L’assemblea permanente
Piero Gilardi: divisione sociale del lavoro e nuove forme di vita
Si apre domani al MAXXI (13 aprile, ore 18.00) Nature Forever, una grande mostra monografica dedicata a Piero Gilardi a cura di Hou Hanru, Bartolomeo Pietromarchi e Marco Scotini. Cinquant’anni di attività tra arte, critica e politica. Anticipiamo qui un estratto del saggio di Marco Scotini dal catalogo edito da Quodlibet a cura di Anne Palopoli.
La promessa non mantenuta
Si dice che nella primavera del 1969 due pietre miliari nella storia delle mostre definiscono un nuovo statuto per l’arte contemporanea: nelle sue forme di produzione e ricezione, nelle sue assegnazioni di ruoli, nei suoi modi d’essere. Divenuta mitica l’una e caduta nell’ombra l’altra, le mostre When Attitudes Become Form e Op Losse Schroeven riemergono oggi come il doppio ingranaggio di una stessa macchina espositiva che avrebbe segnato uno spostamento paradigmatico nella definizione dell’arte e delle sue relazioni istituzionali. Il mutamento radicale che entrambe le mostre avrebbero promosso non s’identifica solo con il carattere sperimentale dell’arte degli anni Sessanta ma anche con la possibile risposta alle spinte sociali centrifughe e libertarie, così come ai movimenti politici, del ’68.
Aperte a distanza di una settimana l’una dall’altra e capitanate rispettivamente da Harald Szeemann e Wim Beeren, le due mostre parallele della Kunsthalle di Berna e dello Stedelijk Museum di Amsterdam, pur nelle rilevanti differenze, coinvolgono più o meno gli stessi artisti (al di qua e al di là dell’Atlantico), adottano la stessa strategia allestitiva (informale e caotica) così come la stessa configurazione spaziale. Danno forma, infine, a quella tendenza artistica postminimalista, poverista e concettuale che sarà destinata a rimanere egemonica negli anni a venire.
Ma se tale storia è conoscenza acquisita, meno noto è il ruolo chiave che Piero Gilardi avrebbe giocato al loro interno, nonostante le riletture che recentemente ne hanno fatto Christian Rattemeyer, da un lato, e Robert Lumley, dall’altro. Se si trattasse però di restituire ad un artista come Gilardi il solo ruolo di advisor delle due mostre ci allontaneremmo molto sia da una ricostruzione storiografica corretta, sia da un’adeguata formulazione del problema teorico che la sua partecipazione al processo comporterebbe. Al contrario, il recupero di questa genealogia apre a tutta una serie di domande imprescindibili non solo sulla figura di Gilardi (nella sua complessità e potenzialità) ma, più ampiamente, sui modi concreti con cui i dispositivi culturali e le industrie creative si calano – allora come ora – nel vivo dei rapporti di produzione: con le strategie di valorizzazione che mobilitano e le forme di controllo che legittimano. Oppure, più precisamente, con le relazioni di potere che istituiscono o di cui diventano oggetto.
Qual’è, dunque, il senso attuale della riaffermazione della forza propulsiva di Piero Gilardi all’interno di questo processo? Quali sono gli interrogativi che, attraverso il recupero della sua esperienza, sarebbero rimessi in campo? Quali le certezze che ne sarebbero intaccate? Il dato storico in quanto tale, non avrebbe alcun significato se non riuscisse a trasformarsi in fattore paradigmatico e, cioè, in un appello allo spostamento (se non al rovesciamento) dei canoni interpretativi correnti.
