Liana l’anarchica, separatista, queer
A un anno dalla morte di Liana Borghi, attivista e teorica di primo piano del femminismo lesbico e queer, la casa editrice Fandango ne ricorda la figura, l’opera e il pensiero – un pensiero inquieto, aperto e in divenire – con Tessiture. Il pensiero fertile di Liana Borghi, un libro collettaneo fortemente voluto da molte delle numerose persone che con Liana Borghi hanno studiato, creato, lottato, costruito e immaginato altri mondi. Ne pubblichiamo oggi un estratto, di Federico Zappino, ringraziando l’editore per la disponibilità.
Il libro sarà presentato sabato 11 marzo alla Casa internazionale delle donne (Via della Lungara, Roma) dalle co-autrici Elena Biagini, Francesca Manieri, Maria Nadotti, Antonella Petricone e Monica Pietrangeli.
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Per coloro che si affacciano ora, in Italia, all’attivismo e allo studio del trans-femminismo queer, il nome di Liana Borghi è associato alle opere di Donna Haraway, di Paul B. Preciado e, più di recente, a quelle di Karen Barad. Questo perché, effettivamente, si tratta di nomi che Liana ha contribuito in maniera decisiva a far conoscere in Italia, traducendone le opere a partire dalla metà degli anni Novanta fino agli ultimi anni della sua vita. È grazie alla sua volontà di tradurre, con Feltrinelli, libri di grande successo come Manifesto cyborg e Testimone-modesta@femaleman-incontra-oncotopo che Haraway è così nota e dibattuta anche in Italia e che possono proliferare così tanti studi attorno al suo pensiero e altre traduzioni delle sue opere. Ai tempi di Manifeste contra-sexuel, nei primi anni Duemila, quando il nome di Preciado era Beatriz ed era decisamente meno noto di adesso, Liana si adoperò per tradurre immediatamente in italiano la sua opera insieme all’allora Centro studi GLTQ – e nel 2019 lo ha ritradotto col titolo Manifesto controsessuale, per Fandango, sull’onda del successo della sua traduzione di Terrore anale, avvenuta l’anno prima. Negli ultimi anni, inoltre, Liana si era innamorata del realismo agenziale neomaterialista di Karen Barad, ed è nuovamente grazie a lei se possiamo leggere in italiano Performatività della natura. Quanto e queer.
Liana, tuttavia, era un’anarchica e i suoi sentimenti anarchici si palesavano non solo nello studio letterario dei testi delle femministe anarchiche (di rilievo, ad esempio, i suoi studi sulla rivista «Mother Earth», fondata da Emma Goldman), ma innanzitutto nella sua adesione alla pratica concreta, instancabile, di condividere saperi senza creare poteri, per parafrasare il motto di Primo Moroni. Anche al di là e a prescindere dalle copertine e dai frontespizi sui quali Liana apponeva esplicitamente la firma, ciò che non può essere dimenticato in nessun modo è il ruolo decisivo – un ruolo non autoriale, forse addirittura anti-autoriale – svolto da Liana a partire dai primi anni Ottanta nell’introduzione nel dibattito italiano, politico e accademico, di moltissimi nomi del pensiero lesbo-femminista, queer e trans internazionale che ora sono senz’altro più noti, in alcuni casi comuni, ma di cui lei già parlava nei suoi discorsi e nei suoi scritti quando da noi erano non solo sconosciuti, ma la cui conoscenza e diffusione era spesso ostacolata, più o meno volontariamente, dal femminismo italiano che, fino a quel periodo, era polarizzato principalmente attorno alla Libreria delle Donne di Milano, ancorato profondamente al pensiero della differenza sessuale, e dunque più affine alle elaborazioni teoriche di Luce Irigaray o di Antoinette Fouque.
