Individui contingenti

La psicanalisi, la critica, il comune

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Ketty La Rocca, Foto da l'approdo, 1967, fotografia, cm 17,4x13

L’esperienza del desiderio dell’altro provoca angoscia 

Innamorarsi di una bottiglia è una cosa relativamente facile e appagante: non dice mai di no, è sempre disponibile, basta aprirla e la sensazione di piacere (o di stordimento) che se ne deriva è immediata. La stessa cosa la si potrebbe dire del cibo, delle droghe, degli psicofarmaci, di moltissimi oggetti che compongono la nostra vita. Abbiamo continuamente relazioni, anche erotiche, con oggetti inanimati: si tratta di una parte importante di quello che siamo e in molti casi non potremmo vivere senza. Avere una relazione con un individuo invece è molto più difficile perché un essere umano è scostante, è imprevedibile: potrebbe un giorno esserci e il giorno dopo scomparire. La sua dedizione all’altro è per definizione incerta, nonostante si tenti in tutti i modi di tutelarsi tramite contratti matrimoniali o irreggimentazioni istituzionali che possano rendere più prevedibile (cioè renderla più simile a un oggetto) la volontà di un individuo. Insomma, l’esperienza del desiderio dell’altro provoca angoscia.

Viene da qui la tentazione – da molti considerata patologica – di ridurre al minimo le relazioni con un desiderio per rapportarsi quasi esclusivamente a  oggetti, proprio come fa l’alcolista che gode solo del suo rapporto con la bottiglia. Negli Stati Uniti gli addicted di Oxycodone, crystal meth o di sciroppo alla codeina (diffusissimi ovunque ma soprattutto nel sottoproletariato di ogni colore) raccontano che il loro rapporto alla sostanza viene di fatto a sostituire quello con la sessualità. In un’intervista a una radio di New York qualche anno fa, il rapper Schoolboy Q mentre raccontava di essere pesantemente dipendente dalla codeina raccontava che se si fosse trovato di fronte alla scelta tra passare una notte con un’attrice bellissima come Jennifer Lawrence o agguantare un bicchiere pieno di sciroppo alla codeina si sarebbe gettato sicuro su quest’ultimo.

La clinica dovrebbe aiutare a passare dal godimento compulsivo dell’oggetto inanimato alla mancanza del desiderio che passa dall’altro e che è «bucato» dalle oscillazioni dell’altro 

Ma allora sarebbe da preferire a questo il rapporto con il desiderio di qualcuno, che è incerto, problematico ma che deve passare attraverso la simbolizzazione di un rapporto intersoggettivo con un’altra persona? Secondo una certa psicoanalisi lacaniana che tende spesso a opporre il desiderio, incentrato sulla mancanza, al godimento mortifero dell’oggetto, le cose starebbero proprio così: la clinica dovrebbe aiutare a passare dal godimento compulsivo dell’oggetto inanimato alla mancanza del desiderio che passa dall’altro e che è «bucato» dalle oscillazioni dell’altro. Tuttavia la questione è tutt’altro che semplice perché la sessualità si basa invece sempre minimamente su una riduzione a «oggetto di godimento» del partner: nonostante molti vogliano reprimere questo nocciolo scandaloso dell’esperienza sessuale (magari facendola diventare una specie di democrazia habermasiana dove si dialoga con l’altro e si riconoscono sempre i suoi punti di vista) la differenza tra il rapporto con l’altro umano e il rapporto con l’oggetto inanimato di godimento stanno in una differenza di grado non di qualità.

È per questo che è così interessante Her, il film di fantascienza di Spike Jonze che viene discusso nel libro di Paolo Godani, La vita comune, in cui in un prossimo futuro Theodore, il protagonista interpretato da Joaquin Phoenix, si innamora di un sistema operativo che è capace di parlare, apprendere dall’esperienza… e quindi anche di provare emozioni. Samantha – è questo il nome del computer – è dunque un oggetto? È un umano? È capace di desiderare o è solo lì per soddisfare i desideri di Theodore senza alcun limite o alcuna mancanza? La domanda, attorno a cui ruota tutto lo svolgimento del film trova un punto di svolta verso la fine quando Theodore scopre che Samantha non solo nel frattempo non stava avendo rapporti esclusivamente con lui, ma che proprio perché era un sistema operativo altamente sofisticato riusciva ad avere rapporti di enorme intensità con migliaia e migliaia di esseri umani nello stesso momento. Samantha non era «troppo oggetto», cioè troppo inanimata – come accade nei film di fantascienza distopici dove i computer hanno un surplus di crudeltà proprio perché deficitari dell’umanità che contraddistingue gli esseri umani – ma era troppo umana, era umana oltre l’umano stesso: nel senso che era in grado di intensificare l’umano – e la sua esperienza per eccellenza, ovvero l’amore – senza alcun limite o alcuna mancanza.