Di fatto, gli anni tra il ‘67 e il ‘69 sono quelli in cui Gilardi lascia la produzione dei suoi celebri tappeti-natura e, con essa, l’approccio oggettuale all’arte, in pieno accordo con i processi di de-materializzazione che allora si andavano definendo. La febbrile funzione catalizzatrice e teorica, che si sostituisce ora alla precedente attività dell’artista torinese, non interrompe però l’esercizio della sua dimensione creativa. Piuttosto, questa nuova iniziativa lo vede passare da inventore di forme a quello di formazioni: con spazi deputati che le accolgono (il Deposito d’Arte Presente di Torino è uno di questi) e nomi propri che le designano (la definizione “arte micro-emotiva” ne è un esempio). I viaggi tra New York e la West Coast, tra la Svezia e l’Olanda, tra la Germania e l’Inghilterra, così come la corrispondenza con la neonata Flash Art o le pubblicazioni per la rivista americana Arts Magazine, la svedese Konstrevy e la francese Robho, sono gli strumenti di questa nuova fase creativa. In questa ampia costellazione artistica Harald Szeemann è l’ultimo protagonista che Gilardi si trova ad incontrare, dopo aver raccolto attorno a sé a Torino la giovane comunità cosiddetta poverista e dopo aver contratto rapporti con artisti olandesi come Marinus Boezem e Ger van Elk, nonchè con il curatore Wim Beeren. Come ricorda Jan Dibbets, “Gilardi aveva parlato a tutti noi prima [del contatto con Szeemann] ed era interessato ad unire un gruppo di artisti. Ha giocato un ruolo chiave dicendo che tutti avremmo dovuto collegarci, unirci in vista di un diverso approccio all’arte – cambiando il modo in cui l’arte veniva venduta, sfidando il sistema della galleria e del museo”. Anche per Marinus Boezem era stato proprio Gilardi “a preparare le menti per Op Losse Schroeven in Olanda”. In effetti, la prima stesura del progetto che Wim Beeren presentò al direttore dello Stedelijk Museum nel dicembre 1968 aveva un titolo come Criptostrutture e Microemozioni che era direttamente tratto dal concetto di arte microemotiva formulato dall’artista torinese.
Il testo di Gilardi Primary Energy and the Microemotive Artists era stato infatti pubblicato in settembre in Arts Magazine, mentre la versione olandese Microemotive Art era comparsa nello Stedelijk Museumsjournaal con l’introduzione di Ger van Elk. In italiano, invece, sarebbe apparso molti anni più tardi. La cornice concettuale attraverso la quale Gilardi leggeva artisti diversi – da Nauman a Hesse, da Long a Merz, da Boezem a Zorio – si fondava sulla dimensione molecolare del movimento, sull’imponderabilità dell’energia, sull’allargamento percettivo, sulla messa in crisi di quel primato della visibilità che era stato l’elemento chiave del modernismo. Una condizione nuova si affacciava: quella che avrebbe permesso l’apertura ad un’azione creativa totale svincolata tanto dagli oggetti che dai segni. Come pure una partecipazione definitiva alla realtà nella promessa ricombinatoria di arte e vita. Individuare il sottile rapporto energetico tra una cosa e la negazione delle cose significava, per Gilardi, eleggere a proprio strumento l’indeterminatezza tra forma e azione. Che in tale modalità l’energia primaria si contrapponesse alle strutture primarie così come la micro scala emotiva alla macro scala della inazione monumentale dell’entropia (proposta da Robert Smithson), era una consapevolezza che si andava affermando.
Tuttavia il debito contratto da Wim Beeren nei confronti dell’artista torinese sarà reso noto dal suo saggio in catalogo così come dal testo Politica e Avanguardia, che Gilardi scriverà per la stessa pubblicazione. Mentre chi rimuoverà totalmente il coinvolgimento emblematico di Gilardi dalle fasi preparatorie di When Attitudes Become Form sarà lo stesso Szeemann, a seguito di un sostanziale disaccordo sulla gestione della mostra, i termini politici del quale si ripropongono oggi – in tempi di regime finanziario dell’arte – in tutta la loro radicalità. In una nota di fine novembre 1968 Szeemann appuntava nel suo diario: “La notte di discussione alla casa di van Elk non riguarda la necessità dell’esposizione quanto il modo in cui questa dovrebbe essere realizzata. Gilardi voleva vedere l’intera cosa come un’assemblea di artisti, da cui l’esposizione sarebbe poi emersa naturalmente: nessuna spedizione, nessun mercante d’arte, piuttosto i risultati dei dibattiti tra gli artisti, e un’autocritica del museo in quanto istituzione. Il titolo della mostra dovrebbe essere il meno impegnativo possibile, non un’ultima tendenza che postuli di nuovo un movimento”.