Da Adrienne Rich – di cui Liana tradusse e curò alcuni testi1 – a Monique Wittig – tradotta invece nello stesso periodo da Rosanna Fiocchetto, fra le altre, con cui Liana fondò la casa editrice indipendente Estro –, da Eve Kosofsky Sedgwick a Judith Butler, da bell hooks a Audre Lorde – di cui Liana curò l’edizione italiana di Zami, tradotto nel 2014 da Grazia Di Canio –, da Ursula K. Le Guin a Joanna Russ, da Jack Halberstam – di cui Liana affidò a Federica Frabetti il compito di tradurre Female Masculinity per la collana àltera dell’editore ETS di Pisa, che coordinava con Marco Pustianaz – a Sara Ahmed, il cui Vivere una vita femminista (tradotto da Marta d’Epifanio, Beatrice Gusmano e Serena Naim) è stato pubblicato in Italia pochi giorni dopo la morte di Liana, ma, nuovamente, grazie a lei e sempre per la collana àltera. Nel 2012, proprio per questa collana, Liana si adoperò peraltro con grande passione ai fini della pubblicazione della prima antologia in italiano di teoria queer, Canone inverso, curata da Elia A.G. Arfini e Cristian Lo Iacono, al cui interno si possono leggere testi di autorialità che, nella stragrande maggioranza dei casi, hanno finora trovato in quel volume l’unica occasione di traduzione in italiano, come ad esempio Lauren Berlant, Ann Cvetkovich, Lee Edelman, Sandy Stone o Simon Watney. In quella circostanza fu la stessa Liana a telefonarmi la prima di tantissime volte, per chiedermi di tradurre, per questa opera collettiva, un testo di Judith Butler della fine degli anni Ottanta. È stata dunque Liana a «produrmi» come traduttore di Butler, dal momento che la mia traduzione di quell’articolo – Atti performativi e costituzione del genere: saggio di fenomenologia e teoria femminista – ha costituito la prima di una serie cospicua di libri decisamente noti e dibattuti, da Fare e disfare il genere a L’alleanza dei corpi.
Queste poche righe offrono un resoconto alquanto parziale dell’immenso, straordinario, lavoro culturale e politico, di «tessitura», in senso proprio «traduttivo», di Liana. Ma il mio obiettivo, per ora, non è quello di ricostruire l’opera della sua vita (anche se un lavoro del genere dovrebbe essere indubbiamente svolto), quanto piuttosto di sottolineare che può sembrare quasi incredibile, a chi si affaccia oggi al vasto campo degli studi e della militanza politica femminista, trans e queer – per il quale, come si sarà evinto, l’impulso di Liana è stato, ed è, letteralmente costitutivo –, apprendere che le radici teorico-politiche di Liana affondassero nel separatismo lesbico e che, di conseguenza, la nostra politica trans-femminista e queer sia legata a doppio nodo proprio alla peculiare, prismatica, esperienza separatista praticata da Liana Borghi.
Fin dagli esordi della sua militanza politica, di cui inizia a render conto in forma testuale solo nei primi anni Ottanta – L’eterosessualità obbligatoria. Nel bosco di notte2 del 1983 ne costituisce indubbiamente il gesto inaugurale, scritto in risposta al dibattito aperto dalla Libreria delle Donne di Milano –, Liana avverte infatti di trovarsi in una posizione paradossale – la definisce «un luogo senza prospettiva», metaforicamente «un ciglio erboso nascosto fra gli alberi»: quella di condividere con il femminismo la necessità di contrastare il patriarcato («il maschile mi nega perché non c’è posto nella sua rappresentazione per me donna») e quella di occupare una posizione minoritaria, in seno allo stesso movimento femminista, sul fronte della necessità di contrastare il sistema sociale eterosessuale. Per Liana, infatti, limitarsi a «essere donna nell’altrui sociale significa essere in relazione di eterosessualità con tutti gli esseri umani»:
fintanto che da questa relazione di eterosessualità io prendo le distanze – nei mille modi della resistenza e del separatismo – mi è possibile tessere una rete di rapporti che mi sostiene nell’intenzionale diversità rispetto alla normalità; che è per me norma rispetto all’imposizione eterosessuale. Ma chi condona e perdona la norma eterosessuale, anche attraverso il silenzio, trasmette in codice l’ottica vincente dell’eterocrazia, l’ottica che impedisce a me di tradurre in realtà sociale l’esperienza, il sapere e il valore di essere donna lesbica.
