La città di sotto

«Remoria» di Valerio Mattioli

DISSEZ DELIRIO
Dal volume «Il sapere che viene dai folli», a cura di Nicolas Dissez e Cristiana Fanelli (DeriveApprodi, 2017), immagine di Mario Coppola.

Remoria, la città invertita (minimum fax, in uscita in questi giorni), del bardo narratore metropolitano Valerio Mattioli, è una epica contro-storia di Roma persa nelle mirabolanti memorie dal sottosuolo di quella città di Remo che mai venne alla luce, eppure costantemente assediò, e tuttora assedia, le mura aureliane. Perché Remoria è anche, insieme a molto altro, una narrazione visionaria, estrema, spietata, entusiastica e poetica della nostra amata e odiata Roma e del doppio, nero e talmente distopico da diventare antitopico, di quella millenaria Roma rimossa, dismessa, dimessa e in definitiva invertita, appunto. Al punto da sovvertire l’imperiale e papalino centro con la periferica «borgatosfera» Casilina. «Remoria non è un destino che sottoterra attende, ma la stessa città, uguale e antitetica a quella di sopra» (p. 266).

Centralità della borgatosfera
E allora Remoria ci appare come «il» libro imperdibile, peculiare e universale al contempo, che aspettavamo da sempre. Da leggere tutto d’un fiato e da rileggere, centellinandolo, declamandolo in pubblici baccanali, oltre qualsiasi rave, al di là di qualsiasi degrado, metaforico o reale che sia, come il locale anni Novanta del Pigneto, con le sue dark room culla di quella oscuramente lucente rivista che fu Torazine, cui il nostro autore partecipò e perciò spesso evocata nel libro, come duratura traccia remoriana. Così potremo finalmente rileggere, con uno sguardo inedito e liberatorio, la mole immensa e ricchissima, a tratti un poco verbosa, certo dottissima, ma altrettanto spesso un poco tediosa, di libri «su Roma», sul suo centro, i suoi margini, la sua periferia. Si diceva: libro peculiare, poiché Remoria è la visione iperbolica e stupefacente, in tutti i sensi, del cerchio magico, l’uroboro di una città infeconda e sepolta, della «borgatosfera» depressa ed esplosiva, fatta col culo, che preme, slabbra, sforma il quadrato dispotico e disciplinare dell’Urbe eterna fondata dal fratricida Romolo: quella Romulia/Roma che sa di non poter esistere senza la «sua» Remoria.

D’altra parte, libro universale, poiché il sapiente affabulatore Valerio Mattioli fa precipitare in queste entusiasmanti 283 pagine i mille piani e sentieri interrotti di una (contro)storia di strada, musicale, filosofica, letteraria, cinematografica, fumettistica, negromantica di quella «borgatosfera» di sole nero e di collasso spazio-temporale presente-passato-futuro, interno-esterno-liminare, che cinge il sedicente, ordinato, decoroso centro cittadino. Proponendo una sorta di autobiografia collettiva, che parte dal suo arrivo a Torre Maura a sei anni, con al centro tutte le soggettività fuori fuoco, apparentemente marginali e minoritarie eppure centrali, di questa immensa e periferica provincia italica, tra i molti: il borgataro, il coatto, il cyborg, la teppa, i raver, i rimastini, Ranxerox di Stefano Tamburini immerso nella metropoli dei trenta livelli, tra Centocelle City Rockers e il freak tossico della Romanina. Impossibile anche solo sintetizzare la rigogliosa vena narrativa che attraversa lo scritto e la sua ricca bibliografia, riportata in fondo ai sette capitoli che compongono il libro.

Millepiani cinematografici
Si parte dalle inspiegabili origini, nell’ottobre del 1946, in piena ricostruzione post-bellica, nel nulla rupestre romano, della duchampiana e deleuze-guattariana macchina celibe del GRA, il Grande Raccordo Anulare che corre distante, in tondo a Roma, come uroboro centrifugo. Evocando di rimando quelle forze ctonie decisive nella fondazione della distante, piccola urbe originaria, nel 753 a.C., che a me ha fatto venire in mente il recente, gran bel lavoro cinematografico di Matteo Rovere Il primo Re, non solo nella rappresentazione della rude lotta fratricida tra Romolo e Remo, ma soprattutto nell’inascoltata, infeconda e sabbatica potenza della vestale Satnei, splendidamente resa, in una cupa e sanguigna luce nera, da una formidabile Tania Garribba.

