La domanda irrisolta di Manfredo Tafuri

Architettura e operaismo

Claire Fontaine Untitled (No Present) 2013
Claire Fontaine Untitled (No Present), 2013.

Architettura e operaismo. Il tema, da qualche anno è tornato all’attenzione della critica. Certo, è una buona notizia. Se non altro perché rimette su saldi cardini politici buona parte del dibattito architettonico e restituisce all’assalto al cielo che le moltitudini tentarono nel lungo ’68 italiano tutta la sua forza di penetrazione, anche culturale. 

Architettura e operaismo. Il tema, da qualche anno è tornato all’attenzione della critica. Certo, è una buona notizia. Se non altro perché rimette su saldi cardini politici buona parte del dibattito architettonico e restituisce all’assalto al cielo che le moltitudini tentarono nel lungo ’68 italiano tutta la sua forza di penetrazione, anche culturale. Tuttavia, il tema è complesso. Appena approcciato ecco che subito si agita come una serpe tra le mani di studiosi troppo frettolosamente dediti a cercare continuità. Diciamolo subito: non basta restituire coordinate biografiche incrociate tra i vari protagonisti del dibattito politico e di quello architettonico.

È vero che buona parte delle neoavanguardie italiane degli anni Settanta hanno condiviso esperienze di militanza con i gruppi operaisti e post-operaisti: il Gruppo N, condivideva lo studio con la redazione di «Classe Operaia»; Alberto Magnaghi fu segretario di PotOp; la costruzione dell’Istituto di Storia dello IUAV di Venezia si lega, dopo il 1968, all’esperienza della rivista «Contropiano». Tuttavia per onorare la sfida che il tema contiene si dovrebbe, a mio parere, usare un doppio metodo: esser cauti con il secondo termine – operaismo – evitando di ridurlo agli esiti necrofili dell’autonomia del politico trontiana; e taglienti sul primo – architettura – per discernere cosa comportano le tesi sostenute sui «Quaderni Rossi», poi su «Classe Operaia» e «Contropiano», per la pratica del progetto.

Bisognerebbe mettere in gioco una serie di differenze: tra orientamenti estetici e teorici, tra politica e architettura e persino tra biografie individuali e percorsi professionali. Perché no? Si può essere militanti generosissimi e pessimi architetti. 

Ne verrebbe fuori una serie di rompicapi interessanti e ne guadagneremmo, credo tutti, in libertà di giudizio. Ad esempio si potrebbe arrivare a riconoscere – per ragioni che in questo breve intervento non possono essere sviluppate compiutamente – la totale estraneità di buona parte della produzione di Paolo Deganello – in particolare dopo la fondazione di Archizoom e fino all’insignificante Casa in Comune del 1983 – rispetto alla critica del lavoro intellettuale avanzata dalle riviste operaiste. O riconoscere il portato letteralmente regressivo, quando non esplicitamente reazionario, che la teoria del progetto locale di Magnaghi rovescia sulla comprensione dello spazio metropolitano contemporaneo. E ancora – spunto forse più difficile – si potrebbero scandagliare con disincanto le evoluzioni della ricerca di Manfredo Tafuri, senza predisporne destinalmente gli esiti tra il novecentismo di Aldo Rossi e gli scherzi dei radicals. Insomma: l’argomento è appassionante, ma andrebbe trattato facendo esplodere lo svolgimento lineare che sempre avvelena le storie della cultura. Piuttosto, bisognerebbe mettere in gioco una serie di differenze: tra orientamenti estetici e teorici, tra politica e architettura e persino tra biografie individuali e percorsi professionali. Perché no? Si può essere militanti generosissimi e pessimi architetti. O ottimi progettisti e però terribili reazionari. E poi, com’è noto, nella vita si può sempre cambiare idea.