La peculiare esperienza separatista di Liana, pertanto, non si fondava solo sul principio della scissione delle donne dagli uomini e, dunque, dalla relazionalità sociale patriarcale. Si fondava innanzitutto sul principio di una scissione dalla relazionalità sociale fondata sull’eterosessualità, e ciò presupponeva anche una scissione da altre donne e femministe che invece non ravvisavano alcun problema nella relazionalità eterosessuale, né nelle identificazioni di genere da essa istituite e ad essa funzionali (i generi binari e complementari uomo e donna), o che non comprendevano fino a che punto il patriarcato e l’eterosessualità si presupponessero a vicenda e stessero dunque in piedi – e crollassero – insieme. Peraltro, il nesso evidente che per Liana sussisteva fra il patriarcato e l’eterosessualità si evince chiaramente nella posizione, scomodissima, assunta rispetto ai gruppi gay: nell’intervento dal titolo Il lesbismo tra desiderio e paura, del 19883, Liana riferiva infatti che, nella propria esperienza separatista lesbica, il rifiuto di prendere parola e di lottare insieme ai gay si dovesse non solo al rispetto delle differenze politiche fra i due gruppi sociali, ma innanzitutto al fatto che, per quanto i gay fossero oppressi sull’asse della sessualità, essi occupassero comunque una posizione dominante sull’asse del genere e godessero del «privilegio del genere maschile in una società patriarcale». In altri termini, il monito di Monique Wittig aveva per Liana un peso specifico e si impegnava concretamente a tradurlo nella pratica politica: «Se in quanto lesbiche e gay continuiamo a parlare e a concepirci come donne e come uomini, diventiamo funzionali al mantenimento dell’eterosessualità».
Nonostante i gruppi gay manchino tutt’oggi, spesso, di dimostrare inequivocabilmente il proprio intento di rifiutare i privilegi loro accordati dalla società patriarcale («in quanto maschi, non in quanto gay», ci ricorda tuttavia Mario Mieli), nonché di cogliere la funzione di rafforzamento dell’ordine eterosessuale svolta dalla posizione dominante maschile anche nei casi in cui non sia eterosessuale, il posizionamento separatista adottato da Liana nel 1988 suonerebbe oggi terribilmente retrivo, e non solo perché, col tempo, sono state le stesse autorialità «tradotte» da Liana – su tutte, Judith Butler e Eve Kosofsky Sedgwick – a illustrare quanto la violenza omofobica sia essa stessa, in molti casi, una delle forme assunte dalla violenza di genere, ma innanzitutto perché, col tempo – cioè con la piena affermazione della razionalità neoliberista, altamente illusoria, dell’«inclusività» –, ogni forma di separatismo sembra essere divenuta espressione di un arroccamento identitario e, dunque, di un atteggiamento immediatamente anti-inclusivo, se non addirittura escludente, nei riguardi di altre soggettività e di altre lotte.
Eloquenti restano in questo senso le parole, quasi di ripensamento, pronunciate dalla stessa Liana, una decina di anni dopo, nell’intervento fondativo dal titolo Insegnare il queer:
Il mio progetto lesbico, per quanto non sia né facile né possibile – e forse nemmeno desiderabile – tenerlo «sotto controllo», riguarda ogni aspetto della mia vita. Lavoro come insegnante all’università, e da quando mi sono identificata con il lesbismo mi pongo il problema di come insegnare da lesbica. Non entro nella gamma di accezioni della parola «lesbica», la cui storia è di per sé un progetto di «potere» ideologico e politico. Qui intendo il posizionamento di una persona che si identifica con una storia di genere femminile segnata dalle divergenze tra la prospettiva etero-femminista e quella lesbica; che per il sesso e gli affetti preferisce le donne, ma che eticamente si sente responsabile di una pratica di nonviolenza e solidarietà condivisa con altri soggetti «marginali». La definizione che trovo più consona alle mie ispirazioni è il «soggetto eccentrico» – lesbico, ibrido e in/appropriato – descritto da Teresa de Lauretis: una forma di soggettività «raggiunta attraverso pratiche di spostamento politico e personale, attraverso confini, identità e comunità socio-sessuali, tra corpi e discorsi».
Per vari anni, in un periodo di forte politicizzazione lesbica, ho insegnato corsi di Women’s Studies. I rari uomini interessati, sentendosi poco considerati in un discorso che si indirizzava sempre alle donne presenti, non frequentavano. Era un modo indolore per creare un ambiente separatista. Ma ultimamente, ho molti studenti di entrambi i sessi. Così, mi è sembrato importante cercare un approccio che costruisca ponti su e attraverso il genere, affrontando il tema dell’omosessualità come una forma, specifica ma sempre una, tra le tante forme di discriminazione che pratichiamo quotidianamente, spesso senza nemmeno rendercene contro. Pur continuando a vivere una vita «lesbica», ho quindi deciso di provare a insegnare il queer… Opposto alla politica dell’identità, non separatista, convinto dell’illusione del gender, il queer sostiene il polimorfismo sessuale e de-genere, sottolinea attraverso la parodia e la performance il rifiuto dell’assimilazione e del sistema eterosessuale, e cerca alleanze per affinità con tutti i soggetti oppressi4.