Come è noto le attese saranno totalmente tradite e le supposte forme di autoproduzione collettiva della mostra sfoceranno nel loro esatto opposto: in un’economia d’impresa, con il finanziamento privato del brand Philip Morris e il coinvolgimento di un dealer come Leo Castelli. Altrettanto noto è il fatto che la scelta del curatore svizzero servirà da vero e proprio detonatore per Gilardi che, in perfetta consonanza con le istanze del ’68, sarà costretto a rivedere tanto il proprio ruolo che gli esiti del movimento d’avanguardia che lui stesso aveva contribuito a configurare. Non solo ritirerà il proprio nome dall’iniziativa ma abbandonerà lo stesso sistema dell’arte, per poi passare ad una più diretta azione dentro la vita. Lontano dal rimanere circoscritta ad una sola figura, la crucialità dell’evento andrebbe finalmente letta in tutta la sua portata politica, che tutt’ora non cessa d’interrogarci. Può il gesto di Gilardi essere ancora considerato una cesura nel suo percorso o va piuttosto interpretato come forma d’emancipazione o come continuazione creativa in forma differente? Dove sta la radicalità di un’arte presunta tale? Può l’arte essere svincolata dai rapporti materiali di produzione, così come la produzione dalla sua gestione? Possono i mezzi di produzione non intaccare le stesse produzioni artistiche? Le sperimentazioni semiotiche e le innovazioni semantiche possono – comunque – rimanere uno spazio esterno e autonomo rispetto alle industrie creative? Nonostante i numerosi tentativi di esodo e defezione dal sistema dell’arte, già fatti in precedenza da Gilardi una volta giunto a notorietà con l’abbandono della Galleria Sperone e della Galleria Sonnabend, anche in questo caso l’artista doveva chiudere il nuovo percorso con l’amara constatazione dei limiti che il capitalismo pone al soggetto e alle sue possibilità d’azione. Visto che le micro-rotture, le micro-libertà vengono poi riassorbite dalla dimensione molare dell’istituzione pare non esserci altra soluzione: “l’arte deve restare arte, magari un po’ folle e arrogante, ma non diventare vita”.
Dall’arte microemotiva alla microfisica del potere
Interpretare il dualismo arte-vita in un’accezione vitalistica e, cioè, come un’eccedenza o un flusso che si contrappone all’inerzia della rappresentazione è totalmente insufficiente (se non fuorviante) rispetto alla ricerca radicale di Gilardi. Se così fosse rimarremmo all’interno di un’estetica ‘poverista’ che non è la sua. Con Gilardi l’antagonismo del binomio arte-vita non si pone tanto all’interno di un momento determinante dell’esistenza moderna, quanto entro un momento ulteriore del dominio del capitale. Dietro la critica a un divenire ridotto ad immagini, dietro la scelta diretta del vissuto e non più del rappresentato, c’è il conflitto in atto tra le forze produttive della società e i rapporti di produzione. La separazione tra tali forze e ciò che esse possono emerge sempre più netta con il ’68. Gilardi è tra i primi a riconoscere lucidamente che l’arte si trova completamente all’interno del processo produttivo e che non è una esteriorità data alle relazioni di mercato. Lì dove non c’è più differenza tra pratica artistica e azione, come nell’arte micro-emotiva, la reificazione in segno e cosa sembrerebbe impossibile.
Ebbene, anche lì risulta impraticabile portare l’arte alla vita: abbiamo pur sempre a che fare con uno spazio che prima va decolonizzato. Per questo il processo di cattura e integrazione messo in atto da When Attitudes Become Form e da Op Loss Schroeven (ma anche da Arte povera più azioni povere di Amalfi), così come l’asservimento volontario degli artisti d’avanguardia assumono agli occhi di Gilardi il carattere del fallimento e della controrivoluzione. Sono pagine di un’attualità insospettata quelle con cui Gilardi denuncia la unidimensionalità del sistema artistico e la degenerazione del fenomeno. Sembrano un’anticipazione dell’analisi del cognitariato contemporaneo, nel loro comprendere che il potere trova una sua ragion d’essere economica non nel mercato (o nella vendibilità del prodotto) ma nel controllo della produzione come tale. “Così l’establishment artistico nel suo insieme – scrive Gilardi in Robho – realizza un saldo controllo sociale dell’arte d’avanguardia occidentale; il sistema sociale del welfare state ottiene con il piccolo deficit del business delle gallerie il controllo ideologico della potenzialità eversiva dell’arte d’avanguardia; gli strumenti di questo controllo […] sono il finanziamento degli artisti, ma soprattutto la manipolazione dell’informazione artistica e l’inquadramento sociale degli artisti”. Risulta subito chiaro a Gilardi come i dispositivi istituzionali abbiano il compito di separare le funzioni creative dai loro concatenamenti sociali per integrarli, neutralizzandone le spinte, nel controllo esercitato dall’apparato culturale. Un apparato che ha tutto l’interesse nel sostenere una produzione semiotica che, pur negandola nella forma, mantiene intatta nella sostanza la valorizzazione capitalistica.
