intelligenza condivisa, di cercare nomi all’altezza del passaggio d’epoca, di «cartografare contrade a venire». Per questo avanziamo una proposta semplice: un’assemblea pubblica, telematica (su Zoom e in diretta FB), giovedì 9 aprile alle 18.00. Ovviamente già se ne stanno facendo, nell’attivazione virtuosa di campagne politiche che battono il tempo nel tempo sospeso: quella sul Reddito di quarantena e quella di Non una di meno, per fare due esempi. In quella che proponiamo, vorremmo cominciare a prefigurare il tempo del dopo, nelle sue confliggenti alternative.

La seconda esigenza che ci ha spinto a promuovere il confronto è quella di pensare in grande. Mai come oggi il fallimento del capitalismo neoliberale è sotto gli occhi di tutti. Il dissanguamento della Sanità pubblica, sotto i colpi di COVID-19, mostra i suoi effetti spietati. Manca tutto: posti in terapia intensiva, ventilatori, mascherine e guanti; ma soprattutto personale e ospedali. Così come salta agli occhi lo scempio dei sotto-salari, del lavoro informale, intermittente e senza diritti: ad aggravare la malattia, l’inconsistenza degli ammortizzatori sociali, l’assenza di un welfare universale. La fiscalità si è fatta in questi decenni regressiva, i paradisi fiscali sono cresciuti ovunque, anche in Europa. Come i muri: con l’infamia europea del Mediterraneo, di Lesbo e del confine greco-turco. Pensare in grande, allora, significa immaginare un programma offensivo. Capace cioè di unificare le lotte per il welfare – ricche dell’indicazione del movimento femminista – e quelle per il salario, la critica radicale al modello di sviluppo e l’ostilità alla prospettiva di una stabile intensificazione del controllo. Ma anche capace, ed è questo il punto, di pretendere potere e democrazia. E ancora una volta una domanda cruciale è se lo spazio europeo può essere la cornice in cui coniugare questo programma, contro il neoliberalismo e contro il sovranismo. Avviamo il dibattito.

#ilmondocheverrà

 

 

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