Contro l’architettura assoluta

Mi pare si possa convenire con l’ipotesi per la quale il rapporto tra operaismo e architettura va ricavato essenzialmente dalla critica del lavoro intellettuale seminata in una ricca serie di saggi e articoli, soprattutto di carattere letterario, tra i primi anni sessanta e la fine degli anni settanta. Critica dell’ideologia, si diceva allora, congruente con le pagine più infuocate di quel capolavoro di intelligenza insorgente che è stato Operai e Capitale di Mario Tronti – evidentemente nella sua prima edizione e comunque a partire dagli originali dei capitoli, pubblicati sui Quaderni Rossi e Classe Operaia. La fondamentale Verifica dei poteri di Franco Fortini e la decostruzione del populismo che Asor generosamente svolge nel 1965 e poi la potente macchina da guerra ch’egli mette in opera contro ogni assolutismo formale nei suoi articoli su Mann e il giovane Lukács, come persino la Wertfreiheit di Massimo Cacciari, almeno in alcuni suoi aspetti, sfociano tutte in una critica generale della fenomenologia dell’arte borghese destinata ad avere un impatto potente sul dibattito architettonico, soprattutto grazie al lavoro di Manfredo Tafuri.

Si scopre a questo punto quanto odioso fosse il presentarsi degli intellettuali progressisti come latori metafisici di ordine e armonia nel mondo. Come anche: quanto infondati fossero i loro linguaggi. 

L’arte, la letteratura, l’architettura esistono solo come discipline integrate nello sviluppo capitalistico. Il lavoro intellettuale è completamente sussunto nel ciclo capitalistico. Non troviamo lo stesso argomento nelle poderose Tesi sul rapporto generale di intellighenzia scientifica e coscienza di classe proletaria che Hans Jürgen Krahl pubblica nel 1969? Si scopre a questo punto quanto odioso fosse il presentarsi degli intellettuali progressisti come latori metafisici di ordine e armonia nel mondo. Come anche: quanto infondati fossero i loro linguaggi. Negli stessi anni, Manfredo Tafuri scatenava il suo spirito distruttore contro l’«illusione reazionaria» che vuole «restituire dignità professionale ad intellettuali degradati»1. Il lavoro culturale attraversa una profonda esperienza di proletarizzazione e si scioglie nel nesso ormai inscindibile con i meccanismi del capitale sociale. Mentre d’altra parte si manifesta l’esigenza di ripensare il progetto di architettura come strumento di intervento – funzionale agli interessi di classe – sulle crisi del ciclo complessivo.

Si riconoscerà in questi passaggi un debito teorico verso il Walter Benjamin costruttivista – forse il più felice, certo il meno vicino al messianismo del periodo tardo: l’autore è un produttore; ciò che l’opera d’arte «dice» dei rapporti di produzione – se essa sia in accordo con essi e quindi reazionaria o se si sforzi di sovvertirli in quanto rivoluzionaria – è secondario; mentre invece fondamentale si rivela la funzione dell’opera «all’interno» dei rapporti di produzione2. Nel dismettere tutte le litanie sul declino della cultura, come ha acutamente sottolineato Jacques Derrida, la ricerca poteva riaprirsi su un continente sconosciuto: l’integrazione del sapere nel ciclo produttivo – il capitale come General Intellect – comporta infatti sempre la possibilità di «trasformare la struttura stessa dell’apparato, di torcerlo e tradirlo, di attirarlo al di fuori di se stesso, dopo averlo imbrogliato, averlo morso»3.

L’arte che abbia meditato sui rapporti di produzione non proclama «rinnovamenti spirituali», non si nasconde nelle fetide torri d’avorio della sua autonomia, ma – secondo Benjamin – «progetta l’innovazione tecnica» necessaria «a promuovere la socializzazione dei mezzi di produzione». Tale approccio, una volta calato nel dibattito architettonico, evidentemente impattava su due fronti: «da una parte – ha scritto Asor Rosa – contro quel pensiero architettonico che, proponendosi come ideologia e strumento di una civile convivenza, si offre in realtà come braccio secolare del piano capitalistico; dall’altra, contro quel pensiero architettonico che, a partire da certi settori dell’organizzazione proletaria urbana […] elabora una “ideologia alternativa”, tutta sottomessa anch’essa alle direttrici portanti dello sviluppo capitalistico, oltretutto in questa seconda versione necessariamente male inteso»4. Infinite distanze, a questo punto, si disegnano rispetto alle derive iconiche dei vari Archizoom e Superstudio, come anche rispetto ai maestri dell’architettura italiana. Di queste distanze Manfredo Tafuri è stato interprete acido e inquieto.

