Invocazione convocazione evocazione

Rituali trasformativi nella «Notte delle voci»

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Stefano Ricci in «Notte delle voci». Foto di Roberto De Biasio (2024).

Vi piace giocare con le mani durante la ricreazione, assaporare la sensazione dei polmoni pieni di canzoni, scandita dal battito delle mani. A modo tuo, cerchi di raccontare. Ti chiedi se sta succedendo anche a loro.
A. M. Brown, Pleasure Activism. La politica dello stare bene, vol. II, Nero (2023), p. 75.

Il suono non può identificare forse una specifica forma di vita, vale a dire la presenza di una presenza? […] la vita è rappresentata, percepita e definita attraverso tonalità e risonanze
B. LaBelle, Bioacustica. La vita attraverso il suono, in Id., Giustizia acustica Ascoltare ed essere ascoltati, a cura di P. Di Matteo, Nero (2023), p. 53.

CORO, il 77° ciclo di spettacoli classici al Teatro Olimpico di Vicenza con la direzione di Ermanna Montanari e Marco Martinelli (Teatro delle Albe), ha appena concluso il suo attraversamento 2024 portando con sé Meredith Monk, Theodoros Terzopoulos, Alessandro Serra, Giovanni Lindo Ferretti, Evelina Rosselli ed altre ed altri. Poi, un ringraziamento – così chiama il gran finale Ermanna Montanari salendo sul palco del Teatro Astra di Vicenza il 19 ottobre – la notte delle voci. Un movimento di risintonizzazione, un moto della grazia che si dipana nello spazio del teatro e nelle materie carnose delle e dei presenti, componendoci tutte e tutti, collegandoci e coinvolgendoci in un rito collettivo in formato concerto.

In fondo al palco, laterale, l’artista Stefano Ricci cancella il titolo della serata scritto con il gessetto e proiettato sul fondale, ricavandone, linea dopo linea, cancellatura dopo cancellatura, un orecchio e una parte di volto che gli sussurra qualcosa. È la voce. Come scrive Adriana Cavarero «Prima ancora di farsi parola, la voce è un’invocazione rivolta all’altro e fiduciosa in un orecchio che la accoglie»1. Siamo nella dimensione dell’attesa che fruscia i corpi, perché le voci ci convocano fisicamente, richiedendo presenza e ascolto. Così comincia questo «attraversamento di geroglifici», come lo chiama artaudianamente Ermanna Montanari prima di lasciare il palcoscenico ad artiste e artisti che si susseguono durante la lunga serata di oltre tre ore. Un districarsi temporale in cui la platea colma si lascia affascinare dalle molteplici relazioni vocali messe in atto. Una scaletta ricca: Abdullah Miniawy, Mariangela Gualtieri, Daniela Pes, R. Y. F. (Francesca Morello), Serena Abrami con Enrico Vitali, Ndox Electrique, Mara Redeghieri purtroppo non è potuta esserci mentre Ermanna Montanari propone un fuoriprogramma da Lus, concerto spettacolo del Teatro delle Albe.

Stefano Ricci a intermittenza segna nomi e titoli di tutti gli interventi cancellando e riscrivendo, spargendo aloni di gesso, componendo dei veri e propri riverberi visivi. Si comincia con Abdullah Miniawy, cantante, musicista e scrittore egiziano che presenta la danza del sentire. Un trio composto da due chitarre ambient con i loro molteplici processori a valle in interplay con la voce di Miniawy che passa da lunghi bordoni a spezzati fortemente ritmici, mentre il pitch della prima chitarra slabbra le atmosfere, il glitch della seconda balbetta una specie di solfeggio ritmico che anima visceralmente anche il vocalist che accompagna il dispiegarsi della voce con i gesti della mano. Dalla litania alle compulsive frasi ripetute mentre la pressione sonora diminuisce per sfociare in una distesa vocale, puro suono che si estende, sembra infinito, sembra arrivare da lontano, da quella primavera araba che ha visto Abdullah Miniawy impegnato in prima persona nella resistenza, ma è qui, così vicino da toccarci, coinvolgerci, avvolgerci, chiamarci. È un appello incessante che dal rap al drone, dal salmodiato alla vocalità con tutte le sue impurità ci fa presenti.

Cancellando e riscrivendo in una nebulosa di gesso Stefano Ricci ci avvisa della cattura del soffio, rito sonoro di Mariangela Gualtieri (co-fondatrice del Teatro Valdoca), un assolo che introduce la nascita di una voce, la «parola messa dentro una voce», dice Gualtieri, quella somiglianza per contatto che fa della voce il calco di un corpo dall’interno verso fuori, verso i nostri, rendendoci materia traspirante tra invocazione convocazione ed evocazione. Siamo nel rito e un passaggio repentino apre un varco liminale, dalla verbalità del soffio di Mariangela Gualtieri alla vocalità di Daniela Pes (premio Tenco 2023 per l’album Spira) con le voci di casa. Sono voci che superano la verbalità inventando un loro alfabeto, arcaico e futuro, che le ricompone e decompone, erodendo il discorso in favore dell’attenzione al gesto (vocale), esplodendo così il racconto in direzioni sfinite, mai cominciate. Il dicibile si fa il sonorizzabile, materia su materia negli incroci continui della musica elettronica agita da Pes. Ci mette le mani oltre che la voce, interrompe bruscamente per poi sorridere, riprendere, espandere.