E il libro è pieno di frammenti cinematografici, a partire dall’inevitabile evocazione di Accattone (1961), come fare altrimenti a non citare il santo laico, sommo cantore, delle borgate romane, a partire dal Pigneto, ancora una volta: «Non ho molta voglia di parlare di Pasolini. Eppure non posso non farlo» (p. 35). Perciò Mattioli si sofferma molto anche sul superbo omaggio musicale dei Coil, duo britannico di musica industriale, titolato Ostia (The Death of Pasolini), composto quasi negli stessi anni in cui, proprio ad Ostia, con scene girate non troppo lontano dall’idroscalo dove il poeta fu barbaramente assassinato nel 1975, prende forma quello che diventerà uno strampalato cult-movie come Amore tossico (1983) di Claudio Caligari, che ha conosciuto una infinita diffusione underground di videocassette passate di mano in mano. Per finire con il catastrofico, nichilistico, allucinato incedere de L’imperatore di Roma (1987), di Nico D’Alessandria, abbrutito, claudicante, devastato sovrano di Remoria.

Millesuoni negromantici
Quindi il cangiante filo rosso sonico di cui Mattioli è sapiente narratore, in prima persona. Dal recepimento borgataro del (post-)punk, di imberbi agenti del caos, Lollardi del Settantasette autonomo e no future, al protagonismo conflittuale della prima stagione techno di rave, feste e raduni, con riappropriazione di fabbriche e spazi abbandonati fuori-dentro al GRA, amplificati dalla potenza chimica, officiati dalle mille tribe, quindi da mostri sacri come Aphex Twin o da «figure paracristologiche» come Lory D e Leo Anibaldi, the sound of Rome. Quando la periferia di Roma era il centro del mondo tra spazi sociali che spuntavano ovunque, primissimi anni Novanta, «la pompa inaudita» e decine di migliaia di pischelle e pischelli sottocassa. Poi arriveranno i centri commerciali al posto dei capannoni occupati per intere settimane, vedi alla voce Castel Romano.

E in mezzo, descritta con una precisione che meriterà ulteriori spazi, perché riverbera nelle nostre esperienze vissute nelle mille periferie e provincie dove questo avvenne, l’emergere della sottocultura dark & goth. Che dagli anni Ottanta dell’Ottocento arriva fino a noi, ineffabile e ieratica, esoterica ed estetica. Così il triplo 6 che ai tempi accompagnava Torazine e sigillava i volantini di lancio di rave party in riva al lago di Manziana, con la segnalazione «dell’obiettivo strategico numero 1: abolizione del lavoro», riverbera ora nel triplo 7 della trap di Dark Polo Gang, le cui dilatate, ombrose e cangianti basi sono opera di Sick Luke, generazione 1994 e figlio di quel Duke Montana, che proprio a inizi anni Novanta, e proprio a partire da Ostia, rappava con Ice One. Il cerchio è di nuovo chiuso, intorno a Roma, dalla techno alla trap, perché «di schiavi, di negromanti, di amori infecondi, di morti che ritornano, di riti blasfemi, di sacerdoti-omicidi la storia della borgatasfera abbonda», ci ricorda Mattioli, quasi in chiusura (p. 274).

Non resta che far leggere questo formidabile libro alla doppia generazione di nostri fratelli e sorelle. La prima, che – a partire dagli anni Ottanta e pur stando nel centro dell’Urbe – non è mai riuscita ad andare oltre le giaculatorie post-pasoliniane, gli ascolti cantautorali, il piano quinquennale da bon ton brutalista-urbanistico. Ma quanta robba ve siete persi, eh!? La seconda, di giovanissime/i che queste Remorie dal sottosuolo le hanno già assorbite tra chiacchiere, birrette, scorrazzate metropolitane e trip video-musicali in perenne loop. Triplo sei e sette su ogni cosa!

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