Si noti che nel 1997, anno in cui Liana pronunciava queste parole, la parola «queer» era pressoché sconosciuta in italiano. L’anno prima, un’amica di Liana, Simona Capelli, aveva tradotto Corpi che contano di Judith Butler, per Feltrinelli, in cui certo si parlava di «queer», ma la parola e il concetto restavano ben lungi dall’essere di uso comune come invece lo è oggi. Ciò su cui mi preme focalizzare l’attenzione, tuttavia, è che fra le varie formule che Liana scelse per definire il queer vi era anche quella di «non separatista». Dal momento che il «queer» è un metodo che presiede a forme di elaborazione teorica e di pratica politica e che si fonda sulla necessità della condivisione di saperi, esperienze e forme di lotta fra gruppi accomunati dall’oppressione di genere e sessuale – «queer» in quanto divergenti rispetto a una norma, che è quella maschile e cis-eterosessuale –, allora il queer non può essere «separatista». Ma un metodo, un movimento e un modo di teorizzare animati dal «rifiuto dell’assimilazione» e «del sistema eterosessuale», come scriveva Liana Borghi, possono mai essere, davvero, «non separatisti»?
Ancora una volta, al di là e a prescindere dai testi o dalle definizioni sui quali Liana metteva la propria firma, è nella pratica concreta, ancora una volta «anarchica», in senso proprio, della sua vita e del suo modo di fare politica, che troviamo una risposta a questa domanda. Nelle molteplici forme della sua militanza «queer», inaugurate contestualmente a quel testo della fine degli anni Novanta, Liana riusciva a dar vita, in senso letterale, a forme di socialità e di scambio in cui le differenze fra coloro che vi prendevano parte, e cioè le loro oppressioni, non solo non sussistevano in alcun ordine gerarchico, ma non erano soprattutto di ostacolo a una più ampia lotta comune contro il sistema sociale maschile e cis-eterosessuale che tutte quelle «differenze» produce ancora in modi che sono indiscernibili dalle diseguaglianze, dall’oppressione, dalla sproporzionata esposizione alla violenza, all’esclusione sociale o, com’è invece frequente nelle nostre società neoliberiste, all’inclusione condizionale. A condizione, cioè, che le soggettività da includere rispettino quei «requisiti di conformità» che proprio Liana ha contestato instancabilmente fino agli ultimi anni della sua vita:
L’Amore con la A maiuscola è una grande performance codificata nei secoli e che da secoli ci costruisce, produttiva di un immaginario che cementa la struttura sociale, complice del capitalismo nel darci l’illusione di un rifugio in tempi bui. Purtroppo non riesco a credere che la famiglia ci salverà, nonostante le famiglie non eteronormate sembrino offrire maggiori speranze… E quanto al matrimonio agognato come certezza di permanenza o forme più durature nel rapporto, oppure scelto come riparazione di discriminazioni sociali, non credo che lesbiche, gay e trans possano migliorare sposandosi questa istituzione di privilegio e discriminazione. Sarà l’istituzione stessa a cambiarci. E comunque come gli eterosessuali, abbiamo e avremo i nostri tradimenti, abbandoni, divorzi, liti sulle spartizioni dei beni, degli oggetti, dei figli, dei cani e dei gatti – assistite dalle nostre avvocate. Mi sembra che, abbandonato il desiderio di vivere in un mondo migliore, ci stiamo proprio provando a essere come tutti gli altri. Penso a come rendiamo docili i nostri corpi per avere cittadinanza nella norma – per quanto la cittadinanza non sia mai permanente, ma sia sempre intermittente e aleatoria, condizionata dalla nostra adesione a politiche securitarie che obbediscono alla logica del dentro/fuori – dove il confine tra dissidente, clandestino e integrato raramente è stabile e garantito. E penso a come vengono manipolati i nostri sentimenti… Siamo state recuperate, riabilitate all’uguaglianza neoliberista, alla famiglia standard, persino all’esercito – mentre assistiamo alle perdite nel sociale, all’impoverimento dell’istruzione, al dileguarsi dei diritti e del lavoro nel nostro presente degradato dove continuano i pestaggi ma si autorizzano i raduni neofascisti, dove sfruttamento e precarietà sono la norma, mentre le donne continuano a essere ammazzate dai loro uomini nonostante si sia architettata una specie di legge per proteggerle, e i Centri di identificazione ed espulsione non li chiude nessuno, anzi continuano a riempirli le carrette del mare, quelle che non affondano. Perciò penso sia opportuno cercare di capire quali nostri atteggiamenti ci normalizzano e ci portano ad accettare questa situazione, a rifugiarci nella piccola felicità individuale, che non è poco, certo, e di per sé è una gran fortuna, ma non basta a rendere buona una vita cattiva5.