Contro le isole utopiche

Pier Vittorio Aureli ha giustamente sottolineato che il bersaglio fondamentale della critica di Tafuri era l’architetto come costruttore di immagini delle condizioni urbane. L’autore, potremmo dire, ancora costretto nella casa del linguaggio, che riproduce astrattamente i conflitti del ciclo capitalistico, senza tuttavia riuscire ad agire sul concreto dello sviluppo metropolitano. Sulla scorta della ricerca operaista, Tafuri capisce che la metropoli non è più una forma, ma un processo di produzione, una catena di montaggio nel quale l’oggetto architettonico è divenuto integralmente sovrastrutturale. Da questa intuizione nasce la formidabile critica alla gestione socialdemocratica della città nella Repubblica di Weimar e nella Vienna Rossa precedente l’Anschluss, che ritroviamo tra le pagine di Contropiano. In particolare, Tafuri decostruisce l’ideologia del lavoro del movimento operaio tedesco e l’approccio neokantiano dell’urbanistica austromarxista per ricentrare l’attenzione sul ciclo economico come terreno di opposizione diretto tra operai e capitale. Un terreno che nessuna utopia riformista è disposta a concedere.

Non stupisce allora la critica serrata che Tafuri, pur apprezzandone le qualità formali, svolge del Karl Marx Hof di Karl Ehn – architetto, ricordiamolo, vergognosamente convertitosi al nazismo dopo il 1934. L’enorme superblocco dedicato al Moro, dice Tafuri, è una dimostrazione polemica di autonomia dell’operaio massa viennese contro la metropoli borghese. Un monumento di epica operaia, non a caso tanto caro a Mario Tronti, il quale ha voluto vedervi la materializzazione dello stato d’eccezione proletario. Aureli esalta l’ipotesi trontiana: proprio in ragione dell’isolamento di Vienna, non si poteva che optare per un arcipelago di architetture isolate che punteggiano l’ambiente costruito senza intervenire sul piano generale. Gli Höfe rappresentano quindi un insieme di contingenze formali disgiunte dal processo economico complessivo della metropoli e quindi polemicamente rivolte contro di esso. Monumenti, appunto, di quel politico autonomo di cui Tronti ha a più riprese intonato il peana, fino a confonderne il rosseggiare con le oscurità di un grande secolo al tramonto.

Perché allora Tafuri è così ingeneroso verso le megastrutture socialiste? Nei suoi saggi su Vienna Rossa, in effetti, lo storico dello IUAV ha stigmatizzato il carattere anti-urbano degli Höfe, l’utopia regressiva che risolve in espressionismo i contrasti sociali, la sostituzione delle lotte operaie nella metropoli con l’etica della democrazia residenziale, l’incapacità di leggere le direttrici dello sviluppo capitalistico e le sue interne contraddizioni. In quei saggi l’analisi del pensiero della Krisis traduceva l’infondatezza del razionalismo architettonico in necessaria potenza costruttiva: il linguaggio doveva risolversi in progetto. Sono forse tra le poche pagine davvero debitrici – e felicemente – della critica operaista. Infatti, non solo Tafuri non mostra indulgenze verso quegli architetti, ma ne sottolinea lo scollamento dai movimenti di classe:

«Può essere quindi il caso di ricordare – scrive su «Contropiano» – che nel 1927, a un anno di distanza dall’inizio della costruzione del Karl-Marx-Hof, a seguito di una sentenza assolutoria pronunciata nei confronti di rappresentanti dell’organizzazione di estrema destra Frontkämpfer, assassini di alcuni operai, la protesta del proletariato democratico esaltato negli Höfe comunali si concluderà con il ferimento di mille operai, la morte di 85 di loro e l’incendio del palazzo di Giustizia»5

Dice Tafuri: ci si può sempre lasciare andare in piagnistei sentimentali sulla caduta delle roccaforti rosse dell’architettura europea, come si può esaltare la resistenza operaia contro le camice brune che ebbe proprio nel Karl-Marx-Hof l’ultimo bastione. Ma il problema posto da quella vicenda è più complesso: «non v’è frase più esplicita della frattura oggettiva fra la politica austromarxista e la realtà della situazione di classe, che quella pronunciata da uno degli operai di Anna Seghers: il Karl Marx Hof non è rovinato, è vero, lui ce l’ha fatta, ma la nostra fede nel partito… quella si è sfasciata». Gli Höfe sono monumenti della distanza tra partiti socialdemocratici e soggettività antagoniste. In questo forse davvero tragicamente coerenti con il politico trontiano. Questioni, evidentemente che ci interessano da vicino ancora oggi.

