L’avvenire appartiene ai fantasmi
Passare a ogni costo di Didi Huberman e Giannari
A spectre is haunting Europe — the spectre of communism.
All the powers of old Europe have entered into a holy alliance to exorcise this spectre: Pope and Tsar, Metternich and Guizot, French Radicals and German police-spies.
K. Marx
Passano e pensano a noi
N. Giannari
Nella fuga incessante e disperata di quel settembre del 1940, in una borsa nera di cuoio in cui l’ultimo manoscritto solo in apparenza ruba lo spazio alla morfina, Portbou è la soglia, il passaggio ultimo alla frontiera franco spagnola del profugo Walter Benjamin. Privato ormai della nazionalità tedesca dal 1939, perduta per sempre l’abitazione parigina, Benjamin accetta, con i suoi compagni di fuga, di raggiungere la frontiera. Ma quel giorno la Spagna chiude il suo confine e il piccolo gruppo di profughi deve tornare indietro. Viene offerta una dilazione di un giorno e nella notte Benjamin, la notte del 25 settembre, scrive un’ultima lettera indirizzata ad Adorno: «In una situazione senza uscita, non ho altra scelta se non quella di farla finita». Poco dopo ingerisce la morfina che ha con sé e muore. È la sera del 26 settembre. Quella stessa notte arriva il consenso all’ingresso in Spagna. Gli altri passano.
La storia di Walter Benjamin – e la sua fine – è una delle apparizioni, dei fantasmi che abitano non solo questo titolo: questi spettri, questi revenants come condizioni di possibilità della memoria – e del futuro – secondo la fascinosa quanto fondamentale citazione dal Derrida di Spettri di Marx animano le pagine profonde di Georges Didi Huberman di Passare a ogni costo (con N. Giannari, Edizioni Casagrande, 2019). Il testo si pone come un dittico in cui le riflessioni politiche di Didi Huberman fanno da glossa – o da voce off – al vibrante testo poetico (Degli spettri si aggirano per L’Europa, Lettera da Idomeni) di Niki Giannari, artista e militante greca con la quale il filosofo francese è riuscito a intessere un dialogo ospitale con una pluralità di voci. E ovviamente di immagini. Passare a ogni costo si colloca nel cuore della questione politica dalla più alta tensione etica, proseguendo l’opera di costruzione teorica del filosofo francese sulla presa di posizione delle immagini in rapporto alla storia, alla temporalità, alla memoria e all’archivio immortalata dalla mostra Soulevements. Il migrante è, nelle parole di Didi Huberman, quel nomade che abbiamo dimenticato e reso esule e che ci insegna che passare- e i passaggi, ancora una volta la figura di Benjamin- è un desiderio, insopprimibile.
«Passare. Passare a ogni costo. Piuttosto crepare che non passare. Passare per non morire in questo territorio maledetto e nella sua guerra civile. Essere fuggito, aver perduto tutto. Passare per tentare di vivere qui dove la guerra è meno crudele. Passare per vivere come soggetti del diritto, come semplici cittadini. Poco importa il paese, purché sia uno Stato di diritto. Passare dunque per cessare di essere fuori dalla legge comune. […] In ogni caso: passare per vivere. Ma quando siete fuggiti dalle mura chiuse delle cantine bombardate, avete trovato un confine chiuso e un filo spinato nel campo di Idomeni».
A Idomeni piove. Battente, quasi incessante, come un’ulteriore persecuzione per chi ha già perso tutto, e ora si trova in fuga ma non in cammino, forzatamente bloccato nella cittadina al confine fra Grecia e Macedonia dalla chiusura delle frontiere. Piove sulle tende, piove sulle teste delle persone, piove sul tufo, destinato a diventare fanghiglia, sporca e viscida. Piove sulle scarpe aperte, rotte, troppo grandi o troppo piccole, che in questa melma affondano tentando di non scivolare, piove nelle ciotole in cui si attende che venga versato il rancio. Eppure, queste quindicimila persone accampate nelle tende e falcidiate anche dalle intemperie non sono combattenti, non sono galeotti, non sono colpevoli: sono normalissimi uomini, donne e soprattutto tanti bambini, provenienti dalla Siria, dall’Iran, dal Bangladesh – le guerre lasciate faticosamente e dolorosamente alle spalle, la fame e la miseria che ancora li attanagliano, una speranza all’orizzonte chiamata Germania, il cuore pulsante di quell’Europa che ora ha chiuso i confini nazionali e che li tiene bloccati in uno squallido campo profughi da giorni, settimane, mesi.
Open the border, aprite il confine, è, infatti, il coro incessante degli esuli protagonisti del bellissimo documentario del 2016 di Maria Kourkouta e di Niki Giannari: un urlo di dolore e poi di battaglia. Des Spectres hantent l’Europe inizia con una lunga inquadratura fissa in cui viene ripresa una strada sterrata percorsa incessantemente dai migranti. Questi attraversano lo schermo con passo veloce e nessuno di loro parla. Camminano in silenzio, distrutti dalla stanchezza, con le scarpe consumate e ben poca speranza di attraversare il confine. Le due registe mostrano di volersi concentrare sui dettagli, sui corpi infiacchiti, le scarpe distrutte, i brandelli di conversazione pieni di disillusione. E la solitudine iniziale di queste soggettività monadiche che camminavano verso la frontiera chiusa si fa mano a mano complicità, dialogo estemporaneo, condivisione di spazi e destini. Fino ad arrivare a un cambio di passo, quello in cui vediamo essersi creata una comunità di migranti che protesta in maniera veemente e disperata. Costoro fermano un treno diretto verso la Grecia in segno di protesta per il confine sbarrato, indispettendo così le autorità locali.
Sulla scia del sapere inquieto, proteiforme delle immagini – anche di questo testo – Didi Huberman aggiunge il tassello più incisivo al progetto di un’antropologia dell’immagine stessa, iniziato con L’invenzione dell’isteria, dove la questione era lo sfondo del conflitto tra un sapere in via di costruzione (quello prettamente maschile dei medici della Salpetriere) e l’insieme fatto di gesti e dolore messo in scena in maniera spettacolare dalle pazienti della clinica. È su questo punto che il rapporto tra immagini e discorso sul sapere – di chiara matrice foucaultiana – incontra il fantasmatico di origine warburghiana e la costellazione di accenti cari al filosofo francese: le immagini che riescono a sopravvivere con il loro portato residuale e di resistenza al disordine viscerale dei monstra della guerra, teatro e sintomo del tempo. Ancora una volta, a non passare sono le immagini da Idomeni, i gesti dei migranti di fronte a una macchina da presa fissa. È la vita a essere dalla loro parte, e non dalla nostra.
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