La vita non finisce

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Quando avevo cinque anni abitavo con mia madre, con un pappagallo di nome Mozzarella, con delle balene di un documentario in vhs. Con noi c’era anche Franco Battiato. Stavamo in una mansarda che sembrava parlasse solo al cielo, a volte arrivava mio nonno con la pasta fresca, ma di lui mangiavamo soprattutto i sorrisi che avevano la stessa trama semplice di quelle canzoni che al giorno davano sostanza e alla sera l’incantesimo.

Mi pare di ricordare che a volte fosse proprio Battiato a guidare la fiesta blu lanciata verso la prima elementare, mi diceva che cercava un centro di gravità permanente, per non cambiare idea sulle cose e sulle persone. Lo cercavo anche io allora con lui, perché gli presumevo l’assoluta sapienza nel dettarmi i bisogni, lui che a Pechino, era andato a raccogliere le ortiche di maggio. Teresa De Sio era una amica di mia madre, vera come si suol dire, a differenza di Battiato. Lo vedeva anche lei e soprattutto la sua chitarra che lo cantava. Insomma eravamo tutti d’accordo che il mondo è solo per metà in superficie, solo per metà si mostra. Il resto accade in certi sotterranei che non si possono dire: era questo il segreto del suo vulcano siciliano, gemello del mio personale vesuvio, stagliato nel punto più lontano dell’orizzonte della mansarda. Quanto Sud, un Sud che è come quei frutti troppo maturi caduti a terra per il peso della loro ricchezza. Che danno tutto nello spreco del loro talento, inni di inoperosa essenza. Tutto accadeva ma era immobile nelle controre che abbiamo passato insieme, sui sassi roventi e «le lucertole attraversano la strada, com’è diverso e uguale il loro mondo» dal nostro.

Non saremmo stati gli stessi senza Battiato. Non avremmo avuto gli occhi pieni di altrove, sapremo meno di Tozeur, ancora meno dell’amore. Non avremmo saputo dire lo sdegno senza cedere al lamento. Inveendo saremmo, forse, divenuti addendi nella moltiplicazione dell’impoetico invece di spargere mitezza e maestosità nello stesso seme di rosa incolta. Quanta umanità, e che privilegio.

Sei stato i viaggi che non abbiamo fatto. San Pietroburgo ci ha consumato le suole in mezzo a quei cumuli di neve che disintegravi come fuochi di mitra. Guardavamo lo spettacolo del mondo insieme, che fossimo sui gradini della chiesa della prospettiva Nevski o a Tunisi, con i suoi alberghi sempre pieni per le vacanze estive. Ci siamo arresi, abbiamo proclamato arrivato il tempo di prendere le armi, abbiamo fatto campagne di reclutamento, che rispondessero al più presto tutte le lucciole che stanno nelle tenebre.

Eri tu quel maestro che insegnava come trovare l’alba dentro l’imbrunire? Mi è sempre sembrato di si mentre apprendevo il tuo passo, quel «muoversi come ospiti, pieni di premure, per non disturbare». Che mi hai chiesto se ero stanca, che mi hai visto le mie borse sotto gli occhi quando abitavo a Berlino est. Eravamo ad Alexanderplatz, e ti dico Auf Wiedersehen, ma non piango: cantarti per sempre è la nostra eternità.

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