Il suo fallito tentativo di istituire una relationship globale per collegare gli artisti in un circuito alternativo deriva tanto dal personalismo dei soggetti implicati che dal corporativismo del progetto stesso. Infatti si riteneva possibile contrapporre un’organizzazione artistica autonoma al sistema del mercato, rimanendo però circoscritta al campo dell’arte. Al contrario si sarebbe dovuto cambiare la vita per potervi far entrare l’arte, prendendo parte attiva alle lotte politiche e alle insurrezioni sociali. Questa convinzione porta Gilardi ad altre forme di associazionismo che lo vedono militare di volta in volta nel movimento studentesco, nella contro-informazione, nella realtà manicomiale, nelle fabbriche, nei quartieri popolari. Condurre simultaneamente tanto l’esperienza politica che quella artistica, senza subordinare l’una all’altra e senza abbandonare l’una per l’altra, è il compito prioritario di una nuova realtà creativa che accantona sempre più il suo carattere emblematico per favorire quello anonimo e relazionale. Emerge tutta una produzione artistica svolta in funzione della lotta politica che affianca la grafica (fumetto operaio, tazi bao, pamphlets, striscioni) all’animazione artistico-terapeutica negli istituti psichiatrici come il Centro di Lavoro protetto femminile di Torino, ai murales urbani con il Collettivo La Comune, al teatro di strada nei cortei pubblici del 1° maggio, alle feste di quartiere e alle attività socializzanti per anziani al borgo Aurora. Diciamo che in questo passaggio la gommapiuma, quale materia prima eletta da Gilardi, si trasforma da strumento per reinventare l’habitat (attraverso i tappeti-natura e la mostra Arte Abitabile) a mezzo per elaborare l’habitus (attraverso i mascheroni, le animazioni teatrali, i carri allegorici). Rimane costante il carattere di usabilità e polivalenza che questa produzione plastica promuove, assieme ad un estetica del bricolage e del do it yoursel, ad una potenzialità trasformativa e partecipativa, infine, che le caratteristiche biomorfe ed economicamente irrilevanti del materiale portano con sé. È da qui che ha origine quella carnevalizzazione del mondo che per Gilardi (come per Bachtin) è un elemento imprescindibile per profanare i tempi e ribaltare i luoghi, le distribuzioni funzionali, le attribuzioni sociali.
Rispetto all’oggetto lontano e assoluto che l’arte continua incessantemente a prefigurare, in Gilardi non c’è altro che la prossimità di un mondo avvicinato e familiarizzato, un mondo che non va contemplato ma capovolto, smontato e rimontato attraverso il riso, l’immaginazione e l’imprecazione gioiosa. Il carnevalesco non rispetta le divisioni tra il politico e l’estetico, tra l’alto e il basso, tra il sensibile e l’immateriale, tra l’idealizzazione del passato e il presente incompiuto: le trasgredisce con una combinazione di corpi e segni che si fanno e si disfano continuamente, con una mescolanza di serietà e divertimento, con sfide alla irreversibilità del tempo. In questo temporaneo sovvertimento dell’ordine esistente, le cose, i ruoli, le azioni non sono più l’espressione di qualcosa che preesiste ed è già dato implicitamente, ma sono l’espressione di un nuovo orizzonte che si è aperto. L’oggetto, i mezzi della sua rappresentazione e l’artista stesso si creano nel corso del processo (sempre collettivo e dialogico) come co-produzione di possibilità e differenze. Ecco che quando le attitudini diventano istituzione, potremmo dire, Gilardi non ha altro da contrapporgli che una politica dell’evento.
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