Dall’interno, le forme di socialità e di condivisione politica a cui Liana Borghi dava vita – le forme di messa in comune di saperi, di esperienze e di pratiche politiche e di lotta fra soggettività diverse fra loro, finalizzate in ogni caso alla sovversione del dominio maschile e cis-eterosessuale – mi sono sempre sembrate non anti-separatiste, bensì separatiste queer. Forse, ne era convinta anche Liana.
Quando morì, l’amica e compagna Paola Fazzini mi porse la copia di Comunismo queer che Liana teneva con sé. Al suo interno, fra i tanti appunti presi a matita, ai bordi delle pagine, un unico, grande, segnalibro, proprio nel capitolo dedicato al separatismo queer – a questo capoverso:
Ho in mente alcuni importanti, benché embrionali, e fragili, esempi di lotte comuni tra donne, cis e trans, persone trans, gay, lesbiche, bisessuali, intersessuali, asessuali – lotte comuni in cui la diversità delle forme culturali e materiali delle rispettive oppressioni non viene né minimizzata, né relativizzata, né strumentalizzata per stabilire quali di queste forme sia più ricorrente e oppressiva delle altre, bensì è precisamente ciò che indica la forma che deve assumere una visione sovversiva comune, della comune matrice di oppressione. Il separatismo potrebbe essere una pratica di supporto al «lavoro ideologico» funzionale al coinvolgimento delle «classi alleate potenziali»: uno strumento di organizzazione di una classe che ambisce evidentemente alla realizzazione di un’altra idea di realtà, diversa da quella della classe dominante. Questo separatismo è queer perché la «classe» non è tenuta insieme né dal sesso, né dai cromosomi, né dall’identità bensì dalla lotta comune, dall’alleanza tra soggettività diverse, le cui oppressioni sono tuttavia egualmente riconducibili a una medesima matrice di oppressione, la cui ideologia, tali soggettività, non intendono affatto riprodurre6.
D’altronde, se la «vita cattiva» del presente neoliberista mette fuori gioco le forme di separatismo, edificando l’illusione di una «società delle differenze» che si fonda sul disciplinamento dell’inclusività anziché sull’eliminazione dei presupposti dell’esclusione, diventa tanto più urgente, per noi, pensare e praticare forme di separatismo in cui le diverse soggettività oppresse scoprano di essere accomunate dall’obiettivo di prendere letteralmente le distanze dal mondo così com’è, con tutte le sue gerarchie e le sue naturalizzate diseguaglianze, stando forse ai margini della collettività, e tuttavia sull’orlo di una futurità insorgente, in cui altri modi di fare-mondo, di vivere e di amare, possano diventare possibili, tentacolari, contro-egemonici – e lo diventeranno.
Post-scriptum
Ho amato profondamente Liana, e mi sono sentito amato enormemente da lei, dal primo momento del nostro incontro, in un bar a Firenze nel novembre del 2011, in occasione di una presentazione con Eleonora Pinzuti del libro di Sedgwick che avevo appena tradotto, Epistemology of the Closet, e che Liana amava alla follia. Questo è ciò che più di ogni altra cosa vorrei dire a chi avesse interesse a sapere chi fosse per me Liana Borghi.