Se c’è un lato del progetto architettonico che più si presta a essere assorbito nel circuito di valorizzazione, esso è proprio quello del formalismo che si pretende autonomo dal reale. La storia della Vienna Rossa dimostra l’ambiguità di tutti i progetti volti a inserire schegge di umanità costruita, come fossero eventi assoluti, nel tessuto della metropoli capitalista 

La politica dopo il formalismo

Su questo punto l’importante ipotesi di lavoro di Aureli si spezza. La continuità con le neoavanguardie e Aldo Rossi è possibile solo passando dal tardo Tronti. Non è strano: gli scritti di Contropiano e i saggi di Aureli rispondono ad esigenze diverse. La speranza nella possibilità di un’architettura assoluta di Aureli si fonda sul recupero di un impossibile isomorfismo tra autonomia del politico trontiana e autonomia del progetto6. Egli intende promuovere un’architettura fatta di elaborazione e montaggio di forme singolari ancora allusive e significanti. La critica dell’ideologia culturale di matrice operaista invece, dimostrava che lavorare per frammenti – certo meglio i bei frammenti di Aureli che gli umidi loci della nuova ecosofia urbana di Magnaghi – significa esattamente lavorare sempre e solo in direzione dello sviluppo capitalistico. In altri termini: se c’è un lato del progetto architettonico che più si presta a essere assorbito nel circuito di valorizzazione, esso è proprio quello del formalismo che si pretende autonomo dal reale. La storia della Vienna Rossa dimostra l’ambiguità di tutti i progetti volti a inserire schegge di umanità costruita, come fossero eventi assoluti, nel tessuto della metropoli capitalista. Gli Höfe sono interruzioni critiche, dice Tafuri, che non riescono mai a diventare un gioco di trasformazione reale.

D’altra parte, però, la questione posta da Tafuri non comporta nessuna indifferenza verso l’analisi estetica. Al contrario: il lavoro sulla forma ha ancora importanza, tanto più in un regime di piena astrazione del lavoro come quello biopolitico. Il capitalismo cognitivo, infatti, lavora soprattutto formalmente. Si dovrebbe allora ricostruire una storia del formalismo nel XX secolo, «prenderne le misure come potenza di trasformazione, liberarlo come forza d’innovazione e luogo del pensiero» come invitava a fare Foucault nel 19827. Ma ciò significa in primo luogo scartare ogni pretesa di restaurazioni inutili oltreché odiose per riconoscere finalmente che, se «la battaglia attorno al formale è stata uno dei grandi tratti della cultura del XX secolo», oggi si tratta di fare un passo oltre, attraversarne gli schermi e coniugare progetto e politica, linguaggio e sperimentazione pratica. E rispondere così, alla domanda irrisolta di Manfredo Tafuri.

Note

Note
1M. Tafuri, Lavoro intellettuale e sviluppo capitalistico, «Contropiano. Materiali marxisti», 2, 1970, pp. 241-281.
2In W. Benjamin, Avanguardia e Rivoluzione, Einaudi 1973.
3J. Derrida, La Vérité en peinture, Flammarion, 1978, pp. 172-173.
4A. Asor Rosa, Critica dell’ideologia ed esercizio storico, «Casabella», 619-620, 1995, p. 30.
5M. Tafuri, Austromarxismo e città. Das Rote Wien, «Contropiano», 2, 1971, p. 311.
6 Cfr. P.V. Aureli, Il progetto dell’autonomia. Politica e architettura dentro e contro il capitalismo, Quodlibet 2016 e Id., The possibility of an absolute architecture, MIT Press 2011.
7M. Foucault, Pierre Boulez, l’écran traversé, in M. Colin, J.P. Leonardini, J. Markovits (a cura di), Dix ans et après. Album souvenir du Festival d’automne, Messidor 1982, pp. 232-236.

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