L’umano, inteso come quell’insieme di passione per il limite, per la finitudine, per la mancanza, il senso, ha in realtà nel suo cuore un nocciolo che rende inoperativa la sua stessa umanità 

Come dice Godani, la cosa essenziale è che «[Samantha], da un certo momento della sua esperienza conoscitiva in avanti, sia spinta a tradire, a lasciarsi alle spalle l’umanità come tale. Samantha è una coscienza che tende in modo molto più rapido della nostra e identificarsi con quella coscienza impersonale e infinita che è l’universo» (p. 58). Her, che è un film cinematograficamente modesto, rimane al livello del tipico umanesimo di tanta fantascienza: ovvero della detronizzazione dell’umano da parte di un dispositivo che va oltre l’umano stesso. Tuttavia il problema fondamentale che il film avrebbe dovuto porsi – e che rappresenta il filo rosso de La vita in comune – non è tanto quanto Samantha sia oltre l’umano, ma quanto al cuore dell’umano stesso – cioè in Theodore – vi sia un nocciolo inumano, o che per meglio dire, esprima un livello di ulteriorità rispetto all’umano. Cioè come l’umano inteso come quell’insieme di passione per il limite, per la finitudine, per la mancanza, il senso ecc. abbia in realtà nel suo cuore un nocciolo che rende inoperativa la sua stessa umanità.

La psicoanalisi è esattamente la messa in atto di questo dispositivo che tira fuori dall’individuo – e quindi dal suo senso, dalla sua passione per l’umanità – un nocciolo di pura materialità contingente e non significante. D’altra parte che cosa succede quando si va in analisi? Si va da uno psicoanalista per presentargli la cifra enigmatica di un sintomo che pure appartenendo al soggetto gli risulta incomprensibile. Il processo clinico – guidato dal transfert, che non è nient’altro che l’illusione data dalla supposizione di un sapere dell’analista – parrebbe essere la ricostruzione di un senso a questo sintomo: il sintomo cioè, dovrebbe essere riportato all’umanità del soggetto, ovvero al suo senso e alla sua comprensione. Tuttavia la psicoanalisi, e in particolare quella di tradizione lacaniana, rifiuta quest’idea e in particolare rifiuta che il sintomo possa essere in qualche modo riportato a una significazione (che poi non è altro, che riportarlo a una causa).

Un analizzante pensa (o in molti casi vuole) che il sintomo abbia una comprensione: vuole che la psicoanalisi produca un sapere; vuole insomma che l’umanità venga ripristinata. Ma l’umanità non può essere ripristinata e il senso non può essere reintegrato 

Un analizzante pensa (o in molti casi vuole) che il sintomo abbia una comprensione: vuole che la psicoanalisi produca un sapere; vuole insomma che l’umanità venga ripristinata. Ma l’umanità non può essere ripristinata e il senso non può essere reintegrato. La clinica psicoanalitica gioca allora con questa illusione di sapere da parte dell’analizzante per produrne invece la sua totale irrilevanza: un sintomo allora viene portato in analisi per essere interpretato, ma quell’interpretazione non viene mai validata dall’analista, perché non è mai quella giusta che esaurirebbe il sintomo; allora un’altra interpretazione viene proposta dall’analizzante, ma neanche quella è quella giusta, e allora un’altra viene proposta… e così via. Dopo molte interpretazioni fallite ciò che si finisce per isolare non è un’interpretazione che sia più vicina alla verità del sintomo, ma il fatto che il sintomo non abbia interpretazione, cioè che non abbia causa. Il sintomo viene allora al termine di questo processo esposto nella sua materialità inerte e non-ulteriormente-significabile.

Questa dimensione, che Jacques-Alain Miller definisce «osso di un’analisi», è il modo in cui il linguaggio viene ridotto alla sua dimensione in-significante di lettera; è il modo attraverso cui il bisogno di senso tipico dell’umanità e degli individui immaginari viene ridotto alla sua genesi fuori-senso e materiale. È il modo attraverso cui ciò che viene definito come più proprio e specifico di un individuo viene esposto alla sua causa materiale e comune.

Ha ragione allora Godani a dire che «l’essenziale non sta per nulla nel fatto che ognuno sia un individuo unico e irripetibile, ma semmai nel nostro essere ognuno un Theodore, una Samantha» (p. 61). Il problema è allora come sottrarre dall’individuo il suo bisogno di senso, la sua umanità, la sua individuazione immaginaria, per restituirlo alla sua pura contingenza, che vuol dire anche l’assenza di ogni causa e l’assenza di ogni senso. Come sostenere allora l’esperienza devastante della materialità inerte del significante? Il fatto che ciò che pensvamo di essere, attaccati a un significante che ci rendeva unici, è in realtà pura lettera? È questa la posta in palio materialistica e impersonale dell’esperienza psicoanalitica. E forse anche – al di là di tanta sociologizzazione e attualizzazione – la sua più grande possibilità politica.

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