Non era l’amore che si può provare per la madre, il mio, né ho mai percepito nel suo amore un che di materno – non era, per me, la «madre simbolica» del femminismo della differenza sessuale, e io non ero suo «figlio simbolico». E non era nemmeno l’amore eterosessuale, né l’amore eteronormato – anche se «da diecimila metri di altezza», per parafrasare proprio un testo di Liana, l’amore di cui parlo non può che sembrare tale, «perché eterosessuale è la lente culturale attraverso la quale [ci guardate]»7. È difficile, in effetti, definire l’amore fra una lesbica queer – così si definiva in In the Archive of Queer Politics8– e un cub demisessuale in un modo che sembri comprensibile a un pubblico così abituato a parlare d’amore solo in relazione a una coppia di persone che fra loro hanno una relazione modellata sulla falsa riga della relazione eterosessuale, con tutti i suoi corollari (frequenza, coabitazione, sessualità genitale o addirittura procreativa…). Ma era la stessa Liana, d’altronde, a scrivere della necessità di «decostruire il dispositivo della coppia come figurazione basilare dell’eteropatriarcato, e decolonizzare il concetto, la pratica e la performance della coppia, al fine di trasformare la nostra struttura sociale eteronormativa»9. Forse, allora, il nostro era uno di quegli amori che emergono proprio ai bordi di questa «struttura sociale eteronormativa», e della stessa intelligibilità dell’amore normale e normato. Il nostro era un amore che non aveva nulla di nuovo, perché anche all’interno di quello stesso regime di intelligibilità occupava una qualche zona fra la norma e la possibilità della sua sovversione. Ma il nostro, forse, era uno di quegli amori che riferiscono proprio di quella condizione in cui versa l’amore stesso quando non è né normato né sovversivo, ma è l’amore nella propria condizione di anonimità, ciò che non siamo ancora in grado di nominare, ciò che sfida, e complica, ogni tentativo di nominazione. Quando mi innamorai di Liana, tanti anni fa, «appresi» – improvvisamente, totalmente – che rappresentasse una possibilità di accesso a una qualche verità vitale, a un modo di sentire e di pensare così grandemente radioso, al punto che perdere il filo di quella relazione avrebbe significato precipitare in uno stato semidesertico di deprivazione ontologica10.
È effettivamente in questo stato che sono precipitato dopo la tua morte, Liana, e penso che mi tratterrò qui ancora per un po’. So che sono tantissime le persone a trovarsi in questa stessa condizione. Possa non abbandonarci la forza del tuo pensiero, il suono della tua voce, la luce del dono, immenso, di te – sub specie aeternitatis.
Note
↩1 | Si tratta di Esplorando il relitto (Savelli, 1979) e Spacco alla radice/Sources, pubblicato per Estro nel 1985. |
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↩2 | Apparso in CLI – Collegamento Lesbiche Italiane, Il nostro mondo comune, Felina, 1983. |
↩3 | In CLI – Collegamento Lesbiche Italiane, VII, 1988 (ripubblicato in «Rivista di sessuologia», 13, 4, 1989). |
↩4 | Liana Borghi, Insegnare il queer. Marginalità, resistenza, trasgressione, in Gigi Malaroda, Massimo Piccione (a cura di), Pro/posizioni. Otia Labronica ‘97, Atti del convegno di studi, Edifir, 2000. |
↩5 | Liana Borghi, Assemblaggi affettivi. L’amore al tempo del quanto queer, Postfazione a Manuela Galetto, Gaia Giuliani, Chiara Martucci (a cura di), L’amore al tempo dello tsunami, ombre corte, 2014. |
↩6 | Federico Zappino, Comunismo queer. Note per una sovversione dell’eterosessualità, Meltemi, 2019, p. 261 |
↩7 | Liana Borghi, Come una spiaggia del mare: Sarah, Clare, Harry/Harriet, Del/la e i frattali di una auto/biografia, in Liana Borghi, Clotilde Barbarulli (a cura di), Figure della complessità. Genere e intercultura, CUEC, 2004. |
↩8 | Liana Borghi, In the Archive of Queer Politics. Adrienne Rich e Dionne Brand Listening for Something, in Liliana Ellena, Leslie Hernandez Nova, Chiara Pagnotta (a cura di), World Wide Women. Globalizzazione, generi, linguaggi, CIRSDE, 2012. |
↩9 | Liana Borghi, If Love Is a Time Machine, intervento al convegno «Queering Partnering», Universidade de Coimbra, 30-31 marzo 2016. |
↩10 | Eve Kosofsky Sedgwick, Dialogue on Love, Beacon Press, 2000. |
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