La nave del desiderio
Che cos'è un'OperaViva?
Le domande a volte evocano traduzioni, non risposte. Infatti non saprei dire esattamente cosa è una OperaViva, ma saprei dare qualche indicazione, saprei significare qualche traccia, saprei tradurre ciò che questo insieme di parole evoca e suscita, come un brusio che risuona nella mia esperienza sino a trasformarsi in un insieme di nuove parole, parole incarnate.
Opera Viva mi rimanda subito, nell’immediato, a Carla Lonzi, a quel suo progetto denso e fitto di vita, lavoro e femminismo che mirava, attraverso la scrittura dell’esperienza, a fare della propria vita un’opera d’arte. Ma Opera Viva per me è anche Hannah Arendt di Vita Activa, una delle prime donne filosofe ad aver trovato le parole per declinare in altra forma ciò che chiamiamo lavoro ed infine Opera Viva è la mia stessa vita fatta di studi sociologici, filosofici e giuridici.
Viva solo se riesce ogni volta a trasformare un bisogno di conoscenza, scoperta, ricerca, in un desiderio, in qualcosa che coinvolge tutta la vita, baipassando la frattura nevrotica della scissione tra l’essere e il dover essere. Perché è solo così che si fa Opera e insieme vita. Opera Viva, dunque, per me è insieme di parole femministe, sociologiche e giuridiche.
Femministe perché attraverso l’esperienza il pensiero prende forma nel linguaggio producendo trame impreviste e tagli nel pensiero astratto e oggettivato che fanno la differenza; sociologiche perché è impossibile pensare l’ordine sociale senza il suo disordine, ovvero quella relazione-conflitto tra attori sociali che genera e rigenera i mondi trasformandoli perennemente; giuridiche perché al di là del diritto-tecnica dei positivisti e del proceduralismo delle democrazie neoliberali, v’è anche un’altra idea sorgiva e vivente che genera e rigenera l’esperienza giuridica: lotte per la giustizia, fonti, consuetudini. Quando penso al presente, al nostro presente politico, l’immagine che mi arriva per prima è quella di una tabula rasa.
L’immagine seconda, invece, è quella di un’onda. La prima evoca tristezza, sintomatologie nella fabbrica del soggetto neoliberale, della società della prestazione basata su forme di agire performativo orientate al successo, corpi scissi, a tratti disperati. La seconda evoca cambiamento, rottura, inondazione, nuova linfa, scossone. Opera Viva, appunto. O forse sarebbe più semplice dire: desiderio. Ma è possibile assumersi solo la seconda immagine senza mai aver attraversato la prima? Può davvero esserci l’evento senza mai aver lavorato la tristezza di un tempo buio?
Anche qui è difficile rispondere se non ripensando il mezzo, la misura, ciò che sta tra una cosa e l’altra, ciò che in termini psicoanalitici potremmo definire come l’elaborazione di un lutto. Non si tratta, dunque, almeno per me, immaginare semplicemente una Opera Viva che sostituisce, rimuovendo, quella morta. L’immagine, questa volta, vorrei che fosse un’altra. Vorrei, desidererei, che Opera Viva fosse una pagina sempre aperta, un zigzagare tra ciò che è morto e ciò che rinasce. Non una riesumazione, non un architrave di parole che si ripetono ab eternum ricombinandosi, ma un’opera, appunto. In altre parole vorrei che fosse la nave del desiderio.
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