Il rituale finora andato in scena viene scosso e ribaltato dall’electro-punk-wave di Francesca Morello, aka R.Y.F. (Restless Yellow Flowers), sciamana che ci inviata a «muovere i culi dalle sedie» citando l’anarchica e femminista russa Emma Goldman – «se non posso ballare, allora non è la mia rivoluzione». Nella scaletta sono molti i brani del nuovo album Deep Dark Blue che spingono allo spreco energetico felice, al pleasure activism che la musica di R.Y.F. pratica. Lies e Can I Can U su tutte. Il blu delle profondità oceaniche – in cui il suono corre più velocemente – è contatto continuo, è trasmissione di messaggi, l’ecolocalizzazione è prendersi cura. Una dimostrazione è la struggenza di December 25th, qui la verve punk si produce dall’interno, dall’attesa – waiting for you ripete nel testo Francesca Morello.

Big orchestra e big beat s’incontrano in Run run run, un ulteriore invito a resistere tutte assieme nello sfacelo che viviamo (c’mon faster now while the world slows down). Si tratta di sommuovere la terra che calpestiamo per farci infettare, riconoscerci per quel che siamo, una «rete di ecologie ambientali, sociali e affettive»2. La relazione ambientale si coglie anche nel titolo del set successivo – partitura di stagioni – presentato da Serena Abrami (vocalist e bassista) con Enrico Vitali (chitarra), membri della band Leda. L’indie italiano dei 90’s si fonde con la preoccupazione di quest’oggi frastornante – che spettri lasceremo a chi ci sarà dopo di noi? si/ci chiede Serena Abrami.

Il passaggio alla mezzanotte torna al rituale, quello dell’erba brucia (brusa) «della Bêlda¼» (Ubalda), la maga bianca che cura corpi e anime nel suo villaggio in Romagna, nella voce di Ermanna Montanari. È un breve estratto dal concerto-spettacolo Lus, pieno degli appena-cantati che «dischiudono l’ascolto delle cose del mondo e silenziosamente ne raccolgono e custodiscono le molteplici voci, ascoltandone l’irriducibile polifonia»3, così restituendocele, curandoci tutte e tutti. Il dialetto romagnolo arcaico – «una lingua di carne»4 per dirla con Ermanna Montanari – accentua sonorità altre ed inquietanti, le uniche che permettono a Bêlda di confessare un crimine e al contempo curare, di mescolare giustizia e passione in un’unica lacerazione (vocale) che fa del tatto la sua arma consensuale, «un ont ch’è’ fa ben par tot i dulur»5 come scrive Nevio Spadoni, autore di Lus.

I rituali di cura proseguono facendosi energetici con gli Ndox Electrique, collettivo nato dalla collaborazione tra François R. Cambuzat, Gianna Greco (Ifriqiyya Electrique) e la comunità n’doëp del Senegal. L’avant-rock si fonde con i riti di possessione n’doëp, tra il basso elettrico e la chitarra dei due, le ritmiche di Abdou Seck, la potente voce di Rokhaya «Madame» Diène, a cui si aggiungono le vocalità gutturali di François Cambuzat che dispone la voce tra le pieghe vestibolari in un canto difonico teso verso il basso, il materico, ciò che ci spinge ad essere altro per poter far esperienza dell’alterità. Gli Ndox Electrique agiscono il IV rituale Adorcism e la cura da soffio si fa magma tellurico pienamente ritmico facendo emergere quel che potremmo essere, un appello incessante alla disidentificazione, o come scrive Jean-Luc Nancy, «il modo attraverso il quale qualcosa – o qualcuno – si scarta da sé e lascia risuonare questo scarto. La voce non solo esce da un’apertura, ma è aperta in se stessa e su se stessa¼»6.

La notte delle voci, Teatro Astra, Vicenza 19 ottobre 2024
Direzione artistica: Ermanna Montanari, Marco Martinelli
Con: Abdullah Miniawy, Mariangela Gualtieri, Daniela Pes, R. Y. F. (Francesca Morello), Serena Abrami con Enrico Vitali, Ndox Electrique, Mara Redeghieri, Ermanna Montanari
Disegno dal vivo: Stefano Ricci

Note

Note
1Adriana Cavarero, A più voci. Filosofia dell’espressione vocale, Feltrinelli, 2003, poi Castelvecchi, 2022, p. 200.
2Rosi Braidotti, Il postumano. Vol. II. Saperi e soggettività, DeriveApprodi, 2022, p. 59.
3Enrico Pitozzi, Acusma. Figura e voce nel teatro sonoro di Ermanna Montanari, Quodlibet, 2017, p.
4Ermanna Montanari in Ivi, p. 197.
5Ivi, p. 134.
6J-L. Nancy, Vox clamans in deserto, in Id., Il peso di un pensiero, l’approssimarsi, Mimesis, 2009, p. 29.

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